Logo Margherita
Pagina iniziale
Rassegna stampa locale
Rassegna stampa nazionale
Approfondimenti
Bartolomeo Sorge

Da AGGIORNAMENTI SOCIALI di giugno 2002

Un decalogo del card.Carlo Maria Martini
indispensabile vademecum per il cristiano in politica

Da cristiani in politica

di Bartolomeo Sorge


Il card. Carlo M. Martini, dopo ventidue anni di servizio apostolico, lascia la cattedra di sant’Ambrogio e passa il pastorale ad altre mani. Certo, ci vorrà molto tempo per riordinare gli insegnamenti di oltre vent’anni del suo magistero, concernenti un po’ tutti gli aspetti principali della vita religiosa e civile. Tuttavia, dai "discorsi alla Città", tenuti ogni anno per la festa di sant’Ambrogio, è già possibile trarre alcuni orientamenti dottrinali e pastorali di notevole importanza. In particolare, intendiamo qui fissare l’attenzione sull’insegnamento del card. Martini sulla presenza dei cristiani in politica. È un tema che gli sta molto a cuore e sul quale è ritornato di frequente, soprattutto negli ultimi anni, dal 1995, a partire dal Convegno ecclesiale di Palermo .

Dal 20 al 24 novembre 1995, la Chiesa italiana tenne a Palermo il suo terzo Convegno nazionale .

Oggi, a distanza di anni, è più facile valutare la "svolta" che la comunità ecclesiale italiana ha compiuto circa il modo d’intendere la presenza politica dei cristiani nel nostro Paese, grazie soprattutto all’intervento di Giovanni Paolo II. "La Chiesa – disse il Papa ai convegnisti – non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia"; tuttavia – aggiunse – il cristiano non può "ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede", né può accettare "una facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace" .

Queste parole del Papa ebbero un’eco notevole, anche perché con esse si chiudeva una lunga stagione, durata praticamente cinquant’anni, durante la quale in Italia (per le ragioni storiche ben note) era in vigore una sorta di "collateralismo" tra la comunità cristiana e il partito della dc.

Dieci giorni dopo, l’Arcivescovo di Milano, parlando alla Città in occasione della festa di sant’Ambrogio, riprendeva l’intervento del Papa e ne traeva alcuni orientamenti di fondo molto importanti. Da un lato — notava il card. Martini —, aveva fine "una certa "afasia"", di cui veniva accusata la Chiesa, quasi che essa — non sapendo più che cosa dire ai politici cristiani dopo Tangentopoli — "avesse scelto di tacere e si fosse messa alla finestra ad aspettare lo svolgersi delle vicende" [1995, 168]. D’altro lato, sanzionando ufficialmente il superamento dell’unità partitica dei cattolici, si riconosceva per ciò stesso la necessità di forme nuove di presenza. Il Cardinale, perciò, coglieva l’occasione per offrire ai cristiani impegnati in politica una sorta di "decalogo", un vademecum, con "una lista di dieci opzioni da consolidare per guardare con fiducia al futuro" [ivi, 171].

Sono passati sette anni e il "decalogo" è sostanzialmente ancora valido; molte cose, però, sono cambiate nel Paese e nella Chiesa. Perciò — anche in filiale omaggio all’Arcivescovo — abbiamo pensato di rielaborare il "decalogo" del 1995, aggiornandolo con quanto egli stesso ha aggiunto successivamente nei suoi "discorsi alla Città". La prima parte del "decalogo" (nn. 1-5) riguarda piuttosto i principi fondamentali, la seconda invece (nn. 6-10) le indicazioni operative.

1. La politica non è tutto

Come punto di partenza occorre dire subito che il servizio cristiano alla società non si può ridurre esclusivamente alla partecipazione alla vita politica e all’adesione a un partito. Il contributo dei cristiani alla costruzione della città e della società è molto più ampio, più ricco ed efficace. È innanzi tutto una presenza profetica, che si radica nell’annunzio e nella testimonianza del Vangelo. Ogni "rinnovato discorso sulla politica da parte della Chiesa — sottolinea il card. Martini — deve partire da quella scelta evangelica e profetica, un tempo detta scelta religiosa, che è affermazione del primato di Dio e dell’Evangelo. Essa non significa un ritrarsi nel sacro; significa piuttosto un ricordare a tutti che la natura e il destino dell’uomo eccedono sempre qualsiasi scelta contingente e quindi anche ogni scelta politica. […] Ogni uomo e ogni donna va rispettato e amato al di là delle sue scelte politiche, perché fatto a immagine del Dio vivente" [1995, 172].

