Da LA REPUBBLICA del 3 febbraio 2002
Il punto della situazione a 5 mesi dal crollo alle Torri Gemelle
Che fine ha fatto la guerra di Bush
di Eugenio Scalfari
Quasi cinque mesi sono passati dal crollo delle Torri di
Manhattan e dall'immensa commozione che ne seguì. Sull'onda di quella commozione
tutto il mondo occidentale, e non esso soltanto, si strinse intorno all'America,
ferita ma non certo piegata, offrendole la sua solidarietà morale, politica e
militare con lo scopo comune di distruggere la rete terroristica e i suoi capi,
identificati fin dall'inizio nello sceicco Bin Laden e nei guerrieri e
terroristi di Al Qaeda; inseguirne le tracce e le connivenze ovunque si
manifestassero; smantellare quei regimi politici che avessero fornito protezione
e appoggio alla rete del terrore. Il presidente Bush previde che la guerra
sarebbe stata lunga e senza confini. Poiché Bin Laden si trovava in Afghanistan
sotto la protezione di quel paese ed anzi tutto lasciava intendere che fosse lui
e il suo amico mullah Omar a governare quello Stato coranico, il primo obiettivo
fu quello di abbattere il regime talebano, smantellare Al Qaeda, catturarne i
capi e "in primis" lo sceicco e il mullah. E la guerra cominciò, con il consenso
e il sostegno diversamente graduati degli alleati europei, dei Paesi arabi
moderati, del Pakistan, dell'Indonesia, dell'India, della Russia e della
Cina. Era, sia pure nel differente livello di partecipazione, la più grande
coalizione di tutti i tempi; ma gli Stati Uniti decisero fin dall'inizio che
preferivano non avere sul terreno delle operazioni truppe che non fossero le
proprie. Mobilitarono una flotta e un'armata aerea imponenti, reparti
sceltissimi, tutte le risorse investigative delle quali disponevano e
rovesciarono sull'Afghanistan una tempesta di fuoco mai vista prima. Allo stesso
tempo veniva attivata, in Usa e in Europa, una campagna antiterroristica a tutto
raggio con mutamenti sostanziali nelle legislazioni, nelle procedure, nel
sistema delle garanzie. La caccia cominciò. Gli alleati europei
– il nocciolo della grande coalizione – manifestarono subito un duplice
atteggiamento. Da un lato dimostrarono una totale solidarietà politica con
gli Usa e insieme il vivo desiderio di condividerne gli impegni
militari.
Questa disponibilità dette anche luogo ad episodi imbarazzanti
e talvolta al limite della comicità, con capi di governo che si precipitavano a
getto continuo alla Casa Bianca elemosinando un cenno d'attenzione e
l'accoglimento delle loro profferte di sostegno militare quale segnale della
loro importanza nella considerazione dell'alleato. Furono tacitati, è il caso
di usare questa parola, in diversa misura, alcuni con compiti militari veri e
propri anche se assai limitati (Gran Bretagna) altri in funzione di polizia
militare, altri ancora come piantoni e scorte di convogli umanitari. Da un
altro lato tuttavia gli alleati europei — sulla stessa linea dei paesi arabi
aderenti alla coalizione antiterrorismo — posero alcuni paletti: che le
operazioni militari in Afghanistan fossero scrupolosamente ristrette ad
obiettivi militari; che insieme alla guerra procedesse di pari passo una robusta
azione di assistenza alla popolazione civile sotto la guida dell'Onu; che
iniziasse appena possibile la ricostruzione politica ed economica di quel
paese. Fu anche chiesto al governo degli Stati Uniti che l'apertura di altri
fronti di guerra fosse preliminarmente concordata con gli alleati europei e,
infine, che gli Usa uscissero dalla fase di indifferenza seguita alla fine della
presidenza Clinton nei confronti del conflitto tra Israele e palestinesi,
rilanciando con la massima energia una politica di intervento di tutta la
comunità occidentale per favorire la ripresa del processo di pace e la nascita
finalmente di uno Stato palestinese. Gli Usa sorvolarono sulla prima
richiesta, anzi non risposero neppure; accolsero invece con molto calore la
seconda, la fecero propria, inviarono sul terreno autorevoli delegati con pieni
poteri, esercitarono sui contendenti una pressione fortissima, usarono, specie
con Sharon, mezzi di persuasione ai quali mai prima di allora avevano fatto
ricorso. Il fatto è che gli Usa temevano che la questione palestinese fosse
la miccia che, ravvivata dai proclami di Bin Laden, potesse infiammare il mondo
arabo e musulmano, scatenare le popolazioni di quei paesi contro i rispettivi
governi, alimentare centri di dissenso anche nell'opinione pubblica
occidentale. Comporre il conflitto palestinese diventò a quel punto un
obiettivo prioritario, sentito come tale sia in Usa sia in Europa sia al Cairo e
a Riad. Forse l'imponderabilità della storia avrebbe ricavato dai lutti di
"Ground Zero" la pace in Palestina e un forte rilancio dell'altra capitale
questione dei poveri del mondo? Forse da tanto male poteva infine nascere una
politica nuova, una nuova fratellanza, una nuova sicurezza mondiale?
