La Repubblica 5 ottobre 2001
Le guerre sante passione e ragione
di Umberto Eco
Che qualcuno abbia, nei giorni scorsi, pronunciato parole
inopportune sulla superiorità della cultura occidentale, sarebbe un fatto
secondario. E' secondario che qualcuno dica una cosa che ritiene giusta ma nel
momento sbagliato, ed è secondario che qualcuno creda a una cosa ingiusta o
comunque sbagliata, perché il mondo è pieno di gente che crede a cose ingiuste e
sbagliate, persino un signore che si chiama Bin Laden, che forse è più ricco del
nostro presidente del Consiglio e ha studiato in migliori università. Quello che
non è secondario, e che deve preoccupare un poco tutti, politici, leader
religiosi, educatori, è che certe espressioni, o addirittura interi e
appassionati articoli che in qualche modo le hanno legittimate, diventino
materia di discussione generale, occupino la mente dei giovani, e magari li
inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione del momento. Mi
preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la si cambia
più.
Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per
secoli sono nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come
Noi e gli Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è
dimostrata feconda (non solo dall'Illuminismo a oggi ma anche prima, quando il
francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo qualcosa
da apprendere anche dagli infedeli) è anche perché si è sforzata di
"sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le
semplificazioni dannose. Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché fanno parte
della storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri,
condannava l' arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze
"inferiori", o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare "Dio
stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei cinque pasti" e dunque dei
ghiottoni inferiori all'italiano parco e spartano.
Ma sono gli aspetti
migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere coi giovani, e di
ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi
vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che spesso non si riesce a
cogliere la differenza tra l'identificazione con le proprie radici, il capire
chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o male. Quanto a radici, se mi
chiedessero se preferirei passare gli anni della pensione in un paesino del
Monferrato, nella maestosa cornice del parco nazionale dell'Abruzzo o nelle
dolci colline del senese, sceglierei il Monferrato. Ma ciò non comporta che
giudichi altre regioni italiane inferiori al Piemonte.
Quindi se, con le
sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per gli arabi), il
presidente del Consiglio voleva dire che preferisce vivere ad Arcore piuttosto
che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto che in uno di
Bagdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a parte). E questo
anche se mi dicessero che a Bagdad hanno istituito l'ospedale più attrezzato del
mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo influirebbe anche sulle mie
capacità di ripresa. Le radici possono essere anche più ampie di quelle
regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto per dire, che a Mosca.
Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente, ma a Limoges capirei la
lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura in cui è cresciuto e i
casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una minoranza. Lawrence
d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine è tornato a casa
propria.
Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto.
L'Occidente, sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato
curioso delle altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci
chiamavano barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua
e dunque era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli
stoici (forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto
avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si
riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con grande
rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana
medievale cercavano di farsi tradurre i testi dei filosofi, medici e astrologi
arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di
ricuperare perdute saggezze orientali, dai Caldei agli Egizi, Montesquieu ha
cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi
moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che
andavano sì presso i Bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire
quale fosse il loro modo di pensare e di vivere forse memori del fatto che
missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà
amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio.
Ho nominato gli
antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del XIX secolo in
avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo di sanare il
rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di quegli Altri
che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli primitivi. L'Occidente
coi selvaggi non era stato tenero: li aveva "scoperti", aveva tentato di
evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti ne aveva ridotto in schiavitù, tra
l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le navi degli schiavi venivano scaricate
a New Orleans da raffinati gentiluomini di origine francese, ma stivate sulle
coste africane da trafficanti musulmani. L'antropologia culturale (che poteva
prosperare grazie all'espansione coloniale) cercava di riparare ai peccati del
colonialismo mostrando che quelle culture "altre" erano appunto delle culture,
con le loro credenze, i loro riti, le loro abitudini, ragionevolissime del
contesto in cui si erano sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che
si reggevano su una loro logica interna. Il compito dell'antropologo culturale
era di dimostrare che esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e
che andavano prese sul serio, non disprezzate e represse.