Perciò — conclude il Cardinale — "un contesto importante di partenza per un nuovo discorso politico è la presa di coscienza del patrimonio sociale e caritativo della comunità cristiana e della sua forza di lievito della società"; prima ancora di impegnarsi nel servizio politico in senso stretto, il cristiano è chiamato ad agire sul piano spirituale, sociale e caritativo, ad animare il costume privato e le istituzioni pubbliche con i valori che provengono dalla luce della fede, immettendo nella costruzione della città dell’uomo la cultura della solidarietà: "Tale cultura inserisce l’istanza di comunione nell’economia; orienta l’ethos nazionale nel senso di una maggiore sensibilità al bisogno dei poveri della nostra società e di quelli del Sud del mondo" [ivi, 173].

Tuttavia, una volta affermata la priorità della dimensione spirituale e sociale del servizio cristiano, occorre altresì "prendere viva coscienza dell’insufficienza del momento sociale e caritativo e della necessità e della validità del momento politico, quale momento sintetico delle virtù sociali e civili, quale forma esigente di carità" [ivi]. La mediazione politica, dunque, pur non essendo tutto e pur non avendo valore assoluto, è tuttavia necessaria per la costruzione della città dell’uomo.

2. La politica è laica

Il Concilio Vaticano II ha chiarito che le realtà temporali (tra cui la politica) hanno un ordine proprio, leggi proprie e strumenti specifici, che non discendono direttamente dalla rivelazione circa il fine ultimo trascendente, al quale pure quelle realtà sono orientate. Dalla fede dunque non si può dedurre direttamente un modello di organizzazione sociale, politica o economica. La politica è laica e laico è il bene comune a cui essa tende.

Per passare dalla fede alla politica, è necessaria dunque una mediazione etica e antropologica, evitando un duplice scoglio: da un lato, l’integrismo di chi vorrebbe tradurre i valori cristiani immediatamente in politica e, dall’altro, la Realpolitik di chi è disposto a ogni tipo di compromesso pur di ottenere alcuni vantaggi immediati.

Dunque, per fare politica da cristiani, è necessario agire sempre in "coerenza" con i valori evangelici, ma nel rispetto della laicità delle scelte. Come fare?

"Occorre — spiega il card. Martini — distinguere, innanzitutto, tra principi etici e azione politica. I principi etici sono assoluti e immutabili. L’azione politica, che pure deve ispirarsi ai principi etici, non consiste di per sé nella realizzazione immediata dei principi etici assoluti, ma nella realizzazione del bene comune concretamente possibile in una determinata situazione. Nel quadro di un ordinamento democratico, poi, il bene comune viene ricercato e promosso mediante i mezzi del consenso e della convergenza politica. Nel fare ciò non è mai possibile ammettere un male morale. Può però accadere che, in concreto — quando non sia possibile ottenere di più, proprio in forza del principio della ricerca del miglior bene comune concretamente possibile —, si debba o sia opportuno accettare un bene minore o tollerare un male rispetto a un male maggiore" [1998 a, 715]. Più che di accettazione del male minore (che rimane pur sempre un male) si deve parlare dunque del maggior bene possibile: "vale più la proposta di cammini positivi, pur se graduali, che non la chiusura su dei "no" che, alla lunga, rimangono sterili. […] Non ogni lentezza nel procedere è necessariamente un cedimento. C’è pure il rischio che, pretendendo l’ottimo, si lasci regredire la situazione a livelli sempre meno umani" [1995, 174].

