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DIBATTITO SULLA GUERRA IN AFGHANISTAN |
Da AGGIORNAMENTI SOCIALI di novembre 2001 Di fronte ai gravi interrogativi sull’intervento militare in Afghanistan: la guerra non è la risposta adeguata al terrorismo Terrorismo, guerra e coscienza cristiana di Bartolomeo Sorge
Di
fronte al drammatico attentato dell’11 settembre contro gli Stati Uniti, si sono
manifestate nel nostro Paese e nello stesso mondo cattolico voci e posizioni
diverse. Da un lato, tutti hanno condannato senza mezzi termini l’attentato al
World Trade Center di New York e al Pentagono di Washington; parimenti
tutti hanno manifestato sincera solidarietà alle vittime della strage, ai loro
familiari e agli Stati Uniti; come pure tutti si sono detti convinti che occorre
catturare i terroristi, giudicarli e punirli in modo esemplare. D’altro lato,
però, non tutti si sono trovati d’accordo sulla tesi che, per battere il
terrorismo, si dovesse scatenare una guerra; molti hanno espresso aperto
dissenso verso chi si ostina a vedere nel terribile atto di terrorismo uno
scontro tra la civiltà occidentale e quella islamica; infine è stato clamoroso
il rifiuto del discorso sulla «superiorità» della cultura
occidentale. Non
deve stupire che su temi cosí complessi esistano sensibilità e posizioni
differenti. Tuttavia non possiamo non chiederci in che misura certe prese di
posizione siano coerenti o meno con i valori fondamentali di democrazia e di
libertà, a cui tutti si appellano, e, per i cattolici, con la dottrina sociale
della Chiesa. Cercheremo,
perciò, di chiarire tre questioni di fondo che, anche dopo l’inizio delle
operazioni di guerra in Afghanistan, non cessano di interpellare la nostra
coscienza: 1) La guerra è la risposta adeguata al terrorismo? 2) Si può parlare
di «superiorità» culturale dell’Occidente? 3) Come sconfiggere il terrorismo e
costruire insieme un futuro di pace? 1.
Il terrorismo e la guerra Dinanzi
alle macerie e alle vittime delle Torri gemelle e del Pentagono, tutti abbiamo
avvertito che l’atto terroristico di New York e di Washington era diretto non
solo contro gli Stati Uniti, ma anche contro di noi, contro l’intero mondo
civile. La ragione è che quell’attentato è stato un crimine commesso contro
l’umanità. Si spiega perciò che Giovanni Paolo II abbia potuto definire l’11
settembre 2001 «un giorno buio nella storia dell’umanità, un terribile affronto
alla dignità dell’uomo» (Discorso all’udienza generale, 12 settembre
2001). La
condanna è stata unanime e forte. Giustamente. Tanto che non possiamo non
chiederci perché mai la coscienza civile, insorta l’11 settembre, non abbia
reagito prima e con il medesimo sdegno di fronte ad altri crimini contro
l’umanità, non meno efferati, come quelli commessi, per esempio, in Algeria o
nel cruento conflitto israelo-palestinese. Dopo il messaggio farneticante di Bin
Laden, trasmesso da tutte le televisioni del mondo, ci rendiamo conto che è
stato un errore aver interpretato come sporadici episodi di «terrorismo locale»
quelli che in realtà erano già veri e propri focolai di terrorismo
internazionale. In ogni caso, sebbene in ritardo, giustizia va fatta. è un
dovere. Non si possono lasciare impuniti i crimini contro l’umanità, dovunque
essi vengano perpetrati. Il problema invece è un altro: come fare
giustizia? Infatti,
se è vero che il terrorismo c’è stato sempre e probabilmente non si potrà mai
estirpare del tutto, però dobbiamo riconoscere che quello di oggi è
profondamente diverso da quello di ieri. Va affrontato, dunque, in modo diverso.
