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Da AGGIORNAMENTI SOCIALI di giugno 2003
Il referendum sull'articolo 18 di Bartolomeo Sorge Il prossimo 15 giugno 2003 gli italiani saranno chiamati nuovamente alle urne. Dovranno dire "sì" o "no" all’estensione dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori anche alle aziende più piccole. Infatti verrà sottoposta a referendum l’abrogazione della norma che prevede la non applicazione dell’art. 18 alle imprese con meno di 16 dipendenti. Sulla questione c’è molta incertezza. Quali sono il contesto e il contenuto di questo referendum? Qual è la sua reale portata? Quale scelta compiere? 1. Contesto e contenuto del referendum Tutto cominciò quando, il 15 novembre 2001, fu approvato dal Consiglio dei Ministri un disegno di legge collegato alla Finanziaria, con il quale si intendevano introdurre alcune deroghe all’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Questo Statuto (cioè la Legge 20 maggio 1970, n. 300) era stato varato trent’anni prima — in una difficile stagione di forti contestazioni e rivendicazioni operaie —, soprattutto per tutelare la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché la libertà dei sindacati e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro. In concreto, poi, l’art. 18 dello Statuto prevede l’obbligo, nelle imprese con più di 15 dipendenti, del reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa (per maggiori particolari, cfr "Il lavoro umano: merce o risorsa?", in Aggiornamenti Sociali, 4 [2002] 269-274). Il disegno di legge del Governo Berlusconi del novembre 2001 mirava invece a liberare il datore di lavoro — in tre casi determinati — dall’obbligo di reintegrare il lavoratore licenziato senza giusta causa. Ciò al fine di favorire una maggiore flessibilità del lavoro, oggi necessaria sia a causa delle profonde trasformazioni del mercato del lavoro, sia per conformarsi ad alcune direttive dell’Unione Europea in materia. Tuttavia, in assenza di adeguati ammortizzatori sociali e di un sistema efficiente di formazione professionale, apparve subito che la nuova normativa avrebbe accresciuto notevolmente la precarietà dei lavoratori (e delle loro famiglie), a esclusivo vantaggio delle imprese. Da qui l’immediata e dura reazione dei sindacati e di larga parte dell’opinione pubblica. Inoltre la evidente ispirazione neoliberista del progetto governativo aggravò ulteriormente il conflitto, e fece sì che la questione dell’art. 18 si trasformasse da legittimo confronto sindacale in uno scontro di natura ideologica. Infatti, alcuni responsabili del Governo non nascosero affatto la volontà "politica", soggiacente al disegno di legge, di voler "infrangere il tabù dei licenziamenti" e ridimensionare il ruolo stesso dei sindacati, secondo i canoni tipici della visione liberista dell’economia e della società. Di conseguenza, il problema della flessibilità, che si sarebbe potuto e dovuto affrontare in un quadro ampliato e rinnovato di tutela dei diritti dei lavoratori per far fronte alle trasformazioni del lavoro e al contesto economico europeo, si è trasformato in una battaglia di principio, degenerando in un duro "muro contro muro" ideologico tra lavoratori e Governo. Di fronte alla forte reazione popolare e sotto la pressione delle grandi manifestazioni di piazza, come quella della cgil il 23 marzo 2002, e dello sciopero generale del 16 aprile 2002, il Governo fu costretto a fare marcia indietro. Ripiegò così sul cosiddetto Patto per l’Italia, che presentò al tavolo delle trattative con le parti sociali nel successivo mese di giugno. Il Patto riduce di molto il contenzioso precedente, limitando le deroghe all’art. 18 a un unico caso (dei tre anteriormente previsti): quello delle piccole aziende che, assumendo, dovessero superare la soglia dei 15 dipendenti; e ciò non in via definitiva: dopo tre anni, le parti dovranno verificarne insieme gli effetti sulla crescita dell’occupazione e, se questi saranno positivi, l’esperimento potrà essere prorogato per altri tre anni. Inoltre il Patto si propone di rafforzare le garanzie dei lavoratori con adeguati ammortizzatori sociali, di ridurre le tasse per i redditi più bassi, di garantire la politica dei redditi, di destinare altre risorse allo sviluppo del Sud, anche se rimangono forti dubbi sulla disponibilità delle risorse per il finanziamento di queste misure. Come si vede, il Patto per l’Italia è molto diverso dal primitivo disegno di legge del 15 novembre 2001. Tant’è vero che lo stesso Presidente del Consiglio il 30 dicembre 2002, nella conferenza stampa di fine anno, manifestò l’intenzione addirittura di lasciar cadere l’intervento sull’art. 18. Ebbene, su questo Patto per l’Italia fu possibile