Terrorismo, ritorsione,
legittima difesa, guerra e pace
Discorso per la vigilia di S. Ambrogio 2001
Milano, 6.12.2001
Dal Vangelo secondo Luca (13, 1-5)
"In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli
circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro
sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: "Credete che quei Galilei fossero
più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se
non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i
quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di
tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite,
perirete tutti allo stesso modo"".
INTRODUZIONE
I temi del mio discorso, indicati nel titolo, hanno
accompagnato da sempre l'umanità, da quando Caino alzò la mano proditoriamente
su Abele e lo uccise (Gen 4,8) e da quando Dio dichiarò: "Però chiunque ucciderà
Caino subirà la vendetta sette volte" (Gen 4,15), fino alla parola di Gesù: "Vi
lascio la pace, vi do la mia pace" (Gv 14,27).
Ma in questi mesi, a partire dall'11 settembre, tali temi sono
ritornati di bruciante attualità.
I fatti li conosciamo: gravissimi attentati terroristici che
rivelano una capacità inaudita di odio e fanatismo, che si serve di tecnologie
raffinate e si nutre di forme finora inedite di fondamentalismo civile e
religioso (pensiamo a tutti gli aspiranti suicidi). Agli attentati è seguita
un'azione di caccia ai terroristi che è sfociata in una guerra in Afghanistan.
In questi ultimi giorni, poi, si sono moltiplicati vergognosi attentati suicidi
contro cittadini inermi in Israele, a cui hanno fatto seguito ritorsioni e
azioni militari in Palestina, in luoghi dove ormai da anni c'è un crescendo di
violenza di cui non si vede la fine.
1. UNO SGUARDO AL VANGELO (Lc 13,1-5)
Questi fatti ci addolorano, ci interpellano, ci sconvolgono.
Pensiamo con dolore agli innumerevoli morti, ai feriti che porteranno per tutta
la vita il segno della tragedia, alle famiglie distrutte, ai milioni di
profughi, al pianto dei bambini mutilati. Nascono molte domande, ipotesi,
inquietudini. Domande di carattere umano e religioso e anche di carattere
politico. Si vorrebbe capire, giudicare, vedere come agire per farla finita con
il terrorismo, la paura, la guerra, come operare seriamente per una pace
duratura.
Certamente la situazione è ancora troppo complessa e fluida per
descriverla in maniera adeguata. Ogni giorno, poi, aggiunge la sua sorpresa, per
lo più dolorosa. Avevo iniziato queste riflessioni partendo anzitutto
dall'attentato alle torri gemelle, ma gli eventi in Afghanistan e negli ultimi
giorni la recrudescenza degli eccidi in Medio Oriente hanno via via allargato il
mio campo di discernimento. Del resto è innegabile che nella preparazione della
tragedia dell'11 settembre ha avuto un ruolo non secondario il risentimento
accumulato nell'annoso conflitto israeliano-palestinese. Perciò mi sono chiesto
con insistenza e ho chiesto al Signore: in questo turbine della nostra storia,
ha davvero senso parlare di pace? E in che modo, e a quale prezzo?
Parlando, leggendo e ascoltando molto, mi sono accorto di come
anche i pareri siano tanto divergenti. Molteplici i punti di vista, gli angoli
di visuale; fortissime le passioni, i coinvolgimenti emotivi; resistenti a
sgretolarsi le precomprensioni, soprattutto quelle inconsce. Sembrerebbe più
saggio attendere, pregare, e per intanto sanare e medicare in quanto si può le
ferite, come in emergenza. Ma sant'Ambrogio non si è sottratto alla riflessione
e al tentativo di giudizio su fatti assai gravi, pubblici e controversi del suo
tempo. Così il suo umile successore chiede, per l'intercessione del nostro
Patrono e con l'aiuto delle preghiere e dei suggerimenti di tanti, la grazia di
poter parlare a voce alta di queste cose di fronte a Dio, al vangelo e alla
coscienza dell'umanità. Sono numerose le pagine bibliche evocate in questi mesi
per cercare luce nella parola di Dio. Io vorrei partire dal passo evangelico di
Luca (13,1-5) che è stato letto durante la preghiera vespertina: si tratta di
due affermazioni o reazioni di Gesù, posto di fronte a gravi fatti di sangue di
origine politica e a dolorose calamità naturali.
"In quello stesso tempo si presentarono a Gesù alcuni a
riferirgli circa quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello
dei loro sacrifici. Prendendo la parola Gesù rispose: Credete che quei Galilei
fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi
dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto
sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più
colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi
convertite, perirete tutti allo stesso modo".
