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Da AGGIORNAMENTI SOCIALI di maggio 2002 I rischi e le nuove opportunità di sviluppo La Chiesa e la globalizzazione di Bartolomeo Sorge La globalizzazione è certamente uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo. Tutti ne parlano: chi per esaltarla, chi per demonizzarla. In realtà, è un fenomeno molto più complesso di quanto non sembri, e va ben compreso per essere guidato. Perciò, pur tenendo presente il suo aspetto economico, occorre rilevarne anche gli altri, che non sono meno importanti. Il recente magistero sociale della Chiesa può essere di notevole aiuto in quest’opera necessaria di discernimento. 1. L’aspetto economico della globalizzazione La globalizzazione è un fenomeno recente. Esso si distingue qualitativamente dalla tradizionale internazionalizzazione dell’economia capitalistica. Infatti alla classica libertà di mercato, cioè allo scambio delle merci da un Paese all’altro, la globalizzazione oggi aggiunge pure la libera circolazione dei fattori produttivi, in particolare dei capitali e del lavoro. Ciò ha prodotto un salto di qualità, una svolta nella storia dell’economia postindustriale: "A partire dal crollo del sistema collettivistico nell’Europa centrale e orientale, con le sue importanti conseguenze per il Terzo Mondo — commenta Giovanni Paolo II —, l’umanità è entrata in una nuova fase nella quale l’economia di mercato sembra aver conquistato virtualmente tutto il mondo. Ciò ha portato con sé non solo una crescente interdipendenza delle economie e dei sistemi sociali, ma anche la diffusione di nuove idee filosofiche ed etiche basate sulle nuove condizioni di lavoro e di vita introdotte in quasi tutte le parti del mondo" (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 27 aprile 2001, in Aggiornamenti Sociali, 6 [2001] 525). Tuttavia, la globalizzazione non è nata spontaneamente, quasi essa sia una tappa naturale e ineluttabile del processo di sviluppo capitalistico. è sorta invece sia in seguito all’applicazione in economia delle nuove tecnologie, in particolare dell’informatica, che consente di trasferire informazioni (e quindi capitali) in tempo reale da una parte all’altra del mondo, sia in seguito alla costante riduzione dei costi di trasporto e di comunicazione. Alcuni studiosi arrivano a collegare la nascita della globalizzazione alle decisioni politiche prese nel 1975 a Rambouillet, presso Parigi, dal primo summit dei sei Paesi più sviluppati (g6). In quell’occasione, infatti, essi decisero sia di dare via libera alle privatizzazioni (di consentire cioè la cessione ai privati di imprese, beni e attività di proprietà dello Stato o gestiti da enti pubblici), sia di rompere i vincoli tra economia e politica che fino ad allora tenevano legate le imprese al proprio territorio e alla propria nazione. Cosicché, qualsiasi imprenditore oggi può esportare capitali e imprese fuori dei confini nazionali, rispondendo delle sue scelte solo ai propri azionisti, i quali possono trovarsi in qualsiasi parte del mondo. Da qui viene la necessità di rivedere anche gli strumenti classici sui quali si fondava la politica economica tradizionale e che ormai non bastano più, quali la manovra fiscale e la variazione dei tassi di sconto e di cambio (cfr Zamagni S. [ed.], Globalizzare l’economia, ecp, S. Domenico di Fiesole [fi] 1995, 19 ss.). La globalizzazione non avrebbe tardato molto a mostrare qual è il vero nodo da sciogliere: essa, infatti, è nata ed è tuttora ispirata dalla vecchia logica di mercato la quale, se è in grado di realizzare la migliore allocazione delle risorse, non riesce tuttavia a realizzare un’equa distribuzione della ricchezza prodotta. Di conseguenza, nell’ultimo quarto di secolo, la povertà in termini assoluti è diminuita nei Paesi in via di sviluppo che sono stati coinvolti nei processi di globalizzazione (come nel caso dei Paesi del Sud-Est asiatico e dell’America latina), ma la povertà relativa è cresciuta perfino all’interno degli stessi Paesi sviluppati. Per