In pratica, saranno gli strumenti della lotta politica e della vita democratica a imporre ai cristiani in politica scelte di opportunità e di gradualità nel confronto con partiti e programmi politici in contrasto con l’etica cristiana. Non serve ritirarsi sull’Aventino. Lo sforzo da fare è un altro: "I principi della fede devono essere trasformati in valori per l’uomo e per la città, devono risultare vivibili e appetibili anche per gli altri, nel maggior consenso e concordia possibili" [ivi]. Ecco perché "questo della mediazione antropologico-etica è forse uno dei lavori più importanti e urgenti dei cristiani impegnati in politica ed è uno dei contributi più fecondi che le comunità cristiane possono dare alla società civile oggi" [ivi].

3. Il pluralismo è legittimo

Dalla fede, dunque, non si può dedurre un unico modello o partito politico; inoltre, la natura stessa della politica — "l’arte del possibile" — porta con sé la possibilità di scelte diverse. Di conseguenza, il pluralismo delle opzioni politiche è normale anche tra i cristiani: si possono dare programmi, ugualmente coerenti con i valori cristiani e con la dottrina sociale della Chiesa, sui quali tuttavia è legittimo esprimere giudizi diversi quanto alla loro maggiore o minore opportunità, efficacia o urgenza. È quanto ha affermato anche Paolo VI: "Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi" .

Tuttavia — nota Giovanni Paolo II — il pluralismo legittimo dei cristiani in politica non significa affatto relativismo culturale ed etico o indifferentismo 5.

L’ideale cristiano è molto esigente: non si traduce soltanto in atteggiamento critico o difensivo, ma è soprattutto coscienza profetica e propositiva, è spinta creativa verso gli orizzonti di un umanesimo integrale e trascendente. Pertanto, non basta che un programma non contenga nulla contro i valori fondamentali; occorre pure valutare se sia più o meno rispondente alla visione cristiana dell’uomo e della storia. Un programma d’ispirazione neoliberista e uno d’ispirazione solidaristica non si equivalgono, alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Purtroppo anche il silenzio dei Pastori può aver contribuito a favorire l’equivoco che qualsiasi programma sia indifferente per la coscienza cristiana. Sembra che nella Chiesa oggi molti non abbiano più il coraggio di parlare: sia per timore di apparire schierati con una parte o con l’altra, sia per evitare che le divisioni legittime sul piano politico si riproducano nella comunità ecclesiale.

Eppure la Chiesa non può tacere. Certo, essa non si coinvolge in scelte di parte, ma non può omettere di formare le coscienze dei fedeli; è suo dovere esprimere un giudizio morale anche sulle culture politiche, sui modelli di società e sui programmi. Così — esemplifica il card. Martini —, la Chiesa non può rimanere neutrale o muta nei confronti di una cultura politica che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli; di una logica decisionistica che cerca di estorcere il consenso per via plebiscitaria; di un liberismo utilitaristico che fa del profitto, della efficienza e della competitività un fine, a cui subordina le ragioni della solidarietà; di una politica che si rifà a una logica conflittuale inaccettabile, secondo cui chi vince piglia tutto e chi perde è solo un nemico da eliminare [cfr 1995, 170 s].

Per la Chiesa — conclude il Cardinale — "non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio, e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza. Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto […]. È questo un tempo in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella concezione dell’agire politico che esse implicano. Non è in gioco la libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia" [ivi, 171]. I cristiani in politica devono esserne coscienti e tenerne conto.

4. Il metodo democratico

Non basta, però, preoccuparsi dei contenuti; bisogna prestare la medesima attenzione ai metodi della politica. Il card. Martini, colmando una vistosa lacuna del dibattito al Convegno di Palermo, sottolinea la irrinunciabilità del metodo democratico per il cristiano. L’attenzione dei cristiani — chiarisce il Cardinale — "deve oggi concernere i metodi della politica prima dei contenuti contrassegnati pur da particolari valenze etiche, dal momento che tali valori rischiano di essere messi in pericolo da un metodo generale di fare politica". Si tratta evidentemente di una priorità di ordine operativo, volta a salvaguardare i contenuti e i valori etici della politica. "Non si tratta affatto — egli spiega — di lasciar da parte alcuni valori e contenuti, bensì di stabilire una scala di valori e un metodo adeguato per conservarli, difenderli e proporli" [1996, 248].