Noto un particolare curioso. S. Ambrogio, che pure commenta con
accuratezza e talora con pedanteria l'intero terzo vangelo, su tale punto è
reticente. Sorvolando su qualunque sentimento antiromano che poteva risultare
dal crimine di Pilato, si limita a un'affermazione marginale, ipotizzando, per
il massacro di Gerusalemme, una colpa rituale dei Galilei uccisi, così da farne
un caso esemplare di punizione "per coloro che su istigazione diabolica non
offrono il sacrificio con animo puro" (Esp. del Vang. Sec. Luca, VII, 159).
Evita quindi di lasciarsi coinvolgere dalle ardue domande politiche e teologiche
che emergono da tali eventi e lascia senza commento lo sconcertante e inedito
comportamento di Gesù. Noi però non riusciamo a fare altrettanto.
Gesù si trova infatti di fronte a un groviglio di problemi
etici, teologici e politici. Gli interrogativi che emergono sono analoghi ma
superiori per gravità a quello sul quale sarà poi interrogato a proposito del
tributo da pagare a Cesare (Lc 20,20-26): interrogazione quest'ultima - nota
l'evangelista Luca - propostagli "da informatori che si fingevano persone
oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all'autorità e
al potere del governatore" (Lc 20,20).
Qui si tratta ugualmente di domande a trappola, ma a proposito
di fatti ben più sconvolgenti. V'è in questione ciò che noi chiameremmo una
"strage di Stato", voluta dal rappresentante dell'imperatore e per di più
perpetrata nel luogo sacro del tempio: quindi un massacro avvenuto probabilmente
durante le festività pasquali, nel quale dovevano essere state trucidate molte
persone, forse terroristi disposti al sacrificio supremo. Non sappiamo quanti
fossero, ma è sufficiente ricordare che alcuni anni prima il predecessore di
Pilato aveva ucciso in una sola occasione tremila ebrei.
Gesù viene dunque provocato a esprimersi e a dare un giudizio:
condannerà l'assassinio politico, voluto per umiliare ulteriormente gli Ebrei e
profanare il tempio? griderà contro la crudeltà e il cinismo del regime
dominante? Oppure, come altri in Israele che ritenevano la dominazione straniera
comunque un minor male di fronte a un possibile caos, dirà che si è trattato di
una dolorosa operazione di legittima difesa, di una repressione inevitabile per
scongiurare nuove stragi da parte di un terrorismo suicida e senza sbocchi? Non
aveva forse un tempo lo stesso profeta Geremia sconsigliato atti di inutile
resistenza al conquistatore babilonese? Immagino che Gesù si sarà sentito
addosso la domanda che un giorno gli rivolgeranno i Giudei nel tempio: "Fino a
quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei davvero il Cristo, dillo a noi
apertamente". Cioè, nel nostro caso: facci sapere, tu che sai tutto, da che
parte sta la verità e da che parte sta l'ingiustizia. Anche la seconda
situazione narrata da Luca 13,1-5 richiama domande attuali. Essa riguarda una
calamità naturale, la caduta di una torre a Gerusalemme che travolge diciotto
persone (noi pensiamo agli incidenti e drammi di questi ultimi tempi: i disastri
dei trafori del Monte Bianco e del Gottardo, il tragico incidente di Linate, gli
incidenti aerei delle ultime settimane, le stragi per le fughe di gas...).
Allora, come ora, tali incidenti suscitavano tante domande: si tratta di
calamità inevitabili o sono frutto di negligenza, di errore umano o di
incoscienza o di imprudenze inescusabili? Chi è colpevole? Chi doveva vigilare?
Quale autorità ha omesso i dovuti controlli, ha sottovalutato gli appelli
ecc.?
I due episodi sono proposti a Gesù perché prenda posizione.
Molti aspettano, come ho sopra indicato, che egli si dichiari contro il tiranno
Pilato; altri vorrebbero che criticasse i Galilei come terroristi insipienti. A
proposito della caduta della torre ci si attende che denunci con parole di fuoco
l'incuria dei governanti o al contrario rimproveri l'imprudenza colpevole della
gente. Invece si verifica l'imprevisto. Gesù non prende posizione né pro, né
contro nessuna delle persone coinvolte, non si esprime su chi degli immediati
protagonisti sia da ritenersi colpevole. Proclama, è vero, un suo giudizio, che
dovremo approfondire. Ma la sua voce sta al di sopra di tutti i temi sia pur
gravi di politica corrente. Ciò può sorprendere, deludere e turbare. Vedremo che
cosa voglia dire per l'oggi. Notiamo tuttavia fin da ora che si verifica qui
quanto affermava un recente storico delle origini cristiane: "In confronto ai
profeti classici di Israele, il Gesù storico è notevolmente silenzioso a
proposito di molte scottanti questioni sociali e politiche del suo tempo… Il
Gesù storico sovverte non solo alcune ideologie, ma tutte le ideologie" (J.P.