Cinque mesi sono passati. Ad alcuni sembrano pochi, per altri sono stati
lunghissimi. Si può tentare un punto della situazione? — Il regime talebano
è caduto. Al suo posto si è insediato a Kabul un governo di coalizione cui
partecipano, più formalmente che sostanzialmente, i signori della guerra, reali
governatori tribali delle varie province del paese. — Questo governo,
sostenuto dalla Comunità internazionale, limita di fatto la propria sovranità
alla città capitale. Appena fuori dal perimetro urbano di Kabul tale sovranità è
inesistente: le strade che da Kabul si irradiano verso il confine pakistano,
verso Kandahar, verso Jalalabad e verso le province del nord sono infestate da
bande di predoni che impongono la loro legge con la forza delle armi. I
progressi verso la normalizzazione sono stati fin qui minimi. — Le condizioni
economiche del paese, perfino nella capitale, non hanno registrato alcun
miglioramento. Prevale una speculazione forsennata, un mercato nero aperto
soltanto ai pochi ricchi e un'indigenza diffusa e totale. I campi profughi,
lungo il confine pakistano, da Quetta fino alla capitale Islamabad, continuano
ad essere centri di degrado sociale e di turbolenza politica. — La rete
terroristica di Al Qaeda ha cessato in larga misura anche se non totalmente di
essere operativa nel paese. Ma ciò che colpisce è lo scarsissimo numero di
prigionieri catturati dalle forze americane e antitalebane: gli effettivi
militari di Al Qaeda sul campo furono valutati a cinquantamila uomini; il nucleo
più agguerrito, composto da arabi e ceceni, ad almeno diecimila. Di fronte a
questo vero e proprio esercito agli ordini di Bin Laden, i caduti in
combattimento ammontano, secondo le dichiarazioni delle fonti Usa, a poche
centinaia; i prigionieri sono perfino al di sotto di queste dimensioni. Se
queste cifre, le sole delle quali si dispone, sono esatte Al Qaeda non è stata
neppure scalfita. — Bin Laden e il mullah Omar sono sfuggiti ad ogni
tentativo di cattura sotto il naso della Cia e dei reparti speciali. Di loro non
vi è più alcuna traccia. Sono ancora in Afghanistan? Nell'area tribale
pakistana? In Somalia? In Corea del Nord? Sulla luna? Scomparsi, volatilizzati.
Certo il terrorismo non finirebbe neppure con la loro eventuale cattura, ma
senza di essa non si potrà mai mettere la parola fine alla guerra. — La
guerra infatti prosegue e comincia a spostarsi altrove: nelle Filippine, in
Somalia, silenziosamente, con pochissimo clamore, senza l'occhio puntato della
televisione. Ma l'apparato militare nel Golfo è ancora in piedi al suo massimo
livello. Si aspetta il colpo sull'Iraq ma nella più grande incertezza. I governi
alleati, sia europei sia arabi, non ne sanno nulla. Lo sapranno — se il colpo ci
sarà — dodici ore prima. Blair, forse, con un leggero anticipo di qualche
ora.
Ma l'impegno più inevaso, anzi tradito e capovolto di segno, è
quello del conflitto palestinese. Bush si è reso conto che quel conflitto non
è in grado di scuotere i governi arabi e neppure le masse islamiche; non a breve
termine almeno. Perciò è rapidamente rientrato dai suoi improvvisi entusiasmi di
fermare la mano a Sharon. Ha abbandonato completamente Arafat, la cui resistenza
passiva è ormai agli sgoccioli; non basterà certo a ridargli un ruolo lo stanco
comunicato del Consiglio dei ministri europeo della scorsa settimana. Arafat è
arrivato alla fine della corsa e con lui l'Olp e l'Autorità palestinese. In
queste condizioni parlare ancora di Stato palestinese è una tragica e comica
ipocrisia. Ci saranno città e paesi palestinesi mantenuti come dormitori di
manodopera, separati e poco comunicanti tra loro, con vigili urbani palestinesi
e giudici e sindaci palestinesi per amministrare e dirimere le loro quotidiane
necessità. A questi insediamenti, il cui modello di riferimento è il ghetto
ebraico del SeiSettecento, sarà dato il nome di Stato palestinese. E questo sarà
tutto. Poi, tra trenta o quarant'anni, si vedrà.
A noi non pare che
questa sia una buona soluzione. Forse i governi europei che misero i famosi
paletti all'inizio della guerra dell'11 settembre qualche cosa dovrebbero dire e
fare, ma l'aria non è questa. Il solo che — sul versante della questione dei
poveri — ha fatto qualche cosa di concreto è stato, pensate un po', Bill Gates,
il proprietario del più grande impero informatico del mondo: pochi giorni fa ha
creato una fondazione per combattere fame e malattie in Africa e l'ha dotata di
24 miliardi di dollari, più di 50 mila miliardi di lire (ex). Bill Gates, un
tycoon del capitalismo multinazionale. Di fronte alle dimensioni del problema
anche 24 miliardi di dollari sono poco più d'una goccia nel mare, ma che
vergogna per i governi, che cocente e insanabile vergogna.
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