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DIBATTITO SULLA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E ART.18 |
Da AGGIORNAMENTI SOCIALI di aprile 2002 L'evoluzione del mercato del lavoro e Il lavoro umano: di Bartolomeo Sorge Il mondo del lavoro è inquieto. I lavoratori sono esasperati dalla prospettiva della perdita del posto e della precarietà. Dopo numerosi scioperi spontanei e altre manifestazioni in diverse parti del Paese, la protesta ha toccato il vertice con il proposito di giungere, se è necessario, allo sciopero generale. Che questa misura estrema sia giustificata appare dal fatto che non si tratta di una solita vertenza, ma la posta è molto più alta: si lotta per difendere la dignità del lavoro e dei lavoratori, minacciata dal debordare di una cultura economica e politica neoliberista che considera il lavoro stesso come una merce qualsiasi, che si compra o si "appalta", che si usa finché serve e si butta quando non serve più. Ovviamente il sindacato non può proporsi scopi strettamente politici che esulano dalle sue finalità; ma criticare e rifiutare una cultura economica e una legislazione che mortificano i diritti dei lavoratori rientra a pieno titolo nella sua funzione di difesa e di promozione del mondo del lavoro. Per comprendere appieno il significato del duro confronto in atto tra lavoratori e Governo, occorre innanzi tutto tenere presenti i grandi cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro; in secondo luogo, spiegare perché la battaglia sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori si sia trasformata in una questione di principio; infine, vedere che cosa fare per superare l’impasse.
Negli ultimi decenni il mondo del lavoro si è profondamente trasformato, sono mutate le relazioni industriali ed è cambiato il diritto del lavoro. La ragione è che si è chiusa la stagione del "fordismo", cioè di quel modello industriale che, dagli inizi del ’900 in poi, ha caratterizzato l’intero secolo xx. L’industriale americano H. Ford — padre della prima utilitaria (la famosa vettura "Ford modello T") — era stato il primo a intuire che l’incontro tra produzione e consumo di massa di beni durevoli sarebbe stato in grado di offrire straordinarie opportunità di crescita economica. Nacque così la lunga stagione del "fordismo", i cui simboli rimangono la catena di montaggio e la giornata lavorativa di otto ore (cfr "Fordismo", in L’enciclopedia dell’economia, De Agostini, Novara 1998). Negli anni ’50 e ’60, dopo la seconda guerra mondiale, le idee di Ford sulla razionalizzazione della produzione e l’aumento dei salari furono applicate in tutto l’Occidente attraverso la contrattazione sindacale e produssero effettivamente notevoli risultati in termini di crescita della produttività e del potere d’acquisto. Con gli anni ’70 cominciò la stagione delle grandi ristrutturazioni industriali e della trasformazione dei profili lavorativi. I cambiamenti furono dovuti soprattutto alla progressiva introduzione nel processo produttivo delle nuove tecnologie, che presero gradualmente il posto della catena di montaggio e richiesero una manodopera sempre più specializzata. Si svilupparono, così, le attività terziarie mentre le attività industriali persero progressivamente importanza. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300), fissò norme importanti sia sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, sia sul collocamento. Negli anni ’80 siamo ormai in pieno "postfordismo": si passa cioè dal sistema di produzione in serie a un sistema di produzione differenziata e flessibile. Al posto della vecchia catena di montaggio subentrano i macchinari digitali programmabili, al posto di lavoratori dequalificati occorre una manodopera sempre più qualificata. Il "secolo del lavoro" lascia il passo all’"era della conoscenza"; il mercato del lavoro progressivamente si liberalizza e diviene sempre più flessibile. A cominciare dagli anni ’90, al contratto "tipo" (a tempo indeterminato e con l’orario standard di otto ore quotidiane) subentrano forme contrattuali diverse (lavoro interinale, autonomo, collaborazione coordinata e continuativa, ecc.), che si differenziano sia quanto alla durata del contratto, sia quanto all’orario di lavoro. Questa flessibilità, di per sé, non è necessariamente sinonimo di precarietà. Certo, il rischio c’è, ma non è detto che chi fa un lavoro flessibile sia destinato necessariamente, prima o poi, a rimanere senza lavoro o a non trovarne uno migliore. Anzi