raggiungere l’intesa tra sindacato (cisl, uil e altri sindacati minori), Governo e associazioni imprenditoriali il 5 luglio 2002. Purtroppo per siglare l’accordo fu pagato un prezzo molto alto: la rottura dell’unità sindacale; infatti, la cgil si rifiutò di firmarlo. Attualmente il Patto per l’Italia è fermo al Senato. La sua discussione è stata sospesa, in attesa dell’esito del referendum sull’art. 18. Nel frattempo, la raccolta di firme per il referendum, scattata subito, anziché chiarire il discorso, lo ha ulteriormente complicato, perché ha finito col trasformare in scontro politico una vicenda di natura essenzialmente sindacale. è importante, dunque, capire quale sia la portata reale del referendum del 15 giugno. 2. La reale portata del referendum Anzitutto è giusto rilevare che, firmando il Patto per l’Italia, cisl, uil e gli altri sindacati minori si sono mantenuti nel loro ambito specifico, che è quello della tutela dei diritti dei lavoratori, e hanno cercato con coraggio vie nuove per adeguare questa tutela alle profonde trasformazioni della produzione e del mercato, senza legarsi politicamente a nessuno. In altre parole, hanno mantenuto il discorso sul piano sindacale, evitando che il confronto con il Governo degenerasse in scontro politico. Ciò invece è accaduto, purtroppo, dopo il rifiuto della cgil di sottoscrivere il Patto. Infatti, oltre che rompere l’unità sindacale, la indisponibilità del maggiore sindacato italiano è servita a ridare fiato alle vecchie posizioni ideologiche massimalistiche, latenti in una parte della sinistra tuttora ancorata all’ottica della "lotta di classe". Così, la diversa strategia che ha diviso tra loro i sindacati ha creato uno spazio vuoto che i partiti non hanno esitato a riempire. Da un lato, i "riformisti" (la Margherita, gli sdi, l’udeur e la maggioranza dei ds) si sono schierati con la scelta compiuta dalla cisl e dalla uil; dall’altro, i "massimalisti" (Rifondazione Comunista, i Comunisti Italiani, il "correntone" dei ds, a cui si sono aggiunti i Verdi) si sono schierati con la scelta compiuta dalla cgil. La conseguenza immediata della scesa in campo dei partiti è stata quella di aprire la strada al referendum; ma, così facendo, si è alterata profondamente la natura stessa del dibattito sull’art. 18. Il confronto tra strategie sindacali diverse si è tramutato in scontro ideologico tra filosofie politiche diverse: da una parte, il riformismo; dall’altra, il massimalismo e il neoliberismo. Ora, l’aspetto più grave della questione sta nel fatto che il referendum non è in nessun modo lo strumento adeguato per affrontare il problema delle garanzie dei lavoratori; tanto meno in un contesto, come l’attuale, di profonda trasformazione delle forme del lavoro. Certo, la politica non può rimanere estranea all’esigenza di trovare nuove forme di tutela del lavoro nella situazione complessa in cui versano oggi la produzione e il mercato del lavoro. Tuttavia aggiustamenti e correzioni sono possibili solo attraverso nuovi accordi contrattuali ottenuti con pazienti negoziati tra le parti interessate, oltre che mediante nuove norme legislative da promuovere con adeguate proposte di legge, se veramente si vogliono ottenere risultati stabili e accordi efficaci. I problemi complessi del lavoro non si risolvono semplificandoli artificialmente, né tanto meno affidandone la soluzione allo strumento improprio del referendum. Se le cose stanno così, allora, quale scelta operare nella prossima consultazione referendaria? 3. Quale scelta il 15 giugno? Chiamati alle urne, i cittadini hanno tre modi di rispondere al referendum: 1) votare "sì"; 2) votare "no"; 3) non andare a votare. 1) Votare "sì"? – Bisogna dire subito che quanti (sindacati e cittadini comuni) l’anno scorso sono scesi giustamente in piazza contro l’abrogazione dell’art. 18 non sono affatto tenuti "per coerenza" a votare "sì" il 15 giugno. Infatti, l’obiettivo che si propone il referendum è diverso da quello per il quale i sindacati e milioni di persone si erano mobilitati ieri. Oggi i cittadini sono chiamati a dire "sì" o "no" a una versione molto semplificata e del tutto inadeguata di un problema che è sì reale, ma è molto più complesso e articolato della questione referendaria a cui è stato ridotto: cioè, se applicare o meno la clausola della "giusta causa" alle piccole aziende. In realtà, l’estensione dell’art. 18 a tutti i contratti di lavoro senza distinzione alcuna, nonostante l’apparenza contraria, finirebbe col produrre effetti negativi sul piano stesso di quella tutela dei lavoratori che si dice di voler garantire. Infatti, il primo effetto dannoso dell’obbligo del reintegro anche nelle imprese con 15 dipendenti o meno sarebbe quello di rendere il nostro mercato del lavoro ancora più rigido di quanto già è, e di bloccare la parte forse più vivace e creativa del nostro sistema produttivo, che è composta di artigiani, di commercianti e di piccoli imprenditori. La vittoria dei "sì" al referendum si tradurrebbe pertanto in un forte incremento del lavoro nero e della precarietà. Non è certo questo che si vuole. 