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Da LA STAMPA 1°giugno 2003

La politica è possibile solo se funzionano i meccanismi che dalla parola conducono all'atto, meccanismo di cui ha bisogno l'Europa. Le decisioni all'unanimità sono il modo per far scomparire tutti noi dai luoghi dove la storia si decide e si fa

La Fine dell'Europa

di Barbara Spinelli

Ancora non si sa bene quel che avesse in mente Giscard, quando fu nominato presidente della Convenzione incaricata di redigere una Costituzione per l’Europa e annunciò che il compito del continente era di proporzioni storiche. Non era molto diverso da quello affidato ai convenzionali di Filadelfia, disse, e anch’esso avrebbe aperto la strada a una costituzione federale, come negli Stati Uniti del 1787. Apparentemente dunque l’ex capo di Stato francese si proponeva qualcosa di grandioso: un’Europa capace di agire e non solo di emettere parole, un’Europa pronta a riunificarsi con il proprio Oriente dopo mezzo secolo di divisione ma non per questo disposta a farsi paralizzare dal diritto di veto che ciascun paese può esercitare in un’Unione fatta ormai di venticinque Stati.

Invece è proprio questa la proposta fatta da Giscard, nella bozza di costituzione presentata ai Convenzionali e agli Stati membri: il diritto di veto è mantenuto tale e quale, e questo proprio laddove l’Europa deve più che mai crescere e farsi, in politica estera e difesa. Nella grande Unione allargata nessuna decisione in materia potrà esser presa se tutti non saranno preventivamente d’accordo: ecco un modo per sminuire il peso del nostro continente fino a renderlo del tutto irrilevante, e in questo hanno ragione gli intellettuali che su vari giornali d’Europa, ieri, hanno manifestato inquietudine per la decadenza europea: l’iniziativa è partita da Habermas e Derrida, e a essa hanno fatto eco tra gli altri Gianni Vattimo su questo giornale, Umberto Eco su la Repubblica, Fernando Savater su El País.

C’è chi parla indulgentemente di compromesso necessario, tra Convenzione e governi. Giscard stesso fa capire che altrimenti gli Stati non darebbero il proprio consenso, il giorno in cui dovranno adottare la costituzione nella conferenza intergovernativa dell’ottobre 2003. Ma lo stesso Giscard ha dato retta solo allo spirito conservatore degli Stati-nazione, che in larga parte esigevano il mantenimento del diritto di veto, mentre ha ignorato la volontà dei convenzionali, maggioritariamente favorevoli a una diversa filosofia. Come ha scritto Tommaso Padoa-Schioppa sul Corriere della Sera di venerdì: Giscard e il presidium della Convenzione "non hanno dato spazio agli spiriti dell’Assemblea, sfruttandone la spinta europeista. Sono rimasti così prigionieri del desiderio di risultare graditi al Consiglio europeo e quindi ai governi".

In realtà, sono rimasti prigionieri degli aspetti più fallimentari della storia europea, ed è difficile immaginare che non lo sapessero. Si richiamavano alla storia americana, ma in cuor loro sapevano di imitare storie ben più nostrane: storie non di rinascita e ritrovata identità, ma storie molto europee di dissoluzione statuale. Gli intellettuali che hanno risposto all’appello di Habermas insistono sull’originalità e diversità dell’esperienza europea, e invitano a far tesoro del dissidio che esiste oggi fra una parte del loro continente e Washington. Ma proprio l’Europa insegna che non basta la cultura e non basta quello che Habermas chiama "il potere dei sentimenti", a garantire la capacità dell’Unione di dare a se stessa una legge, una capacità politica.

Contano le istituzioni, i metodi di decisione, e solo quando questi ultimi funzionano si può parlare di fondazione di un’identità o, come dice Eco, di un comune sentire. Il nostro rapporto con Washington oggi è teso, ma domani potrebbe anche non esserlo: quel che urge è trovare comunque un modo di fare politica, a prescindere dall’oggetto stesso di questa politica. La libera e indipendente Polonia perse sia la propria libertà sia il proprio spazio di manovra, a partire da quando introdusse nella costituzione il cosiddetto liberum veto e cominciò a farne, nel ‘600 e ‘700, un uso prima sistematico poi autodistruttivo. La clausola permetteva ad ogni deputato di interrompere le sessioni parlamentari con le parole "Non permetto": esattamente come possono fare oggi i paesi dell’Unione europea. Ogni trattativa si interrompeva quando un deputato accampava il veto, e fu questa clausola che portò il paese alla rovina, alla spartizione, infine alla scomparsa per la durata di più di centoventi anni.