Questo non
voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli Altri,
decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il loro
pluriennale lavoro oltremare se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia
nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe
pensare che l'antropologia culturale sostenga una posizione relativistica, e
affermi che una cultura vale l'altra. Non mi pare sia così. Al massimo
l'antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria,
bisognava rispettare il loro modo di vivere.
La vera lezione che si deve
trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che, per dire se una cultura è
superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri. Un conto è dire che cosa
sia una cultura e un conto dire in base a quali parametri la giudichiamo. Una
cultura può essere descritta in modo passabilmente oggettivo: queste persone si
comportano così, credono negli spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé
tutta la natura, si uniscono in clan parentali secondo queste regole, ritengono
che sia bello trafiggersi il naso con degli anelli (potrebbe essere una
descrizione della cultura giovanile in Occidente), ritengono impura la carne di
maiale, si circoncidono, allevano i cani per metterli in pentola nei dì festivi
o, come ancor dicono gli americani dei francesi, mangiano le rane.
L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in
crisi da tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a
un ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, "no, sono
animista". Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha
almeno preso un diploma alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e quindi quel
bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli
antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un
antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva
scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno
asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato
cose abbastanza slegate tra loro che poi lui aveva riunito in un sistema
affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i
malintesi possibili di una cultura Altra si può avere una descrizione abbastanza
"neutra". I parametri di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre
radici, dalle nostre preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni,
da un nostro sistema di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il
prolungare la vita media da quaranta a ottant'anni sia un valore? Io
personalmente lo credo, però molti mistici potrebbero dirmi che, tra un
crapulone che campa ottant'anni e san Luigi Gonzaga che ne campa ventitré, è il
secondo che ha avuto una vita più piena. Ma ammettiamo che l'allungamento della
vita sia un valore: se è così la medicina e la scienza occidentale sono
certamente superiori a molti altri saperi e pratiche mediche.
Crediamo
che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità dei
trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di
giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del
mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in
armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei,
automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di
villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell'ozono. E dunque vedete
che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come
fa l'antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo
di non potere rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra
cultura, per noi, è migliore.
In questi giorni si è assistito a varie
difese di culture diverse in base a parametri discutibili. Proprio l'altro
giorno leggevo una lettera a un grande quotidiano dove si chiedeva
sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo agli occidentali e non agli
orientali. A parte il fatto che si trattava di un ignorante che non sapeva
quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a persone di pelle nera e a
grandi scrittori islamici, a parte che il premio Nobel per la fisica del 1979 è
andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam, affermare che riconoscimenti
per la scienza vanno naturalmente a chi lavora nell'ambito della scienza
occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno ha mai messo in dubbio che
la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi all'avanguardia.
All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia. Quanto è assoluto il
parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la bomba atomica e l'Italia
no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio vivere a Islamabad che ad
Arcore?
I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo
islamico ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a
Buchara, non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si
citino sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi,
Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del XIV secolo che fu
Ibn Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze
sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia,
matematica o medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro.
Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si
dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a
Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per
terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a
comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza
offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci.
Le
cose cambiano. Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai
tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il
Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi
cristiani di quanto non fossero stati i cristiani con i saraceni quando
Gerusalemme l'avevano conquistata. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci
sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che i cristiani non li tollerano e
Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un
incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha. Di
converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo, ma
questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari.
Non
andiamo a scomodare la storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi
impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti
pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne
facevano di cotte e di crude, ma i corsari di sua maestà britannica, con tanto
di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei carabi; Bin Laden e Saddam
Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della
civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin
(Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se
aveva studiato in seminario e letto Marx).
No, il problema dei parametri
non si pone in chiave storica, bensì in chiave contemporanea. Ora, una delle
cose lodevoli delle culture occidentali (libere e pluralistiche, e questi sono i
valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che si sono accorte da gran tempo che
la stessa persona può essere portata a manovrare parametri diversi, e mutuamente
contraddittori, su questioni differenti. Per esempio si reputa un bene
l'allungamento della vita e un male l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo
benissimo che forse, per avere i grandi laboratori in cui si studia
l'allungamento della vita, occorre avere un sistema di comunicazioni e
rifornimento energetico che poi, dal canto proprio, produce l'inquinamento. La
cultura occidentale ha elaborato la capacità di mettere liberamente a nudo le
sue proprie contraddizioni.
Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e
lo dice. In fin dei conti tutto il dibattito su globale-sì e globale-no sta qui,
tranne che per le tute nere spaccatutto: come è sopportabile una quota di
globalizzazione positiva evitando i rischi e le ingiustizie della
globalizzazione perversa, come si può allungare la vita anche ai milioni di
africani che muoiono di Aids (e nel contempo allungare anche la nostra) senza
accettare una economia planetaria che fa morire di fame gli ammalati di Aids e
fa ingoiare cibi inquinati a noi?
Ma proprio questa critica dei
parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia, ci fa capire come la questione
dei parametri sia delicata. E' giusto e civile proteggere il segreto bancario?
Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa segretezza permette ai terroristi di
tenere i loro soldi nella City di Londra? Allora, la difesa della cosiddetta
privacy è un valore positivo o dubbio? Noi mettiamo continuamente in discussione
i nostri parametri. Il mondo occidentale lo fa a tal punto che consente ai
propri cittadini di rifiutare come positivo il parametro dello sviluppo
tecnologico e di diventare buddisti o di andare a vivere in comunità dove non si
usano i pneumatici, neppure per i carretti a cavalli. La scuola deve insegnare
ad analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni
passionali.
Il problema che l'antropologia culturale non ha risolto è
cosa si fa quando il membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari
imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte
delle reazioni razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti
vivano nel Mali (basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega),
ma che gli animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi
vuole pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se
vogliono infibulare le loro ragazze, se (come accade per certe sette
occidentali) rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se
l'ultimo mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora)
vuole emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni
domenica?
Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in
galera (ma specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a
scuola col chador non vedo perché fare tragedie se a loro piace così, sulla
infibulazione il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così
tollerante da suggerire di farle gestire dalle unità sanitarie locali, così
l'igiene è salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne
musulmane possano essere fotografate sul passaporto col velo? Abbiamo delle
leggi, uguali per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei
cittadini, e non credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea
mi sono tolto le scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese
ospite. Come la mettiamo con la foto velata?
Credo che in questi casi si
possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti sono sempre infedeli e servono
a quel che servono, si studino delle tessere magnetiche che reagiscono
all'impronta del pollice, chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi
l'eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne frequenteranno le nostre scuole
potrebbero anche venire a conoscenza di diritti che non credevano di avere, così
come molti occidentali sono andati alle scuole coraniche e hanno deciso
liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri parametri significa anche
decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi
intollerabili.
L'Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e
costumi degli Altri, ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di
studiare usi e costumi dell'Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai
bianchi, o consentendo agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a
Parigi - e poi si vede cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa
a organizzare movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro
compatrioti che quegli studi non li possono fare (la storia è peraltro vecchia,
e per l'indipendenza dell'India si sono battuti intellettuali che avevano
studiato con gli inglesi).
Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano
studiato qualcosa dei paesi dove tramonta il sole, ma sono cose di cui sappiamo
abbastanza poco. Quanti antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare
l'Occidente per raccontarlo non solo ai propri concittadini, ma anche a noi,
dico raccontare a noi come loro ci vedono? Esiste da alcuni anni una
organizzazione internazionale chiamata Transcultura che si batte per una
"antropologia alternativa". Ha condotto studiosi africani che non erano mai
stati in Occidente a descrivere la provincia francese e la società bolognese, e
vi assicuro che quando noi europei abbiamo letto che due delle osservazioni più
stupite riguardavano il fatto che gli europei portano a passeggio i loro cani e
che in riva al mare si mettono nudi - beh, dico, lo sguardo reciproco ha
incominciato a funzionare da ambo le parti, e ne sono nate discussioni
interessanti.
