Da LA REPUBBLICA del 2 gennaio 2004
Intervista al presidente della Commissione: "Sulla mia candidatura c'è un problema di coerenza"
L'accusa di Prodi sul semestre. "Contro l'euro falsità assolute"
In Europa è mancata l'Italia
di Andrea Bonanni
BOLOGNA - Ha appena finito una telefonata di auguri per il
nuovo anno con Gheddafi, da cui ha ricevuto il ringraziamento per la mediazione
che ha consentito di arrivare all'accordo sulla distruzione delle armi libiche.
"Se penso a quante critiche mi sono dovuto sorbire quando per primo ho
ristabilito il dialogo con Tripoli, mi viene da sorridere", commenta. Da sotto
la scrivania ha tolto il tappetino bruciacchiato dalla bomba incendiaria
indirizzata alla moglie Flavia, che per fortuna non ha fatto altri danni. Ma per
Romano Prodi, nello studio mansardato del suo appartamento di Bologna, questo
non è il tempo della paura.
Tra un pranzo con la famiglia finalmente
riunita e le visite dei vecchi amici bolognesi, la pausa di fine anno segna il
momento dei bilanci e dei progetti. Per l'Europa, certo, che dopo la crisi del
2003 comincia un anno difficile e decisivo, l'ultimo della sua permanenza a
Bruxelles. Ma anche e soprattutto per il suo programma politico incentrato sulla
lista unica dell'Ulivo alle elezioni europee.
E con questa intervista a
Repubblica il presidente della Commissione pone per la prima volta in modo
esplicito alle forze politiche che hanno risposto al suo appello la questione
del suo mandato, che considera importante completare. "È un problema di
coerenza", spiega. Un problema che però non può e non intende risolvere da solo,
avendo contratto con il popolo dell'Ulivo un impegno morale e politico che non
vuole disattendere".
Presidente, cominciamo dall'Europa. La divisione
sulla guerra in Iraq, la crisi del patto di stabilità, il fallimento della
conferenza per la nuova costituzione. Il 2003 si chiude con un bilancio
fallimentare. Molti lo hanno definito l'"annus horribilis" dell'Europa. L'Unione
è davvero in crisi?
"Certo è stato un anno difficile. Ma non farei di ogni erba un
fascio. Quella irachena, per esempio, è stata una crisi della non Europa. Se
l'Europa fosse stata presente ed unita, credo che non avremmo avuto la guerra in
Iraq. Credo che saremmo riusciti a trovare una soluzione che preservasse la
pace. Quella sul patto di stabilità, invece, devo riconoscere che è stata una
sconfitta bella e buona: interessi di breve periodo di Francia e Germania,
condivisi dalla presidenza italiana, hanno impedito il rafforzamento di regole
che, pur imperfette, sono indispensabili per il nostro futuro"
E il
disastro del vertice di Bruxelles? "A Bruxelles il dialogo bilaterale,
tra governi, non ha mai lasciato spazio ad una discussione collettiva. Non c'è
stata neppure la possibilità di contarsi, di obbligare chi non voleva la
Costituzione a scoprirsi esercitando il diritto di veto" .
Un quadro
senza luci... "Non è vero. Il 2003 è stato l'anno dei ripetuti
referendum a favore dell'allargamento e della decisione irreversibile di dare
vita ad una grande Europa che sarà in futuro uno dei protagonisti della politica
e dell'economia mondiali. L'unificazione dell'Europa era la mia missione quando
sono arrivato a Bruxelles ed è stata fin dall'inizio, superando non poche
opposizioni, la priorità della mia Commissione".
Ora però i nuovi
paesi entrano senza che l'Europa abbia potuto darsi nuove regole. I vecchi
meccanismi potranno ancora funzionare? "Ma il problema non è
l'allargamento. Anche l'Europa a 15 non avrebbe potuto funzionare a lungo senza
rinnovare le proprie istituzioni, senza una Costituzione. A 25 o a 15, la
questione non cambia".