Ed è significativo che le potenze che volevano controllare i destini polacchi - la Russia, la Prussia - a tutto erano disposte tranne che all’abolizione di quel veto immobilizzante, così conveniente per chi, dall’esterno, voleva esercitare l’egemonia sulla nazione. Il liberum veto preparò la strada a quella che il patriota Tadeusz Kosciusko chiamò Finis Poloniae, la fine dell’indipendenza e della nazione polacca. E’ abbastanza impressionante il silenzio di Varsavia, oggi, su questa clausola che rischia di suggellare, allo stesso modo, la Finis Europae.
I polacchi dovrebbero essere i primi ad ammonire gli Stati dell’Unione: tuttavia tacciono e sembrano anzi disposti a seguire il parere di chi si batte per salvaguardare il principio dell’unanimità. Il silenzio polacco sul liberum veto è la conferma che vi sono potenze, dentro e fuori l’Europa, che vogliono indebolirla proprio ora che essa vince la sua battaglia post-guerra fredda, e cresce geograficamente. All’indomani della guerra in Iraq che l’ha profondamente divisa, l’Europa rischia di autoaffondarsi negando a se stessa lo strumento indispensabile per esistere. Non a caso il governo inglese esulta, sostenendo d’aver vinto la battaglia della Convenzione. Così come esultano i governanti Usa, che su Inghilterra e Polonia puntano da mesi, per comandare su un continente niente affatto marginale per loro, contrariamente a quel che dice Umberto Eco, e tanto più prezioso quanto più diviso. Naturalmente non è detto che questo disegno vada in porto: la battaglia non è conclusa. I convenzionali potrebbero ritrovare l’orgoglio delle proprie volontà europeiste, e gli stessi Stati potrebbero farsi più lucidi.

Gianfranco Fini ad esempio, pur giudicando eccessive le critiche di Prodi a Giscard, nella sostanza gli dà ragione: la bozza di costituzione va rivista - così dice - e il diritto di veto occorre abolirlo "se non si vuole la paralisi dell’Europa". Allo stesso modo reagiscono gli intellettuali chiamati a raccolta da Habermas. Il loro appello ai governi è esplicito, e vale la pena ascoltarlo: che gli Stati fondatori decidano un’unione più stretta, così com’è stato fatto per l’Euro. I governi che non sono pronti potranno entrarvi in un secondo momento. E’ l’idea dell’Europa a due velocità, il cui cuore sarebbe composto da chi desidera un’unione vera. Ma anche in questo caso è il liberum veto e dunque il metodo che dovrà costituire la discriminante, e non l’atteggiamento più o meno polemico verso l’America. Qui sembra essere, a nostro parere, il limite degli appelli intellettuali in Europa. Per agire non si può essere tutti d'accordo, né sull’America né sul Medio Oriente né sulla comune cultura: questa è la semplice verità che ciascuno di noi conosce, quando partecipa a decisioni collettive, e che i polacchi hanno appreso sulla propria pelle. L’aspirazione all’unanimità assoluta e al comune sentire culturale è nella peggiore delle ipotesi un sogno totalitario. Nella migliore è un suicidio politico che crea ben più gravi dipendenze.

Poter decidere anche quando non c’è unanimità d’intenti e filosofie: l’arte della politica comincia da questa preliminare saggezza, che non aspira a eliminare le divisioni ma che non rinuncia a esistere a causa di tali divisioni. Si discute, si parla, e poi viene il momento di deliberare, di scegliere tra più linee. La politica è possibile solo se funzionano i meccanismi che dalla parola conducono all’atto, e di questo semplice meccanismo ha bisogno l’Europa. Naturalmente non ha bisogno solo di questo. Ha bisogno di una visione, anche di un’identità, così come ha bisogno di risorse finanziarie per tradurre le visioni in fatti. Ma i mezzi e le risorse si mettono insieme solo quando si sa che tra Europei una decisione è in grado di formarsi comunque, anche quando non tutti gli Stati sono d’accordo. Altrimenti ognuno, per difendere una sovranità ormai fittizia, contribuirà a impedire che ne nasca una reale: individuale e nazionale la sovranità fittizia, collettiva ed europea quella nuova e reale.

Lo Stato francese è quello che difende più accanitamente il veto, assieme a quello inglese. I due governi si sono divisi sull’Iraq e sui rapporti con Washington, ma su questo punto la posizione è analoga: le singole sovranità nazionali, anche se completamente illusorie, non si toccano. Questo significa che la conversione all’europeismo deve avvenire anche nel gruppo d’avanguardia dell’Unione, e più precisamente nella mente del principale paese fondatore. I suoi vizi oggi non sono diversi da quelli inglesi, ma la sua responsabilità è incommensurabilmente più grande. La Gran Bretagna di Blair è una pedina nella strategia Usa, anche quando riesce a ottenere la ripresa delle trattative medio-orientali dopo la guerra in Iraq. La Francia è condannata all’isolamento e all’impotenza, dopo una battaglia puramente nazionalista condotta contro le dottrine unilaterali di Bush. Ma i dirigenti tedeschi e italiani aspettano che sia Parigi a muoversi, perché l’Europa si è sempre fatta quando Parigi lo voleva. E anche l’Inghilterra si regola sull’assenza o presenza di Parigi: è profittando delle miopie francesi che Londra può divenire oggi un modello per gli europei dell’Est, e difendere la sua visione di un’Europa senza testa politica, senza spada e senza moneta. E’ a Parigi che si deciderà il futuro dell’Europa, e per questo sono così gravi le sue omissioni, le sue illusioni. Dalle vicende irachene la sua sovranità è uscita diminuita, non meno di quella britannica. L’Europa è la via per restituirle la sovranità perduta, ma ancora non è chiaro se il passo sarà compiuto. Il liberum veto di origine polacca è il miglior modo per far scomparire tutti noi, Francesi ed Europei, dai luoghi dove la storia si decide e si fa.




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