la flessibilità produce pure importanti effetti positivi, primo fra tutti l’esigenza di una manodopera di qualità, stimolando imprenditori e lavoratori a intensificare la formazione professionale. Tant’è vero che spesso sono gli stessi prestatori d’opera (soprattutto le donne) a preferire di iniziare la giornata lavorativa a orari liberamente scaglionati, a chiedere di potersi mettere temporaneamente a part-time, a desiderare periodi di tempo libero da dedicare a se stessi e alla famiglia, rafforzando così la tendenza a "scegliersi", per quanto è possibile, il tempo da dedicare al lavoro. Già negli anni ’80, però, cominciano a manifestarsi i primi sintomi di un ridimensionamento delle garanzie poste a tutela dei lavoratori. è significativo, per esempio, che la Legge 28 febbraio 1987, n. 56, venga ad ammorbidire la rigida disciplina stabilita precedentemente — nel 1962 — in materia di contratti di lavoro a termine. La nuova normativa consente che il contratto a termine si possa estendere indiscriminatamente a tutti i casi che vengano previsti all’interno dei contratti collettivi stipulati con i sindacati nazionali. Negli anni ’90, la flessibilità del lavoro cresce ancora. Fermo restando il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa (art. 18 dello Statuto dei lavoratori), si apre però la strada ai licenziamenti collettivi, qualora un’impresa in cassa integrazione non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi (Legge 23 luglio 1991, n. 223). Successivamente si apportano ulteriori modifiche nella direzione di una maggiore flessibilità, anche a motivo del progressivo recepimento delle direttive della Comunità Europea. Si giunge così a stabilire che il contratto di lavoro subordinato potrà essere a termine, ogni qualvolta lo richiedano ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo (Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 638, art. 1). Cioè, praticamente, sempre. E di fatto, negli ultimi anni, si sono moltiplicati i casi di lavoratori che ricorrono a forme di lavoro interinale (cosiddetto "in affitto") o part-time, anche se non sempre si tratta di una libera scelta. Mancando però sia adeguati ammortizzatori sociali sia un sistema efficiente di formazione professionale, i lavoratori rischiano sempre più la precarietà. E ciò diffonde, ogni giorno più, un clima pesante di insicurezza. Era inevitabile, in questo clima di incertezza, che il Disegno di Legge 15 novembre 2001 — Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro — si trasformasse nella classica goccia che fa traboccare il vaso. Infatti il Disegno di Legge del governo Berlusconi viene a radicalizzare proprio la prospettiva della temuta precarietà. Mentre l’ordinamento precedente (tuttora vigente), nonostante le modifiche apportate, privilegia il rapporto di lavoro a tempo indeterminato e considera il contratto a termine come un’eccezione, invece il Disegno di Legge governativo privilegia il contratto a tempo determinato, con la prospettiva di liberalizzarlo totalmente nel giro di pochi anni, considerandolo come la forma "normale" di assunzione al lavoro. Perciò si ha la netta sensazione che la prima e principale preoccupazione del Legislatore sia non già la tutela del lavoro e del lavoratore, bensì quella dell’impresa e dell’imprenditore. E poiché il contratto a termine (mancando tuttora le necessarie garanzie) è di natura sua precario, era inevitabile che i lavoratori giudicassero il Disegno di legge del Governo come una trappola, dato che la flessibilità che esso vorrebbe introdurre produrrebbe inevitabilmente precarietà, con effetti gravemente destabilizzanti sulla vita delle famiglie. Il caso, quindi, solleva di nuovo la questione di fondo sulla quale oggi il Paese s’interroga: quale modello di società vogliamo costruire? Una società solidale, dove il lavoro è tutelato come una "risorsa" fondamentale per la vita democratica (come vuole l’art. 1 Cost.), oppure una società liberista che propugna tra i cittadini una uguaglianza puramente "formale", e considera il lavoro come una "merce", che si può comprare o vendere secondo la convenienza del mercato? Non c’è dubbio che il Disegno di Legge governativo si collochi in questa seconda prospettiva, anteponendo le esigenze dell’impresa a quelle del lavoratore, la dimensione economica del lavoro alla sua dimensione umana. 