L’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono, nella forma in cui è stato
architettato e portato a termine, rivela l’esistenza nel mondo di un terrorismo
nuovo, che dispone sia di ingenti risorse economiche, sia di una organizzazione
efficace e ramificata a livello internazionale, sia di conoscenze tecnologiche e
di strategie molto sofisticate. Basti pensare alla trama raffinata messa in atto
dai terroristi, i quali miravano a mettere in crisi la presunta invulnerabilità
degli Stati Uniti, colpendone simultaneamente i simboli sia del potere economico
(le due Torri), sia del potere militare (il Pentagono), sia del potere politico
(verosimilmente il quarto aereo, precipitato a Pittsburg, avrebbe dovuto colpire
la Casa Bianca). Perciò,
l’organizzazione al Qa’ida di Osama Bin Laden non è che il vertice di una
piramide. è un terrorismo invisibile, senza territorio e senza volto, che
recluta adepti tra quei molti diseredati dei Paesi musulmani, per i quali - non
avendo più nulla da perdere - la prospettiva di votarsi al martirio contro gli
«infedeli» occidentali assume anche il valore di riscatto da una situazione
disumana e invivibile. Questa dimensione di fanatismo religioso non fa che
rendere ancor più aggressivi i terroristi. Bin Laden lo sa e se ne serve per il
suo progetto di dare vita a un Islam «puro». Per questo, la sua non è una
battaglia sociale in favore degli emarginati e degli esclusi, ma contro i regimi
arabi «moderati» (definiti «apostati» e corrotti), contro gli occidentali in
genere (ritenuti nemici e corruttori dell’Islam), e soprattutto contro gli usa, che con la presenza delle loro basi
militari «profanano» la terra «sacra» dell’Arabia, dove si trovano La Mecca e
Medina, le città sante dell’Islam, e sostengono la politica antipalestinese di
Israele. Si
capiscono perciò le espressioni deliranti di Bin Laden alla televisione: «Io
ringrazio Dio, perché sono stati distrutti i simboli dell’America […]. Ogni
musulmano deve alzarsi in piedi per difendere la propria religione e sradicare
gli infedeli dalla Palestina e dalla penisola arabica […]. Giuro su Dio
onnipotente che né America, né coloro che vivono in America avranno sicurezza,
prima che noi avremo sicurezza in Palestina e prima che tutte le forze straniere
vadano via dalla penisola di Maometto» (Corriere della Sera, 8 ottobre
2001). Ebbene,
se le radici del terrorismo islamico sono queste, chi può ragionevolmente
pensare che la auspicabile sconfitta di Bin Laden significhi lo sradicamento del
terrorismo? Sarebbe la medesima illusione di chi credesse che l’arresto dell’uno
e dell’altro boss mafioso equivalga alla eliminazione della criminalità
organizzata. La difficoltà, dunque, sta nel come estirpare la mala pianta. Da
una parte, bisogna intervenire con decisione, non solo per fare giustizia, ma
anche per una necessaria opera di dissuasione e di prevenzione. D’altra parte,
però, se si vuole raggiungere lo scopo, bisogna evitare di cedere ad alcune
pericolose tentazioni. La
prima tentazione da vincere è il ricorso alla ritorsione. Non si otterrà mai
giustizia attraverso la vendetta. Questa, infatti, è la negazione stessa della
giustizia, perché risponde all’odio con l’odio, respinge la violenza con la
violenza, aggiunge morti a morti. E poi contro chi si eserciterà la
rappresaglia, se il terrorismo internazionale non ha volto né confini, ma si
disperde in mille rigagnoli? Senza contare che la rappresaglia coinvolge sempre
popolazioni inermi e innocenti, e questo non si può mai giustificare
moralmente. Un’altra
tentazione è considerare l’atto terroristico dell’11 settembre un formale atto
di guerra, al quale perciò non rimane che rispondere con una vera e propria
«guerra guerreggiata». In realtà, schiantandosi sulle Torri gemelle e sul
Pentagono, i kamikaze hanno compiuto un crimine contro l’umanità. Perciò, la
risposta più efficace non è la guerra, ma fare appello alla coscienza morale
dell’umanità. Oggi siamo divenuti coscienti che ogni violazione dei diritti
umani, anche se commessa nell’angolo più remoto della Terra, colpisce e offende
tutti; che i diritti umani sono imprescrittibili, non sottostanno cioè a vincoli
di spazio e di tempo, né geografici o politici, ma ogni loro violazione può
essere legittimamente perseguita dappertutto e in qualsiasi momento. Ecco perché
un gran numero di Paesi (compresi quasi tutti gli Stati musulmani) si sono uniti
agli usa nel condannare gli esecutori, i mandanti e i fiancheggiatori del
terrorismo internazionale, cooperando attivamente affinché essi siano presi,
giudicati e messi in condizione di non nuocere. La
guerra, dunque, non è, in sé, lo strumento adatto per ristabilire la giustizia
offesa e sradicare il nuovo terrorismo. Conservano tutta la loro attualità le
parole pronunciate da Giovanni Paolo II il primo giorno della guerra del Golfo
contro l’Iraq (17 gennaio 1991): «In queste ore di grandi pericoli, vorrei
ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere
completamente i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo
sarà mai» (L’Osservatore Romano, 18 gennaio 1991). è lo stesso monito che
il Papa ripeté otto anni più tardi, all’inizio della guerra del Kosovo, parlando
all’Assemblea del Consiglio d’Europa: «Una violenza che risponde a un’altra
violenza non è mai una via per uscire da una crisi guardando in avanti. Conviene
dunque far tacere le armi e gli atti di vendetta, per impegnarsi in negoziati
che vincolino le parti a un accordo che rispetti i diversi popoli e le diverse
culture» (L’Osservatore Romano, 29-30 marzo 1999). In
altre parole, per quanto sofisticate e micidiali siano le armi di cui gli Stati
Uniti e la nato dispongono, la
guerra è di natura sua inadeguata a estirpare il nuovo terrorismo
internazionale, le cui radici sono sociali, culturali e religiose.