esempio, il nostro Mezzogiorno in termini assoluti oggi sta senz’altro meglio di ieri, ma in termini relativi la velocità di sviluppo del Sud è ulteriormente diminuita, nei confronti della velocità di sviluppo del Nord, che continua a crescere invece a ritmo ancora più sostenuto. La conseguenza più grave è, senza dubbio, la disoccupazione che con la globalizzazione tende ad aumentare. Infatti, da un lato, grazie all’introduzione delle nuove tecnologie (soprattutto dell’informatica), oggi è possibile produrre la stessa quantità di beni o addirittura aumentarla, diminuendo notevolmente la forza lavoro impiegata; d’altro lato, l’esistenza di un mercato senza frontiere, tuttora privo di regole e di controlli efficaci, spinge i capitali fuori dei confini nazionali alla ricerca di investimenti più redditizi in ogni angolo del mondo, dove più abbonda l’offerta di manodopera a basso costo, secondo la classica legge della ricerca del maggior profitto. Se a ciò si aggiunge il fatto che la globalizzazione oggi rende molto più redditizio investire i capitali nel mercato finanziario anziché nella produzione di beni e di servizi, si comprende perché intere fasce di lavoratori (anche del ceto medio) vengano eliminate dal processo produttivo. La globalizzazione, insomma, produce nuova ricchezza, ma a un prezzo umano e sociale altissimo. Di qui la necessità di una riflessione etico-sociale. 2. Aspetti sociali, politici, culturali ed etici della globalizzazione La globalizzazione ha innanzi tutto un evidente aspetto sociale e politico, strettamente collegato con l’elemento economico. Infatti, la possibilità di produrre e guadagnare di più riducendo la quantità della forza lavoro occupata genera contraddizioni sociali stridenti e inaccettabili: un gruppo ristretto di ricchi diventa sempre più ricco, mentre cresce sempre più la moltitudine dei "precari" e dei disoccupati; le vecchie e nuove disuguaglianze si allargano a forbice; si approfondisce la frattura della coesione sociale a causa di conflitti che possono giungere a intaccare la stessa vita democratica. Per esempio, l’assenteismo nelle consultazioni elettorali e, più in generale, il disinteresse crescente per la vita politica non sono forse da attribuire prevalentemente alla emarginazione di cui molti cittadini si sentono vittime? è ineluttabile che quanti sono di fatto esclusi dal circuito economico di produzione e di sviluppo si sentano anche socialmente inutili e politicamente demotivati. Del resto, il medesimo rapporto tra emarginazione economico-sociale e perdita di fiducia nella democrazia si ripropone pure a livello internazionale, nonostante che la globalizzazione di per sé spinga le nazioni verso l’unificazione politica. è emblematico il caso del continente africano che, escluso dai processi di globalizzazione economica, si ritrova sempre più al margine anche della vita sociale e politica internazionale, con un distacco che rischia di divenire incolmabile. Ora, il superamento di simili casi di emarginazione sociale e politica (oltre che economica) è reso più problematico dal fatto che la guida del processo di globalizzazione è praticamente in mano a pochi soggetti che si sono imposti da soli sulla scena mondiale e si arrogano il potere di dettare regole agli altri, solo in virtù della forza economica di cui dispongono, senza alcuna legittimazione democratica e senza alcun controllo dal basso: è il caso, per esempio, della Organizzazione Mondiale del Commercio (wto), delle grandi imprese transnazionali, di organismi finanziari quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale e di altre tecnocrazie finanziarie e legali, che disciplinano transazioni economiche il cui volume spesso supera il Prodotto Interno Lordo di interi Stati. Questa situazione oggi non è più sostenibile e non è più accettata passivamente, come dimostra l’estendersi non solo della contestazione dei movimenti no-global (che scendono in piazza rumorosamente in occasione degli incontri al vertice di questi organismi), ma anche di altre iniziative