In altre parole: proprio per salvaguardare i contenuti e i valori etici della politica, si esige che prima di tutto i cristiani rimangano fedeli al metodo democratico. A che servirebbe un programma ispirato a valori e a principi cristiani, se il metodo di realizzarlo fosse in contrasto con le stesse esigenze morali che si dice di voler tutelare? Un cristiano non potrà mai aderire a un programma buono in sé, ma attuato da un regime autoritario o dittatoriale, contrario alle esigenze etiche dell’agire democratico. Il discorso sui contenuti non è separabile dal discorso sul metodo.

Conclude il card. Martini: se si vuole che i valori dell’ethos evangelico (quali la vita, la famiglia, il lavoro, la scuola, ecc.), che si trovano alla base di ogni società democratica, siano effettivamente tutelati e promossi, bisogna che il metodo generale con cui si compiono le scelte politiche garantisca la responsabile partecipazione e collaborazione di tutti i cittadini (del maggior numero possibile) al bene comune, sia cioè un metodo veramente democratico: "Tutti i singoli valori sono importanti; tuttavia vengono messi in pericolo allorché non si tiene conto delle condizioni generali del bene comune e delle sue esigenze rispetto al metodo generale di fare politica" [ivi, 249].

Va detto, però, che non sempre è possibile dire con chiarezza se un certo modo di governare sia democratico o meno. Vi sono forme sottili di spirito antidemocratico, che talvolta si contrabbandano con il pretesto che bisogna governare con prontezza, con decisione e fermezza. Il dovere di governare — dice il card. Martini — non deve mai far dimenticare che il confronto e il dibattito sono parte essenziale del metodo democratico, e non possono essere sacrificati, privilegiando "la decisione rapida, l’uomo forte, il consenso rapidamente ottenuto mettendo magari di fronte a un "sì" o a un "no" secchi, che non permettono l’approfondimento necessario. Il rischio è quello di dare vita a una società divisa, intrisa di spirito di rivalsa", che si lascia guidare più dall’emotività che dal consenso sociale [ivi, 250].

5. Lo "stile cristiano"

A questo punto — sintetizzando i principi fondamentali esposti — il card. Martini conclude che, dunque, esiste uno "stile", un modo cristiano di fare politica. Esso è indicato efficacemente nella parabola del "servo inutile" (Lc 17, 7-10). Il cristiano si riconosce "servo inutile" perché, anche quando compie imprese grandi, fa esperienza della propria inadeguatezza e della potenza di Dio: "noi non siamo e non saremo mai all’altezza delle situazioni storiche; se qualcosa di buono compiamo, è dono di Dio" [1997, 243]. Da questo principio fondamentale deriva l’identikit del cristiano in politica.

In primo luogo, il cristiano è un uomo libero: "Il riconoscerci servi — dice il Cardinale — ci ricorda che siamo di fronte a un compito immensamente più grande di noi, affidatoci da Dio con un gesto di fiducia. Il riconoscersi servi inutili rende liberi e sciolti nel presente: liberi dal peso insopportabile di dover rispondere a ogni costo a tutte le attese, di dover essere sempre perfettamente all’altezza di tutte le sfide storiche di ogni tempo". Nello stesso tempo, questa libertà ci rende "disponibili a fare quanto sta in noi, a riconoscere quanto ci sta ancora davanti" [ivi, 242 s]. Ciò significa concretamente che il cristiano è chiamato ad avere forte il senso dello Stato, a dare la precedenza al bene comune e agli interessi generali sull’interesse privato o sugli interessi corporativi, a non posporre mai la coscienza e i valori morali al raggiungimento di fini utilitari immediati.