Pertanto,
se l’intervento militare si è reso necessario (come extrema ratio) per
stanare e disarmare i terroristi, la guerra però - qualora dovesse continuare ed
estendersi -, anziché estirpare il terrorismo islamico, finirebbe col ravvivarlo
anche nei Paesi musulmani moderati. Per estirpare la mala pianta, ci vogliono
altri strumenti. Occorre congelare le fonti finanziarie che alimentano le reti
terroristiche, potenziare e coordinare a livello internazionale i servizi di
intelligence, spegnere i focolai esistenti, a cominciare dal Medio Oriente, dove
bisogna giungere al più presto a riconoscere lo Stato palestinese. Infine, un
piano di aiuti umanitari (una sorta di «Piano Marshall») in favore specialmente
dei palestinesi e degli afghani, aiuterebbe a far comprendere al mondo islamico
che l’intervento militare non è contro l’Islam e la sua civiltà, ma
esclusivamente contro i terroristi. In
quest’ottica dunque va interpretata la Risoluzione 1373 del Consiglio di
Sicurezza dell’onu (28 settembre
2001), quando riafferma «la necessità di combattere con tutti i mezzi, secondo
la Carta delle Nazioni Unite, le minacce alla pace e alla sicurezza
internazionali, causate da atti terroristici». 2.
Non «superiorità», ma complementarità culturale Tuttavia,
un errore ancora più grave sarebbe identificare il terrorismo con il contesto
culturale e sociale da cui provengono esecutori e mandanti. Ciò porterebbe allo
scontro tra civiltà e alla guerra di religione, proprio come vorrebbero alcuni
fondamentalisti. «Questa - ha detto Abu Ghaith, portavoce di al Qa’ida -
è la guerra decisiva tra la fede e l’ateismo. Voi dovete scegliere il vostro
campo. Lo stendardo che annuncia la Jihâd contro ebrei e cristiani è
stato innalzato» (Corriere della Sera, 8 ottobre 2001). Ma una guerra tra
civiltà non ha senso. Infatti, ogni cultura ha sempre elementi di verità, è
sempre portatrice di valori particolari e universali, perché l’uomo, nonostante
tutti i suoi limiti, è fatto per la verità e per il bene. è possibile perciò
l’incontro tra culture diverse, a partire da quanto di vero e di buono si trova
in ciascuna di esse. Non
esiste una cultura superiore, perché «ogni cultura è uno sforzo di riflessione
sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo: è un modo di dare espressione
alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è
costituito dal suo approccio al più grande dei misteri, il mistero di Dio»
(Giovanni Paolo II, Discorso
all’onu nel 50° della
fondazione, 5 ottobre 1995, in L’Osservatore Romano, 6 ottobre
1995). Per
questo, il Concilio Vaticano II esorta i cristiani affinché, nel dialogo con le
altre culture, si pongano in atteggiamento non solo di chi dà, ma anche di
ascolta e riceve; infatti - dice la Gaudium et spes - «parecchi elementi
di verità» si trovano non solo presso le altre religioni, ma addirittura presso
quei non credenti «che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne
riconoscano ancora la sorgente» (n. 92). Non si deve dunque parlare di
«superiorità», ma semmai di «complementarità» tra culture diverse, il cui
incontro è sempre fecondo. Lo
stesso criterio vale per il dialogo interreligioso, soprattutto tra le religioni
monoteistiche. La Chiesa - dice il Concilio - guarda con stima ai musulmani, che
«cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti,
come a Dio si sottomise anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si
riferisce» (Nostra aetate, n. 3). Pertanto, rifiutato il
fondamentalismo (che è una deviazione della coscienza religiosa), il dialogo con
i musulmani può aiutare gli stessi cristiani a superare, tra l’altro,
l’ostracismo del senso religioso dalla vita pubblica, praticato dal laicismo
occidentale che considera la fede un fatto privato della coscienza individuale.
Dal canto loro, i musulmani - come auspica il card. Martini - attraverso il
dialogo potrebbero essere stimolati a cogliere il significato e il valore della
distinzione tra religione e società, tra fede e civiltà, tra Islam politico e
fede musulmana; potrebbero comprendere che è possibile vivere le esigenze di una
religiosità personale e comunitaria in una società democratica e laica, dove il
pluralismo religioso viene rispettato e dove si stabilisce un clima di mutuo
rispetto, di accoglienza e di dialogo (cfr C. M. Martini, Noi e l’Islam,
Centro Ambrosiano, Milano 1990, 27 s.). In
conclusione, la difesa dei diritti umani, della libertà e dei nostri valori non
si ottiene discriminando i musulmani in nome di una presunta «superiorità» della
cultura occidentale, ma attraverso una vigorosa ripresa sia della vita
cristiana, sia della vita democratica, fondate sulla tolleranza e sul rispetto
dell’altro, senza nessuna guerra di religione né scontro di civiltà. 3.