più efficaci, come le varie campagne per la remissione del debito dei Paesi poveri o il recente Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. La globalizzazione, quindi, porta con sé anche rilevanti problemi sociali e politici, che occorre affrontare e risolvere contestualmente ai problemi di natura economica. è questa la via da seguire, non solo per evitare che la globalizzazione produca più guasti che vantaggi, ma anche per dimostrare che l’applicazione all’economia dei nuovi strumenti tecnologici può effettivamente servire allo sviluppo dell’umanità, qualora sia eticamente orientata. Ecco perché l’aspetto certamente più importante della globalizzazione è quello culturale ed etico. Infatti, con la libera circolazione dei beni, dei servizi, dei capitali e del lavoro entrano in circolo pure le idee, si diffondono culture e mentalità diverse, si propagano stili di vita differenti. In una parola, la globalizzazione produce cultura e nello stesso tempo è essa stessa una cultura: un modo nuovo di comprendere il lavoro umano, di impostare le relazioni sociali e i rapporti tra il "locale" e il "globale", tra Stato-nazione e unità soprannazionale. Il pericolo è che la vecchia logica di mercato prevalga e s’imponga appunto come cultura egemone. è soprattutto questo che preoccupa la Chiesa: "Una delle preoccupazioni della Chiesa circa la globalizzazione è che essa è divenuta rapidamente un fenomeno culturale. Il mercato come meccanismo di scambio è divenuto lo strumento di una nuova cultura. […] Il mercato impone il suo modo di pensare e di agire e imprime sul comportamento la sua scala di valori" (Giovanni Paolo II, Discorso..., cit., 526, n. 3). A questo punto si apre necessariamente il confronto con la cultura neoliberista che — dopo la fine del "socialismo reale" e dopo la smentita storica della cultura collettivistica — sembra dominare indisturbata, con il rischio di omologare le altre culture, creando una nuova forma di colonialismo culturale, peggiore del vecchio colonialismo economico. Il limite di questa cultura neoliberista, a cui chiaramente s’ispira la globalizzazione, è il suo intrinseco utilitarismo: il ritenere cioè che abbia valore solo ciò che è "efficace", che valga di più ciò che consente i risultati migliori e "rende di più" in termini di produttività e di sviluppo. La conseguenza è che il giudizio etico rimane subordinato all’efficienza, all’innovazione tecnologica e al consenso sociale, senza alcun riferimento ai valori radicati nella stessa persona umana, nella sua coscienza morale e religiosa. "Assistiamo — lamenta Giovanni Paolo II — all’emergere di modelli di pensiero etico che sono sottoprodotti della globalizzazione stessa e che recano il marchio dell’utilitarismo. Tuttavia i valori etici non possono essere dettati dalle innovazioni tecnologiche, dalla tecnica e dall’efficienza. Essi sono radicati nella natura stessa della persona umana. L’etica non può essere la giustificazione o la legittimazione di un sistema, ma piuttosto deve essere la tutela di tutto ciò che c’è di umano in ogni sistema. L’etica richiede che i sistemi si adattino alle esigenze dell’uomo, e non che l’uomo venga sacrificato per la salvezza del sistema" (Discorso..., cit., 526 s., n. 4). Da qui derivano sia il relativismo etico, sia l’impronta "competitiva" (in certa misura "conflittuale") che la cultura neoliberista tende a imprimere all’economia e alla stessa vita sociale. Se le disuguaglianze sociali sono ineliminabili, è ineluttabile che il progresso arrida ai ricchi e non ai poveri, che il più forte prevalga e il debole soccomba, che il potere economico si accentri nelle mani di poche persone o di poche società multinazionali. Ora, è proprio il prevalere di questa logica di mercato a oscurare gli aspetti positivi che pure non mancano nella globalizzazione. Come non vedere che la globalizzazione costitituisce una occasione straordinaria per sviluppare nel mondo la coscienza dell’unità del genere umano? Basti pensare solo alle prospettive straordinarie che