In secondo luogo, lo "stile cristiano" in politica si manifesta nel coraggio e nella creatività. Alla luce dell’insegnamento evangelico – nota il Cardinale – "il sentirci […] inadeguati ci dà gioia e fiducia, non smarrimento; ci fa proclamare il primato di Dio. Siamo consapevoli del fatto che non sta a noi salvare il mondo e non dobbiamo caricarci tutto il peso del mondo sulle nostre spalle. Solo Dio salva e dà pace" [ivi, 243]. Il "riconoscersi servo inutile", quindi, mentre mantiene vivo nel cristiano il senso dei propri limiti, paradossalmente infonde coraggio, perché fa riporre la fiducia in Colui che è potente. Perciò, il cristiano in politica escluderà ogni ricorso a metodi meschini di comportamento, di amministrazione; si comporterà in coerenza con i valori ai quali pubblicamente si ispira, senza compromessi né camuffamenti; non temerà di aprirsi al dialogo e alla collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà per promuovere insieme il bene comune, andando anche per strade nuove e rischiose.

Infine, "il riconoscimento di essere servi inutili, che ci fa liberi, sciolti, umili e grati per il gratuito perdono di Dio, ci rende anche sensibili nell’oggi e per il futuro a quella gratuità che è uno dei nodi del vivere contemporaneo", e ci dà "la possibilità di un discernimento su alcune derive pericolose del presente e del futuro" [ivi, 246]. Qui il card. Martini denuncia il pericolo di "omologazione" e di "deriva liberista" che oggi induce quanti aderiscono a concezioni della vita diverse ad accordarsi implicitamente sull’esaltazione delle ragioni dell’individuo e sulla difesa di interessi particolari e di privilegi, sguarnendo così la difesa di coloro che ancora non godono dei diritti sociali.

"Non può bastare ai cattolici — afferma il Cardinale —, attenti al mistero della gratuità e dunque alle ragioni dei più deboli, di chi non ha niente da offrire né come merce di scambio, né come sostegno politico, di sentirsi rassicurati da alcune proposte parziali, indipendentemente dal disegno di costruzione globale della città di tutti. Non bastano alcune difese di diritti specifici e di valori particolari se non sono collocate nel quadro di un miglioramento complessivo dello Stato e di promozione di tutti i valori, di tutti i cittadini" [ivi, 248]. È importante dunque dare voce alle esigenze della solidarietà e della socialità.

La vera forza del cristiano in politica sta nel vivere l’impegno per la costruzione della città dell’uomo non come una professione qualsiasi, ma come una vocazione, cioè come parte integrante della stessa vocazione battesimale, confidando più sulla forza della grazia di Dio che sulle proprie doti naturali.

6. In minoranza

Le statistiche e l’esperienza quotidiana mostrano che la Chiesa e i cattolici, all’interno della società secolarizzata, sono una "minoranza", sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista del loro influsso qualitativo: "L’influenza pubblica dei pronunciamenti della Chiesa – nota il Cardinale — è scarsa, soprattutto sul terreno morale. Pochissimi sono i cristiani che, nelle parrocchie e nei gruppi, si impegnano veramente a testimoniare il Vangelo e a costruire la comunità" [1998 b, 157].

In un certo senso, essere minoranza fa parte della stessa esperienza cristiana: "Occorre perciò chinarsi con paziente magnanimità sulla nostra società accettando l’umile missione di granello di senapa e di lievito e la poca rilevanza del piccolo gregge. Ciò non significa che non lottiamo con tutte le forze in favore della libertà della persona e per il bene comune della città e della nazione, poiché crediamo nella forza irresistibile del seme e dell’efficacia del lievito e siamo consapevoli di avere cose essenziali da dire e da offrire per l’intera società" [ivi, 159].

Questa azione di fermento nel mondo si traduce nello sforzo del cristiano volto a ottenere il consenso della coscienza dei cittadini: "La ricerca del bene per la città di tutti ha regole proprie, attraverso le quali non si può non passare […]: sono le regole del consenso dei cittadini stabilite dalle modalità democratiche e quelle della costruzione del consenso. Esse non sono pure tecniche o pure metodologie, ma sostanza stessa dell’atto libero di decisione; passano per il convincimento e la pazienza, per la stessa graduazione dei valori, perfino per il duro sacrificio di alcuni di essi" [ivi, 164]. Certo, la legittimazione etica dei valori cristiani non dipende dal consenso democratico — "non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore" —, occorre invece il coraggio di "assumersi autonomamente una responsabilità nei confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il compito vero dell’etica politica" [ivi].