Guardando in avanti Ciò
significa che mentre i terroristi con i loro mandanti e fiancheggiatori vengono
condannati e severamente puniti, nello stesso tempo anche noi occidentali (a
cominciare dagli Stati Uniti) ci dobbiamo interrogare sulle nostre
responsabilità in questa esplosione irrazionale di violenza. Il nostro egoismo,
il nostro razzismo, la nostra chiusura all’altro sono altrettante radici che
alimentano l’odio. Come
negare che l’Occidente si sia preoccupato più del proprio progresso economico e
di uno sfruttamento egoistico delle risorse comuni, che di un’equa
ridistribuzione delle ricchezze? Con quale faccia noi oggi chiediamo la
solidarietà nella lotta contro il terrorismo anche a quei Paesi impoveriti e
gravati di debiti, che abbiamo soffocato con la logica del profitto fine a se
stesso? Non si costruisce la pace, se si propugna il primato della efficienza e
del profitto a scapito della equità e della solidarietà. Occorre,
dunque, guardare in avanti. La soluzione dei problemi che ostacolano la pace non
può essere lasciata alla logica delle armi. La pace è possibile, se si riparte
dalla dignità della persona umana e si mette in discussione quell’aspetto della
sovranità, che consente allo Stato di decidere autonomamente la guerra.
Perciò,
urge ridare forza e autorità alle Nazioni Unite, attraverso l’aggiornamento del
diritto internazionale: ratificando finalmente lo Statuto del Tribunale Penale
Internazionale, includendo formalmente il terrorismo tra i crimini contro
l’umanità, con norme che consentano la sollecita consegna dei colpevoli alla
giustizia, senza più la lunga trafila burocratica della estradizione. Purtroppo,
l’atto terroristico dell’11 settembre è solo l’ultimo in ordine di tempo dei
casi drammatici, che maggiormente hanno fatto sentire la mancanza di una
adeguata strumentazione del diritto umanitario. Abbiamo toccato con mano, per
l’ennesima volta, che le Nazioni Unite mancano di fatto dell’autorità e della
forza necessarie per fare osservare le norme internazionali. A che serve che la
Carta delle Nazioni Unite determini (cap. VII, artt. 39-51) che sia il
Consiglio di Sicurezza a prendere le misure necessarie per mantenere la pace e
tutelare il diritto tra i popoli, se poi - come nel nostro caso - il Paese
colpito da un atto terroristico scatena autonomamente la guerra e si sceglie gli
alleati? Anche le tre Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (adottate il
12, il 18 e il 28 settembre 2001), con cui si dà via libera all’intervento
armato, di fatto sono venute dopo che gli Stati Uniti avevano già deciso di
farsi giustizia da soli. Cosicché si è avuta la netta sensazione che sia stata
l’onu ad allinearsi sulle
posizioni degli usa, più che gli
Stati Uniti ad adeguarsi alle decisioni del Consiglio di Sicurezza. S’impone
dunque una riforma dell’onu, se si
vuole che in futuro l’ordine leso venga ristabilito con strumenti adeguati e
secondo regole certe di giustizia internazionale, e non secondo la «logica»
imposta dalle Potenze più forti. La «forza del diritto» deve prevalere sul
«diritto della forza». Poiché una cosa è certa: nessuna vendetta ammantata di
giustizia e nessuna guerra gestita in proprio potranno mai generare un mondo
riconciliato. Infine
dobbiamo prendere coscienza che la giustizia, da sola, non basta: il male si
vince con il bene, l’odio con l’amore. Certo, l’umanità ha bisogno di giustizia,
perché la pace duratura si fonda sulla legalità e sul rispetto dei diritti
umani. Tuttavia, oltre che di giustizia, c’è bisogno di riconciliazione, di
amore e di perdono. Infatti - spiega Giovanni Paolo II nell’enciclica Dives
in misericordia - la giustizia si limita a garantire l’equità nell’ambito
dei beni e dei diritti oggettivi, invece «l’amore e la misericordia fanno sì che
gli uomini s’incontrino tra di loro in quel valore che è l’uomo stesso, con la
dignità che gli è propria» (n. 14). è
necessario, dunque, imparare la lezione di questa drammatica svolta nella storia
del mondo. occorre tornare a incontrarsi sull’uomo e costruire insieme la
civiltà dell’amore.
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