Internet offre sia di scambiare le informazioni, sia di esercitare forme efficaci di pressione in difesa dei diritti umani. Di fronte a queste prospettive positive che indubbiamente si aprono, la Chiesa non si stanca di invitare tutti a fare ogni sforzo per "globalizzare la solidarietà". Un contributo importante in questa direzione è venuto recentemente da un interessante documento del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali: Etica in Internet (22 febbraio 2002). Dopo avere rilevato che la globalizzazione può accrescere il benessere e promuovere lo sviluppo, incrementare la produzione, l’unità fra i popoli e un miglior servizio alla famiglia umana, il documento insiste sulla necessità di praticare la solidarietà a servizio del bene comune all’interno delle nazioni e fra di esse, servendosi proprio della nuova tecnologia informatica e soprattutto di Internet: "Questa tecnologia può essere uno strumento per risolvere problemi umani, promovendo lo sviluppo integrale delle persone, creando un mondo governato da giustizia, pace e amore" (n. 5). E insiste: per evitare che si producano ulteriori forme di discriminazione tra ricchi e poveri anche nell’accesso alle nuove tecnologie informatiche (digital divide), altra via non c’è che globalizzare la solidarietà. 3. Globalizzare la solidarietà La dottrina sociale della Chiesa è sempre stata fortemente critica verso la cultura liberale in tutte le sue forme, compresa quella neoliberista attuale. Tuttavia non si è mai limitata alla sola denuncia. Nello stesso tempo ha sempre insistito sulla necessità di integrare concretamente tra loro efficienza economica e solidarietà. Ultimamente, Giovanni Paolo II è tornato su questo punto con un altro discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (11 aprile 2002), ribadendo con forza che la globalizzazione impone a tutti di "esaminare in maniera rinnovata la questione della solidarietà" (L’Osservatore Romano, 12 aprile 2002, 5, n. 2). è l’unico modo per evitare che la globalizzazione progredisca a discapito dei più bisognosi e dei più deboli, allargando maggiormante il divario esistente tra ricchi e poveri, tra nazioni povere e nazioni ricche (cfr ivi, n. 3). Già nel precedente discorso del 2001 il Papa aveva ribadito quali sono i due principi inseparabili, alla cui luce orientare la globalizzazione, se si vuole evitare che i rapporti sociali si riducano esclusivamente a quelli economici e che i deboli siano lasciati in balìa del più forte. Affinché la globalizzazione manifesti invece le sue notevoli potenzialità positive — dice il Papa —, in primo luogo, non si deve mai dimenticare che "l’essere umano deve essere sempre un fine e mai un mezzo, un soggetto e non un oggetto né un prodotto di mercato" (Discorso..., cit., 527, n. 4). La globalizzazione cioè è uno strumento e, in quanto tale, va orientato al suo fine che è la persona umana nel contesto del bene comune e dello sviluppo sociale. Pertanto, "la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. Nessun sistema è fine a se stesso ed è necessario insistere sul fatto che la globalizzazione, come ogni altro sistema, deve essere al servizio della persona umana, della solidarietà e del bene comune" (ivi, 526, n. 2). Ecco perché la globalizzazione non va né assolutizzata, quasi fosse la panacea di tutti i mali, né va demonizzata quasi fosse una catastrofe. Va piuttosto orientata responsabilmente al suo fine, dandole un’anima etica, affinché serva veramente allo sviluppo umano di tutti. In secondo luogo — prosegue Giovanni Paolo II —, occorre tenere nel giusto conto il valore inalienabile di tutte le culture umane, che nessun potere esterno ha il diritto di sminuire e ancor meno di distruggere (cfr ivi, 527, n. 4). Il pericolo della globalizzazione è che produca una sorta di omologazione culturale, cioè l’appiattimento delle diverse culture locali sull’unico schema della cultura neoliberista prevalente. "La globalizzazione — afferma con forza il Papa — non deve essere un nuovo tipo di colonialismo. Deve