Meier, Un ebreo marginale: Ripensare il Gesù storico, Brescia 2001, p.189).
2. LE DOMANDE DI OGGI
Qualcosa di simile avviene oggi. Gli interrogativi sui fatti
della storia e soprattutto su quelli drammatici dei nostri giorni sono tanti e
comprensibilmente carichi di sofferte emozioni, di precomprensioni affettive e
anche di pregiudizi. E non di rado si invocano da qualche autorità morale
risposte immediate e chiarificatrici ( per lo più nell'attesa di essere
confermati in ciò che ciascuno ha già giudicato dentro di sé!). Molte, in
particolare, le interrogazioni gravi che si pone l'uomo della strada di fronte
alle notizie e alle immagini televisive di questi mesi e di questi giorni.
La prima riguarda gli autori dei gesti di terrorismo, a partire
dai più clamorosi e micidiali, specialmente quelli connessi col suicidio
dell'attentatore, ed è la domanda sul perché. Perché un essere umano può
giungere a tanta crudeltà e cecità? Ci si chiede in quali oscuri meandri della
coscienza possano albergare tali sentimenti di odio, di fanatismo politico e
religioso, quali risentimenti personali e sensi di umiliazione collettiva
possano essere alla radice di simili folli decisioni. Nulla e nessuno potrà mai
giustificare tali atti o dare loro una qualunque parvenza anche larvata di
legittimazione. Ci dobbiamo però chiedere: noi tutti ci siamo davvero resi conto
nel passato, rispetto ad altre persone e popoli, quanto grandi ed esplosivi
potessero a poco a poco divenire i risentimenti e quanto nei nostri
comportamenti potesse contribuire e contribuisse di fatto ad attizzare nel
silenzio vampate di ribellione e di odio?
Non posso, a proposito della prima domanda, non sottolineare la
tremenda responsabilità di chi, magari dotato di grandi mezzi di fortuna, ha
imparato a sfruttare i risentimenti e li fornisce di strumenti di morte,
finanziando, armando e organizzando i terroristi in ogni parte del mondo, forse
pure vicino a noi. Anche per costoro non v'è nessuna ragione o benché minima
legittimazione per il loro agire. Valgono piuttosto le parole di Gesù per chi
sfrutta in tal modo la debolezza di persone semplici: "Sarebbe meglio per lui
che gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino, e fosse gettato
negli abissi del mare!" (Mt 18,1). E non posso nemmeno dimenticare quanto Gesù
diceva nel discorso della Montagna proibendo persino una parola offensiva perché
contenente già i germi dell'odio e dell'omicidio (Mt 5,22: "Chi dice al fratello
'pazzo'!, sarà sottoposto al fuoco della Geenna"). Chi di noi ha l'età per
ricordare i primi tempi della contestazione (fine anni 60-inizio anni 70) sa che
la noncuranza e la leggerezza, ostentata anche da chi avrebbe avuto la
responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e
disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi.
Chi getta oggi il sasso e si sente impunito domani potrà buttare la bomba o
impugnare la pistola. La "tolleranza zero" è, per ogni parola o gesto di odio,
supportata da una regola evangelica.
Oltre alla domanda di un giudizio umano e morale severo su ogni
anche piccola radice di disprezzo e di odio - da qualunque parte provenga e
contro chiunque si eserciti, per smascherarla e in quanto possibile per
esorcizzarla e disarmarla - emerge con insistenza nel cuore della gente anche
una seconda domanda, di natura piuttosto politica e militare: il tipo di
operazioni che si vanno facendo contro il terrorismo sarà efficace? Servirà
davvero a scoraggiare i terroristi, a chiudere gli episodi macabri degli
uomini-bomba, a creare le condizioni per un superamento delle cause di tante
inquietudini? Ben pochi di noi hanno risposte certe e articolate a tutte queste
questioni, anche per la loro complessità e gli scenari e episodi diversi e
mutevoli a cui esse si riferiscono. Ciò non toglie che esse gravino pesantemente
sulle coscienze di tutti, in particolare di coloro che sono più direttamente
responsabili di programmare le operazioni contro il terrorismo, di determinare
le misure politiche, economiche, giudiziarie, culturali che si ritengono
necessarie. Soltanto loro conoscono da vicino le circostanze e l'efficacia,
positiva e negativa, dei bombardamenti e di altre azioni di guerra, dato che gli
stessi mass media non sembrano aver un accesso se non limitato alle fonti
dirette dei dati e delle strategie militari. Anche a tale domanda non osiamo
dare qui una risposta; però è connessa strettamente con la seguente.