2) Votare "no"? – La seconda possibilità è votare "no". Si tratta di una scelta certamente più consapevole e responsabile del "sì" dato a un referendum in sé sbagliato. Da un punto di vista astratto, votare "no" significa esprimersi a favore del mantenimento della situazione esistente. Tuttavia è certo che molti riformisti che voteranno "no", sono convinti che, comunque, il problema della precarietà e della disuguale tutela dei lavoratori va affrontato: il problema c’è — mandano a dire —, ma, poiché non lo si può risolvere con un semplice "sì" all’estensione dell’art. 18 alle piccole imprese, va affrontato con altri strumenti. Ecco perché l’eventuale vittoria dei "no" non è pericolosa come la vittoria dei "sì", e, debitamente interpretata, potrebbe anche tradursi in una spinta a trovare altre strade sia per ridurre il lavoro irregolare e il precariato, sia per venire incontro con gli ammortizzatori sociali a chiunque perda il posto di lavoro (anche se licenziato per giusta causa), sia per garantire la necessaria sicurezza a tutti indistintamente i lavoratori e alle loro famiglie. Detto questo, però, è anche vero che la vittoria dei "no" non basterebbe, da sola, a far passare questo messaggio positivo in essa contenuto. Infatti, è altrettanto certo che il 15 giugno voteranno "no" anche molti conservatori d’ispirazione liberista, favorevoli a una riduzione ancora più drastica delle tutele dei lavoratori. Pertanto, la vittoria dei "no" potrebbe essere interpretata anche come un’autorizzazione a proseguire per questa via, come un voto contro la tutela dei lavoratori tout court. Ecco perché la eventuale vittoria dei "no", pur non producendo i guasti di una eventuale vittoria dei "sì", è ugualmente da temere e da scongiurare, data la sua intrinseca ambiguità. 3) Non andare a votare. – Pertanto, se si vogliono evitare, da un lato, i guasti della vittoria dei "sì" e, dall’altro, l’ambiguità della vittoria dei "no", non rimane altra scelta che far fallire il referendum. Il comportamento più saggio dunque è astenersi dal votare, facendo mancare il quorum necessario alla validità della consultazione. Non è vero — come qualcuno ha sostenuto — che l’astensione dal voto priverebbe di senso la scelta di chi la compie. è vero invece il contrario. Una "astensione attiva", cioè una non partecipazione responsabilmente voluta, conferisce una valenza morale e politica all’astensione, come riconosce l’art. 75 della nostra Carta costituzionale, dove si prevede che un referendum possa legittimamente fallire per mancanza del quorum necessario. Inoltre, l’astensione è da preferire, non solo per evitare gli effetti negativi delle due alternative precedenti, ma soprattutto perché — come abbiamo già spiegato — il referendum non è lo strumento adatto a risolvere questioni come quelle del lavoro, che vanno invece affrontate con il dialogo, la trattativa, la ricerca del consenso, la partecipazione di tutte le parti interessate, cioè con gli strumenti propri della politica sociale, tenendo sempre presente il bene comune, stella polare di ogni attività politica. Ecco, dunque, perché il fallimento del referendum andrebbe giudicato positivamente. Il Patto per l’Italia, fermo al Senato, riprenderebbe il suo iter, e la ripresa del dibattito parlamentare — purché svelenito dalla sterile contrapposizione ideologica tra maggioranza e opposizione — sarebbe l’occasione giusta per affrontare, con modalità più adeguata di quella offerta dal referendum, i nodi irrisolti del nostro mercato del lavoro. Favorirebbe il rilancio del metodo della concertazione e del dialogo tra Governo e parti sociali e faciliterebbe l’introduzione di alcune riforme oggi indispensabili alla tutela dei diritti dei lavoratori, richieste dalla necessità di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e di una maggiore competitività produttiva, nel nuovo contesto dell’economia europea e mondiale. Se questa svolta si produrrà — come auspichiamo —, essa potrebbe assumere un valore più ampio, che va molto al di là dei contenuti specifici relativi alla tutela dei diritti dei lavoratori. Infatti, nel contesto del crescente dissesto politico e istituzionale che oggi umilia il nostro Paese, essa avrebbe il significato di una scelta democraticamente matura, in chiara controtendenza, e aprirebbe il cuore di tanti alla speranza di un futuro migliore. |