rispettare la diversità delle culture che, nell’ambito dell’armonia universale dei popoli, sono le chiavi interpretative della vita" (ivi, n. 4). Che cosa fare allora? Globalizzare la solidarietà. Giovanni Paolo II fissa, a questo fine, un criterio importante: "L’umanità nell’intraprendere il processo di globalizzazione non può più fare a meno di un codice etico comune" (ivi). In altre parole: se si vuole che la globalizzazione non degeneri nel relativismo etico e nella omologazione degli stili di vita e delle culture, occorre ricercare insieme quei valori umani universali che esistono in tutte le varie elaborazioni culturali. è lo stesso concetto che già aveva espresso con forza nel suo discorso all’onu, in occasione del cinquantenario della fondazione, il 5 ottobre 1995: "Se vogliamo che un secolo di "costrizione" lasci spazio a un secolo di "persuasione", dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell’uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell’uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro" (L’Osservatore Romano, 6 ottobre 1995, n. 3). In ogni caso, bisognerà puntare su organismi internazionali dotati di autorità e di strumenti efficaci che accompagnino e orientino il processo di globalizzazione, con adeguate politiche che tengano presente tutta la complessità del fenomeno e non solo il suo aspetto economico: "A livello mondiale, si devono prospettare e applicare scelte collettive, attraverso un processo che favorisca la partecipazione responsabile di tutti gli uomini, chiamati a costruire insieme il loro futuro"; si tratta, cioè, di "regolamentare i mercati, sottoporre le leggi del mercato a quelle della solidarietà, affinché le persone e le società non siano in balìa di cambiamenti economici di ogni tipo e siano protette dalle scosse legate alla deregolamentazione dei mercati" (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 11 aprile 2002, cit., n. 5). Infine, non possiamo non rilevare che la globalizzazione interpella direttamente la Chiesa stessa. Anzi la comunità cristiana, in virtù della sua universalità e della sua "cattolicità", più di ogni altra realtà è in grado di comprendere e di orientare l’umanità verso una globalizzazione integrale, attenta al disegno di Dio. Nel messaggio per la prossima xxxvi Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (12 maggio 2002), Giovanni Paolo II pone esplicitamente la questione a tutta la comunità cristiana: "Come possiamo garantire che la rivoluzione dell’informazione e delle comunicazioni, che ha in Internet il suo motore primo, operi a favore della globalizzazione dello sviluppo umano e della solidarietà, obiettivi strettamente legati alla missione della Chiesa?" (L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2002). Oggi la Chiesa ritiene che sia parte della sua missione rendere cosciente la nostra generazione che il fenomeno della globalizzazione è un’occasione preziosa per costruire — secondo il disegno di Dio — l’unità del genere umano, salvaguardando le ricchezze, la dignità e la libertà di tutti i popoli che lo compongono. Concludendo: secondo l’insegnamento sociale della Chiesa, solo una "globalizzazione solidale" eviterà che nascano schiavitù di natura culturale peggiori delle antiche, e che i poveri vengano spogliati di ciò che hanno di più prezioso, cioè della propria cultura e della stessa libertà. Ancora una volta la Chiesa, rimanendo doverosamente sul piano etico e religioso che le è proprio, non esita a esprimere il suo giudizio su eventi e processi storici, per illuminarli con la luce del Vangelo. Pur mantenendosi equidistante dai movimenti sociali e politici, non può però restare "neutrale" verso le culture a cui essi ispirano le loro scelte politiche. è il caso della cultura neoliberista, a cui si ispira la globalizzazione. A costo pure della impopolarità, la Chiesa non può rinunciare a parlare con coraggio per formare le coscienze e aiutare tutti gli uomini di buona volontà nel necessario discernimento. Andando, se occorre, controcorrente. |