2. Il conflitto sull’art. 18 dello Statuto del lavoratori Perciò, la proposta del Governo Berlusconi di mettere in discussione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori assume una portata che va molto al di là delle modifiche che, con il consenso delle parti, si sarebbero potute ragionevolmente apportare all’articolo in questione. Vediamo, dunque, più da vicino la ragione del contendere. Il Disegno di Legge 15 novembre 2001 prevede che, in caso di licenziamento senza giusta causa, il datore di lavoro non sia più obbligato a reintegrare il lavoratore dimesso, ma in alternativa il giudice possa solo imporre all’azienda un risarcimento pecuniario. Concretamente ciò si verificherebbe solo in alcuni determinati casi: a) nel caso di lavoratori in nero che l’azienda provvede a far "emergere"; b) nel caso di lavoratori assunti a termine, il cui rapporto venga successivamente trasformato a tempo indeterminato; c) nel caso di lavoratori assunti in una impresa con meno di 15 dipendenti, qualora con le nuove assunzioni si superasse il numero di 15 lavoratori. A prima vista potrebbe sembrare che questi casi di flessibilità favoriscano la creazione di nuovi posti di lavoro, quindi l’occupazione; e, almeno in parte, ciò può essere vero nel caso delle piccole imprese. Ma in realtà questa flessibilità — come giustamente temono i sindacati — può rivelarsi una trappola. Infatti i lavoratori assunti a termine, appena il loro contratto divenisse a tempo indeterminato, potrebbero essere licenziati senza giusta causa, a differenza dei propri compagni assunti fin dall’inizio con un contratto a tempo indeterminato. Vi sarebbero cioè, nella stessa azienda, lavoratori di serie A e di serie B. E poi è facile prevedere che, nell’arco di qualche anno, tutte le imprese finirebbero con l’assumere lavoratori solo con contratto a tempo determinato, per trasformarlo successivamente in contratto a tempo indeterminato: infatti, ciò sarebbe gradito sia ai lavoratori (che aspirano ad avere un posto permanente), sia all’imprenditore, perché così scatterebbe per l’azienda la possibilità di licenziare senza giusta causa. Chi non vede quanto ciò sia lesivo della dignità del lavoratore? La possibilità di essere licenziati senza giusta causa e senza diritto alla reintegrazione penderebbe come una spada di Damocle sulla testa dei lavoratori, sarebbe un vero e proprio ricatto che si rifletterebbe negativamente anche sull’esercizio di diritti fondamentali: sarebbe ben difficile protestare od opporsi di fronte a soprusi, a pressioni e ad arbitri di ogni genere che ineluttabilmente si moltiplicherebbero nei luoghi di lavoro. Certo, è lamentevole che la situazione sia degenerata in un conflitto aperto tra sindacati e Governo. Infatti, l’art. 18 non può essere considerato un tabù. Una equilibrata flessibilità del lavoro è indubbiamente una delle esigenze delle aziende per reggere sul mercato globale sempre più competitivo. Ma essa va concepita e attuata salvaguardando al massimo le esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie. Perciò non si può escludere che l’art. 18 possa essere modificato, previa "concertazione sociale" o, come il Governo Berlusconi preferisce chiamarla, "dialogo sociale". Ogni modifica dell’art. 18 sarebbe pertanto accettabile in un quadro di tutele più ampie di quelle previste, che consentano il più possibile la stabilità del lavoro, pur adeguando l’articolo stesso alle mutate condizioni dell’ attività economica. Ciò, del resto, è già avvenuto con la Legge 11 maggio 1990, n. 108, che ne ha modificato i primi due commi. Tuttavia è stato il modo con cui il Governo ha posto il problema che ha finito col trasformare in battaglia ideologica una questione che di per sé aveva e ha una portata relativa. Trasformandolo in una questione di principio, ora è molto difficile trovare un accordo tra lavoratori e Governo. Infatti, toccare ora l’art. 18 porterebbe da un lato ad alterare le relazioni industriali sui luoghi di lavoro e, dall’altro, a ridimensionare pericolosamente il ruolo stesso dei sindacati. Rimane dunque aperta la questione su che cosa fare. Non è forse possibile cogliere l’occasione del conflitto sull’art. 18 per compiere un passo in avanti verso una concezione più matura dei rapporti industriali e della stessa attività lavorativa? 