In questo momento, in vista di un convegno finale che si
svolgerà a Bruxelles a novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un
artista, stanno terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo
che anziché limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine
non so cosa le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa
potranno spiegare anche a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano
invitati a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non
c'entrano i cattolici, sono protestanti americani, più fanatici di un ayatollah,
che cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo
che lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire
meglio la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra
santa (potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e
forse vedrebbero con occhio più critico l'idea di guerra santa in casa loro. In
fondo noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare
proprio descrivendo la pensée sauvage.
Uno dei valori di cui la
civiltà occidentale parla molto è l'accettazione delle differenze. Teoricamente
siamo tutti d'accordo, è politically correct dire in pubblico di qualcuno che è
gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che è un frocio. Come si fa a insegnare
l'accettazione della differenza? L'Academie Universelle des Cultures ha messo in
linea un sito dove si stanno elaborando materiali su temi diversi (colore,
religione, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che
vogliano insegnare ai loro scolari come si accettano coloro che sono diversi da
loro. Anzitutto si è deciso di non dire bugie ai bambini, affermando che tutti
siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o
compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso,
gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose
strane, non fanno la prima comunione. Né basta dirgli che sono tutti figli di
Dio, perché anche gli animali sono figli di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai
visto una capra in cattedra a insegnargli l'ortografia. Dunque bisogna dire ai
bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che
cosa sono diversi, per poi mostrare che queste diversità possono essere una
fonte di ricchezza.
Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i
suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità
diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso
deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una
comunità cristiana. Il passo successivo sarà mostrare che c'è qualcosa in comune
tra la nostra e la loro musica, e che anche il loro Dio raccomanda alcune cose
buone. Obiezione possibile: noi lo faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a
Kabul? Bene, questa obiezione è quanto di più lontano possa esserci dai valori
della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo
che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo
perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo
diventeremmo talebani anche noi.
Il parametro della tolleranza della
diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi
giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari
quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano. Punto e
basta. Altrimenti sarebbe come se decidessimo che, se in una certa area del
globo ci sono ancora cannibali, noi andiamo a mangiarli così imparano. Noi
speriamo che, visto che permettiamo le moschee a casa nostra, un giorno ci siano
chiese cristiane o non si bombardino i Buddha a casa loro. Questo se crediamo
nella bontà dei nostri parametri.
Molta è la confusione sotto il cielo.
Di questi tempi avvengono cose molto curiose. Pare che difesa dei valori
dell'Occidente sia diventata una bandiera della destra, mentre la sinistra è
come al solito filo islamica. Ora, a parte il fatto che c'è una destra e c'è un
cattolicesimo integrista decisamente terzomondista, filoarabo e via dicendo, non
si tiene conto di un fenomeno storico che sta sotto gli occhi di tutti. La
difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura
occidentale moderna in genere è stata sempre una caratteristica delle ali laiche
e progressiste. Non solo, ma a una ideologia del progresso tecnologico e
scientifico si sono richiamati tutti i regimi comunisti. Il Manifesto del 1848
si apre con un elogio spassionato dell'espansione borghese; Marx non dice che
bisogna invertire la rotta e passare al modo di produzione asiatico, dice solo
che questi di questi valori e di questi successi si debbono impadronire i
proletari.
Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso
più nobile del termine), almeno a cominciare col rifiuto della rivoluzione
francese, che si è opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si
deve tornare ai valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si
rifanno a una idea mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i
musulmani a Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui
anche molti che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a
riti e miti dei popoli primitivi, o alla lezione buddista, proprio all'Islam,
come fonte ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a
ricordarci che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del
progresso, e che la verità dobbiamo andarla a cercare tra i mistici Sufi o tra i
dervisci danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro.
Basta andare in una libreria e cercare negli scaffali giusti.
In questo
senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è solo segno
che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di questi)
nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di smarrimento che
bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre
superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle
scuole, e non solo nelle conferenze stampa.
Realizzazione del sito a cura di Luciano Rosso
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