Accettare serenamente la situazione di minoranza non significa essere marginali o scoraggiarsi, ma piuttosto impegnarsi con la testimonianza e con il servizio a fermentare dall’interno la società verso una coscienza umana più matura.

7. Unità trasversale sui valori

Nella società secolarizzata e pluralistica, dunque, la sfida non sta nel ricostruire l’unità partitica dei cristiani, ma nel realizzare una nuova forma di presenza, a cominciare da una necessaria unità trasversale sui valori.

In primo luogo, occorre creare luoghi di dialogo e di confronto tra i cristiani che legittimamente hanno fatto opzioni politiche diverse. Su questo punto, il card. Martini fa sue le parole del Papa: "È più che mai necessario educarsi ai principi e ai metodi di un discernimento non solo personale, ma anche comunitario, che consenta ai fratelli di fede, pur collocati in diverse formazioni politiche, di dialogare, aiutandosi reciprocamente a operare in lineare coerenza con i comuni valori professati" [1995, 174 s].

In secondo luogo, occorre superare il fossato tra cattolici e laici, per cui si tende a presentare come "confessionali" problemi che invece sono semplicemente civili. "Il cristiano — insiste il Cardinale — oggi nella città deve interpretare un alto compito storico: creare quel tessuto comune di valori su cui possa legittimamente trascorrere la trama di differenze non più devastanti. E ciò sia in zone proprie di riflessione e di traduzione antropologica dei valori di fede (operazione che è parte integrante del progetto culturale per il quale si sta impegnando la Chiesa italiana), sia facendo sbocciare tali valori dentro i luoghi delle diverse appartenenze, dimostrando che ci si può occupare a pieno titolo, da cattolici, dei problemi di tutti, non solo con una attenzione confessionale" [1998 b, 163].

Lo stesso card. Martini mostra praticamente come realizzare l’unità trasversale in difesa, per esempio, della famiglia fondata sul matrimonio. Lo fa non ponendosi sul piano confessionale, ma considerando la famiglia quale comunità e istituzione sociale e mostrando come essa si distingua chiaramente dalle unioni di fatto od omosessuali, attraverso un discorso che è condivisibile da tutti gli uomini di buona volontà [cfr 2000, 250-263].

8. Pensare politicamente

Vi è però una tentazione sottile a cui oggi vanno incontro i cristiani in politica: rinunciare alla costruzione del modello globale della città e dello Stato, per accontentarsi di vivere e agire nel pre-politico e nel sociale.

Nessuno nega l’importanza di queste forme di presenza — osserva il card. Martini —; "è chiaro però che tale modo di presenza e di servizio non è sufficiente. […] Se rimanessero chiusi nell’ambito del sociale e della carità si potrebbe pensare che i cattolici sono cittadini dimidiati. L’ambito della politica aspira infatti a influire sull’ethos della città di tutti, mediante una generalità di interessi e di programmi, con la creazione di condizioni che promuovano la partecipazione di ciascuno al progresso sociale, civile, morale e spirituale" [1998 b, 162].

Pertanto sarebbe grave se i cattolici, per ottenere la concessione di un sussidio alle scuole non statali o qualche altro vantaggio su problemi che stanno a cuore alla Chiesa, accettassero di mettersi in disparte, lasciando ad altri elaborare e attuare il progetto globale di società. Un simile comportamento servirebbe magari a "far passare qualche richiesta valoriale; ciò però avverrebbe solo per bruta forza contrattuale, non come esito di una educazione maturante e di un convincimento del costume di tutti. Se quindi i credenti si appagassero di essere lodati da tutte le forze politiche solo per impegni parziali, potrebbe verificarsi una frattura indebita dell’impegno politico, che riserverebbe spazi settoriali al cristiano, precludendogli la visione più globale di costruzione dell’uomo e della società, che sarebbe appannaggio di altri costruttori, più globali" [ivi, 163].

È necessario, al contrario, che il cristiano s’impegni a "pensare politicamente in grande, rifuggendo da soluzioni solamente settoriali. Di conseguenza la sua collocazione dentro questa o quella forza politica non avverrà per via di singoli problemi o di gruppi monotematici, bensì per un disegno di società più compiuto: questa è l’assunzione piena di responsabilità politiche" [ivi, 162].