3. Per una soluzione positiva del conflitto Siamo convinti che la strada per una soluzione positiva del conflitto ci sia. Essa va imboccata, innanzi tutto, richiamandosi ad alcuni principi fondamentali che non si possono ignorare e non sono negoziabili. Sono valori ormai maturati nella coscienza del mondo del lavoro. Su di essi ritorna frequentemente anche la dottrina sociale della Chiesa. Il primo principio da osservare è il primato della persona nei confronti del lavoro: "Il lavoro è "per l’uomo", e non l’uomo "per il lavoro"" (Giovanni Paolo II, enciclica Laborem exercens [1981], n. 6). Da questo principio deriva il primato del lavoro umano sul profitto e sulla pura razionalità economica. Infatti, "il lavoro è un bene dell’uomo — è un bene della sua umanità —, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, "diventa più uomo"" (ivi, n. 9). Si può dire, dunque, che il lavoro appartiene all’ambito dell’essere più che a quello dell’avere. Ciò non significa che il profitto debba essere demonizzato: il fatto che un’azienda produca profitto è positivo, vuol dire che gode di buona salute. Si vuol solo dire che il profitto non può essere l’unico indice per giudicare della sanità di un’azienda, perché "è possibile che i conti economici siano in ordine e insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità" (Giovanni Paolo II, enciclica Centesimus annus [1991], n. 35). Un secondo principio fondamentale è quello di solidarietà e riguarda in particolare i rapporti e l’organizzazione del lavoro. Per impostare un rapporto corretto tra persona, lavoro e progresso — come spiega Giovanni Paolo II — "occorre fare del principio di solidarietà il criterio costante e qualificante delle scelte di politica economica. Purtroppo ancora oggi non manca chi crede che la più ampia libertà di mercato, favorendo l’iniziativa e la crescita economica, si traduca automaticamente in ricchezza per tutti. Ma la storia e la realtà sotto i nostri occhi mostrano a sufficienza che non è così. Assistiamo anzi a momenti di espansione produttiva che, anche a motivo dell’innovazione tecnologica, si accompagnano ad aumento di disoccupazione e relativo disagio sociale. Bisogna dunque trovare un conveniente punto di equilibrio tra le esigenze della libertà economica, che non può essere ingiustamente penalizzata, e quella "cultura delle regole" che, da una parte, garantisce i benefici della leale competizione e, dall’altra, si pone a tutela dei diritti del lavoro e, primo fra essi, del diritto del lavoro per tutti. La ricerca di tale equilibrio non è facile, ma è una sfida a cui ciascuna componente sociale non si può sottrarre" (Discorso ai rappresentanti del lavoro, Colle Val d’Elsa – Siena, 30 marzo 1996, n. 6, in L’Osservatore Romano, 31 marzo 1996). La vera solidarietà, dunque, si pone agli antipodi dell’assistenzialismo, e consiste nel consentire ai lavoratori, nella concreta situazione dell’impresa, di esercitare quella creatività che è propria della persona umana e che sta all’origine della stessa produzione della ricchezza. In conclusione — come affermano i vescovi italiani — "i tempi sono maturi perché si rifletta seriamente sul significato del lavoro nella società post-industriale. […] Dal momento che oggi si è in grado di produrre ricchezza con meno lavoro, la situazione attuale si presenta come una grande opportunità: finalmente potrebbero essere riconosciute e promosse attività che sono di grande importanza sociale, anche se non partecipano direttamente al processo produttivo di mercato (sostegno alle famiglie, cura delle persone anziane e dei portatori di handicap, protezione e cura dell’ambiente, ecc.). Perché ciò si realizzi è necessario che venga accolta l’idea che il valore del lavoro non è unicamente connesso al fatto di produrre un reddito, ma al fatto di essere attività della persona, da cui ricava il suo senso e la sua dignità" (cei, Democrazia economica, sviluppo e bene comune [1994], n. 59). Ebbene, questi principi valgono per tutti: lavoratori, imprenditori e Governo. è necessario dunque che il Governo faccia un passo indietro e "stralci" l’art. 18. Il "muro contro muro" serve solo a irrigidire il confronto. Invece, svelenito il clima, si potrà riprendere a discutere della flessibilità e delle sue regole, senza trappole. Si potrà affrontare il discorso sul nuovo c.d. "Statuto dei lavori", attivando di comune accordo tra lavoratori, imprenditori, sindacati e istituzioni un sistema di protezione sociale e di formazione permanente, che consenta al lavoratore flessibile di trovare un’altra occupazione, una volta terminata la prima. La revisione dell’art. 18 non sarà più vissuta come una questione di principio, solo quando sarà chiaro che il lavoro non è trattato come una merce, ma — quale esso è — come una risorsa preziosa dell’uomo e della società. |