Dall'Iraq al patto di stabilità allo scacco
sulla Costituzione: dietro i fallimenti europei c'è sempre anche una firma
italiana. "Purtroppo sì, anche se non è la sola. Comunque è chiaro che
all'Europa è mancata l'Italia, come all'Italia è mancata l'Europa. In passato,
il contributo italiano alla costruzione europea è sempre stato decisivo,
soprattutto perché consentiva di superare il piano intergovernativo per
abbracciare un'idea di Europa federale. Nel 2003 questo non è accaduto,
nonostante il serio impegno dei funzionari italiani per raggiungere alcuni
risultati concreti".
Il presidente Ciampi sollecita un'iniziativa dei
paesi fondatori. Berlusconi non è d'accordo. Lei che ne pensa? "La mia
visione dell'Europa mi porta ad insistere, come ho già fatto con la presidenza
irlandese, sulla ripresa del progetto della Convenzione, da portare avanti a
venticinque. Approvare il testo prodotto dalla Convenzione e dotare l'Europa di
una vera Costituzione resta la mia priorità. E' solo all'interno di un quadro di
riferimento come quello definito dalla Convenzione che qualcuno potrà prendere
l'iniziativa di andare più avanti e più in fretta, senza per questo rompere il
tessuto delle regole comuni, come si è fatto con l'euro" .
E se il
nuovo negoziato dovesse fallire? "E' chiaro che, se la situazione non si
sblocca entro il 2004, qualcuno potrà (e forse dovrà) prendere l'iniziativa di
andare avanti. Potrebbero essere i Paesi fondatori. Oppure, ed è anche più
probabile e più auspicabile, un gruppo eterogeneo di stati membri, vecchi e
nuovi, che però condividono lo stesso ideale europeo. Il treno dell'Unione non
può procedere sempre alla velocità del vagone più lento. Anche perché ho la
sensazione che qualche "vagone" non si voglia proprio muovere, o cerchi
addirittura di tornare indietro" .
Le cancellerie si stanno già
interrogando su questo tipo di iniziativa, che però difficilmente potrebbe
restare nel quadro delle istituzioni attuali. Secondo lei, il rilancio della
costruzione europea vale il rischio di una simile rottura? "Proprio
perché sono consapevole che, alla fine, una rottura istituzionale potrebbe
rivelarsi difficilmente evitabile, mi sto battendo per salvare e riprendere da
subito il progetto della Convenzione".
Tra i punti deboli di questa
Europa molti, e in particolare esponenti del governo italiano, indicano anche
l'euro, che avrebbe portato inflazione. "Dare la colpa all'Euro del
disagio economico che l'Italia sta vivendo è un'assoluta falsità. Occorre
ricordare che la moneta unica esiste da quattro anni. E che da due anni l'euro è
in circolazione. In dieci dei dodici paesi che hanno adottato la moneta europea
non c'è stato né l'aumento dei prezzi, né l'impoverimento della classe media e
dei lavoratori a reddito fisso che si è verificato in Italia, dove invece
osservo che già si annunciano aumenti a raffica di tariffe e di prezzi per
l'anno che è appena cominciato. E allora? E' sempre colpa dell'euro?"
Colpa del governo, dunque? "L'ho detto e lo ripeto. In Italia
è mancato il più elementare controllo sulla dinamica dei prezzi. Mi chiedo ad
esempio dove sia finito l'ufficio che era stato creato al ministero del Tesoro
per verificare che durante la fase di transizione all'euro non ci fossero abusi,
e per impedire che il paese fosse abbandonato nelle mani dei profittatori".
Nessuna responsabilità della moneta unica, allora? "Al
contrario. Bisognerebbe riflettere su come sarebbe messa l'Italia oggi senza
l'euro: con tassi di interesse doppi o tripli di quelli attuali e con
un'inflazione galoppante. Quanto costerebbero alle nostre famiglie i mutui sulle
case e quanto dovrebbero pagare le nostre imprese per avere credito se ci fosse
ancora la lira? Cosa sarebbe successo in questi giorni con il caso Parmalat se
non fossimo difesi dall'euro?" .
Anche così, comunque, non siamo
messi bene. "E' evidente che, con i prezzi che aumentano e la
produttività che ristagna, c'è una perdita di competitività del Paese anche
rispetto agli altri partner europei. Così non si può andare avanti".
E chi paga il prezzo di questa situazione? "Lo pagano i
redditi fissi, soprattutto quelli medio-bassi. E lo pagano i giovani, che
entrano nel mercato del lavoro prevalentemente attraverso forme precarie di
occupazione, senza prospettive di carriera e con salari estremamente bassi. Il
dualismo del Paese si accentua e le differenze di reddito aumentano".