Ovviamente "pensare politicamente in grande" significa che i cristiani devono parlare e agire con categorie ormai non più solo nazionali, ma europee e mondiali in presenza degli attuali processi di globalizzazione. "In tale contesto — afferma il Cardinale — si comprende come l’impegno dei cristiani per esprimere nell’Europa di oggi forme e stili di vita conformi al Vangelo, con il superamento del mito del denaro, del consumismo, del godimento a ogni costo, promovendo stili di vita più poveri e disinteressati, pur essendo un impegno che nasce soltanto dal Vangelo ed è perseguito unicamente per amore di Gesù Cristo, non possa non riverberarsi positivamente su una società che ha urgente bisogno di controllare e di orientare socialmente le proprie risorse a vantaggio di tutti" [1991, 161].

Da qui viene l’invito forte ai cristiani in politica, affinché reagiscano contro le tendenze antisolidaristiche che si vanno affermando in Europa.

Questa, che alcuni anni fa era solo una denuncia profetica, oggi è divenuta una minaccia reale. Pertanto, "la stimolazione della solidarietà in Europa [da parte dei cristiani] non potrà essere ottenuta in maniera efficace soltanto con richiami etici. Occorrerà piuttosto promuovere quei fattori che permettono alla gente di diminuire l’ansietà di fronte al proprio destino individuale o di gruppo, e stimolare gesti ed esempi concreti di solidarietà che mostrino, dal vivo, come la solidarietà è possibile e praticabile. […] In sintesi, dobbiamo dunque mostrare che […] è possibile l’allargamento di orizzonti rispetto a una concezione della vita limitata esclusivamente a questo mondo; è possibile il rafforzamento di un "io" conscio della propria libertà e maturità, affrancato da modelli autoritari, persuaso che lo sviluppo della persona si attua anzitutto nelle relazioni dove emerge il dono gratuito di sé" [1992, 176 s].

9. Riformismo coraggioso

In questo sforzo di richiamare i cristiani alle sfide della loro vocazione, il card. Martini li mette in guardia contro il pericolo oggi incombente dell’"accidia politica": "È il contrario di quella che la tradizione classica greca e il Nuovo Testamento chiamano parresia, libertà di chiamare le cose con il proprio nome" [1999, 13]; è "la pretesa, vagamente illuministica, che tutte le opzioni abbiano pari rilevanza per il costume. […] Non vengono discusse nel merito, bensì liquidate sulla base del dogma del pari valore di ogni opinione o credenza rispetto a credenze diverse od opposte. Accade così che ci si limiti a esigere rispetto per la propria opinione, senza impegnarsi a declinare le ragioni per cui quel rispetto vada concesso. In altre parole, il rispetto assoluto dovuto a ogni persona viene confuso con l’attribuzione aprioristica di una valenza e di una sensatezza identica a qualunque tipo di proposta" [ivi, 15].

Questa "accidia politica", che spegne ogni spinta al cambiamento, costituisce una trappola per i cristiani in politica. Essi, infatti, oggi sono continuamente "adulati" (il termine è preso da sant’Ambrogio) per la loro supposta "moderazione", con il pericolo di svigorirne la parresia. "L’elogio della moderazione cattolica — commenta il Cardinale —, se connesso con la pretesa che essa costituisca solo e sempre la gamba moderata degli schieramenti, diventa una delle adulazioni di cui parlava Ambrogio, mediante la quale coloro che sono interessati all’accidia e ignavia di un gruppo, lo spingono al sonno" [ivi, 20].

Questo è un grave pregiudizio. L’ispirazione evangelica, con la sua radicalità, è ben lontana dal suggerire compromessi o comportamenti diplomatici o accidiosi. Certamente — spiega l’Arcivescovo —, si dà "una moderazione buona", un insieme di qualità che appartiene allo "stile cristiano" di fare politica, come "il rispetto dell’avversario, lo sforzo di comprendere le sue istanze giuste e anche la relativizzazione dell’enfasi salvifica della politica" [ivi].