Il governo però vanta una diminuzione della disoccupazione.
"In un quadro in cui la crescita è minima e la produttività si abbassa, un
minimo di aumento dell'occupazione non basta a dare una prospettiva al Paese".
Contro questo stato di cose, lei propone ai partiti italiani del
centro sinistra una "ricetta europea". In che cosa consiste? "La
ricetta, che sto cercando di applicare anche alle nuove prospettive di bilancio
dell'Unione, è contenuta in una proposta molto semplice: concentrare ogni sforzo
sullo sviluppo delle risorse umane. Questo vuol dire scuola, ricerca,
innovazione nei settori produttivi, maggiore competitività nei servizi che non
hanno ancora compiuto la "rivoluzione europea". Di fronte ad un mondo che cambia
ci sono due strade. O inseguiamo la chimera di nuove dogane e nuovi
protezionismi, facendo così precipitare ulteriormente il nostro tenore di vita.
Oppure raccogliamo l'unica sfida possibile, che è quella, da un lato, di
innovare e, dall'altro, di riscoprire l'attenzione perduta nei confronti delle
classi meno protette e meno privilegiate".
E perché mai questa
ricetta dovrebbe abbinarsi ad una lista unica? "L'idea della lista
deriva dalla necessità per l'Italia di riprendere un ruolo di avanguardia
nell'Unione mettendo insieme tutti coloro che credono che solo in Europa e con
l'Europa si possano garantire sviluppo e sicurezza. Gli stati nazionali, da
soli, non sono più sufficienti neppure nella politica".
Sì, però la
lista unica è diventata subito oggetto di veti, di polemiche, di risse
politiche. "Io non posso che ripetere quanto ho già detto. Bisogna che
tutte le forze dell'Ulivo, siano esse partiti o movimenti, che sono determinate
a portare avanti un'idea comune dell'Europa si mettano insieme. E' un esempio di
progettualità collettiva e mi auguro che il 14 e 15 febbraio, alla riunione
dell'Ulivo, questo diventi patrimonio comune di tutti" .
Di tutti?
Anche di Di Pietro? "Lo ripeto: di tutte le forze dell'Ulivo che credono
in questo progetto e che si impegnano a rispettare le regole che insieme si
daranno, accettando di rinunciare a parte della propria autonomia".
Sulla questione della lista unica alle europee pesa però anche
l'incognita della sua candidatura, che ormai sta diventando una telenovela.
Allora, presidente, che fa? Si candida o non si candida? "Crede davvero
che non ci abbia riflettuto? Non sa quante volte, dopo che ho lanciato l'idea
della lista unica, mi sono posto questo problema. Io ho difeso, e difendo con
forza, il diritto del presidente della Commissione di fare politica e anche
quello di sottoporsi al giudizio degli elettori, rinunciando in
quell'eventualità e in quel momento al suo mandato. Ma nel mio caso specifico,
la soluzione del problema non dipende solo da me".
In che senso?
"E' una questione di coerenza e di onestà. Da una parte mi rendo conto che,
lanciando l'idea di una lista unica di ispirazione europeista, mi sono assunto
delle responsabilità nei confronti delle forze politiche che hanno deciso di
condividerla e sostenerla: responsabilità che intendo onorare fino in fondo.
D'altra parte, credo che, proprio perché vogliamo fare dell'Europa la nostra
stella polare, noi tutti, e io per primo, dobbiamo dare l'esempio di una fedeltà
assoluta all'impegno europeo che ho preso quando sono diventato presidente della
Commissione. In un quadro politico che ha sempre più bisogno di etica, lo
ripeto, è un problema di onestà e di coerenza. A questa questione dovrò
rispondere con una scelta condivisa e sostenuta anche da coloro che hanno
deciso, rispondendo al mio appello, di fare propria la battaglia europea e verso
i quali ho contratto un obbligo morale".
Lei pone una questione etica
sul dilemma della sua candidatura. Ma allora cosa dovrebbe fare Berlusconi, che
è addirittura presidente del Consiglio? Neppure lui dovrebbe candidarsi?
"Cosa vuole che le dica? Ognuno ha il suo stile" .
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