Tuttavia, il cristiano è chiamato a un riformismo coraggioso che si pone agli antipodi del moderatismo: "per quanto riguarda le proposte, le Encicliche sociali vedono il cristiano come depositario di iniziative coraggiose e d’avanguardia. […] C’è invece nella dottrina sociale della Chiesa la vocazione a una socialità avanzata" [ivi, 20 s].

Nello stesso tempo, bisogna anche dire che il riformismo cristiano — che si fonda sulla difesa coraggiosa dei diritti della persona, delle comunità (a cominciare dalla famiglia), dei gruppi sociali e dello Stato — è molto diverso dal cosiddetto "progressimo" di tipo radical-individualistico e libertario, di cui oggi tanto si parla, ma che favorisce solo i diritti dell’individuo, sottraendolo a ogni responsabilità verso l’altro.

10. Una forma-partito nuova

    Infine, il card. Martini affronta solo di passaggio — quasi per inciso — il grosso problema del superamento dei vecchi partiti e della necessità di dar vita a una forma-partito nuova.

    Il Cardinale osserva che, per rinnovare la forma-partito, occorre partire dalla società civile, creando un "tessuto comune di valori", un nuovo "patto di convivenza" che, all’interno della società pluralistica, dia linfa nuova alla vita politica. Il passaggio a una democrazia matura — egli aggiunge — non verrà soltanto dalla riforma delle istituzioni e della legge elettorale o dalla semplificazione del quadro partitico, ma soprattutto dal rapporto nuovo che si ristabilirà tra i partiti e la società civile. Da qui l’importanza di cominciare dalla valorizzazione del territorio e del suo patrimonio culturale ed etico: "La semplificazione della vita politica, infatti, è affidata soprattutto alla diffusione sempre più ampia di una piattaforma condivisa di valori e di convergenze, non soltanto all’ingegneria elettorale e alla riduzione del quadro partitico" [1998 b, 163].

    Solo dall’incontro fra tradizioni politiche omogenee, nel rispetto delle singole identità, può venire il consenso necessario alla rinascita della politica; ma ciò dovrà passare attraverso un modo nuovo d’intendere la vita di partito e la sua stessa forma: "Finché non si creeranno nei partiti dialettiche che già al loro interno sappiano far interagire le diversità culturali, è illusorio pensare a una politica più stabile e più mite: i partiti devono essere palestre di dialogo interculturale prima di diventare soggetti di contrattazione politica" [ivi].

    Il card. Martini si ferma qui. Colpisce la straordinaria convergenza di questi suoi orientamenti operativi con le intuizioni di don Luigi Sturzo. Anche Sturzo si era posto il problema della presenza dei cristiani in politica; egli era convinto che, pur essendo minoranza, essi avrebbero avuto la capacità di unire tutte le forze riformiste — i "liberi e forti" — su un programma comune, ispirato ai valori cristiani ma proposti in forma laica e non confessionale.

    La forma-partito più adatta a costruire la democrazia matura in Italia sarebbe stata perciò — secondo Sturzo — quella di un’area popolare democratica, da costruire insieme con gli uomini di buona volontà, a partire dalla società civile e dal territorio, su un programma coraggiosamente riformista, fondato sull’unità trasversale intorno ai valori fondamentali, ma salvaguardando l’identità di ciascuno. Don Sturzo non riuscì a vedere realizzato il suo progetto, ma non dubitò mai che, pur cominciando in pochi, il consenso della gente non sarebbe tardato a venire.

    È la stessa convinzione con cui il card. Martini conclude il suo "decalogo": "Se assumeremo un po’ di questo compito, ci accorgeremo forse che siamo meno soli di quanto temiamo: come avvenne al profeta Elia che, angosciato di essere rimasto solo e deciso a ritrarsi per disperazione, trovò inaspettatamente una moltitudine di persone risparmiate dal Signore in Israele perché non avevano piegato le ginocchia di fronte ai falsi idoli (cfr I Re 19,18)" [ivi, 163 s].




    Scriveteci a: margherita.alba@libero.it
    Realizzazione del sito a cura di Luciano Rosso