La terza domanda è di tipo etico: ciò che si è fatto e si sta
facendo contro il terrorismo specialmente a livello bellico rimane nei limiti
della legittima difesa, o presenta la figura, almeno in alcuni casi, della
ritorsione, dell'eccesso di violenza, della vendetta? È chiaro che il diritto di
legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure in nome di un principio
evangelico. Occorre tuttavia una continua vigilanza, un costante dominio su di
sé e delle passioni individuali e collettive per far sì che nella necessaria
azione di prevenzione e di giustizia non si insinui la voluttà della rivalsa e
la dismisura della vendetta. Si era avuta l'impressione che questi principi di
cautela fossero presenti nei primi giorni della reazione ai terribili attentati
dell'11 settembre. Ma ora a che punto siamo? Non hanno forse l'ansia di vittoria
e il dinamismo della violenza preso la mano diminuendo la soglia di vigilanza
sulle azioni di guerra che potrebbero essere non strettamente necessarie
rispetto agli obiettivi originari e soprattutto colpire popolazioni inermi? È
qui che il principio della legittima difesa viene messo gravemente in questione,
poiché non si può impunemente andare oltre senza creare più odi e conflitti di
quanto non si pretenda risolverne. Sembra questo in particolare il caso, è
doloroso dirlo, di quanto continua ad accadere in maniera crescente in Medio
Oriente. Da una parte un terrorismo folle e suicida contro cittadini pacifici,
fra cui tanti bambini, un terrorismo che non conduce a nulla e che suscita un
crescendo di ira, indignazione e orrore. Dall'altra atti di rappresaglia,
difficilmente definibili ancora come operazioni di legittima difesa, che
colpiscono popolazioni inermi, e anche qui tanti bambini. Vi si aggiungono in
più vere e proprie azioni belliche, di fronte alle quali perfino l'osservatore
più imparziale e sinceramente desideroso e convinto del bisogno di una piena
sicurezza per il paese che così agisce, non riesce a cogliere quale sia la
strategia della pace e della sicurezza che pure è sempre nel desiderio di tutto
quel popolo la cui sopravvivenza è essenziale per il futuro della pace nella
regione e nel mondo intero.
Le tre domande sono nel cuore di tanta gente e su di esse vi
sarebbe tanto da discutere. In ogni caso, pur facendo riferimento a elementi
etici di estrema gravità, non sono di competenza solo, e spesso neanche in prima
istanza, della Chiesa. Non sta alla Chiesa dare l'ultimo giudizio pratico su
atti di cui soltanto pochi conoscono le modalità ultime e precise. Sollevando
interrogativi come quelli espressi sopra non ho voluto tanto esprimere giudizi
definitivi quanto aiutare me e voi a riflettere seriamente e soprattutto
stimolare i competenti e i responsabili a pesare ogni loro opinione e azione su
una bilancia di rigorosa giustizia e di rispetto dei diritti umani di ognuno.
Tali responsabili veramente competenti non sono probabilmente molti. Certamente
assai meno di quanto non si pensi o non appaia dal numero e dalla molteplicità
delle opinioni che vengono formulate, spesso con tanta sicurezza. Sono pochi
infatti a conoscere a fondo tutti i dati disponibili sui terroristi, i loro
progetti, le loro risorse; poche le notizie che realmente filtrano sugli atti di
guerra e le loro conseguenze, la natura delle resistenze e gli ambiti delle
strategie. Le autorità politiche e militari responsabili - me ne rendo conto -
pagano qui una misura ardua di solitudine a fronte di decisioni che coinvolgono
la vita di milioni di persone.
Perciò è tanto più prezioso il controllo democratico stabile e
metodico esercitato dai Parlamenti e da una opinione pubblica intelligente e non
faziosa, correttamente informata prima sul varo e poi sulla conduzione degli
eventuali interventi.
3. L'ATTEGGIAMENTO DI GESU'
A questo punto ci impressiona e ci scuote ancora di più
l'atteggiamento di Gesù nel brano di Luca, da cui siamo partiti e al quale ora
vorrei ritornare. C'è infatti un'ulteriore domanda oltre a quelle richiamate a
proposito dei fatti attuali di terrorismo e di guerra. È una domanda molto
semplice, di natura evangelica. Suona così: che cosa ci direbbe oggi Gesù su
quanto abbiamo evocato fin qui? Che cosa ci suggerirebbe nello spirito del
Discorso della Montagna, nel quadro delle beatitudini dei misericordiosi e degli
operatori di pace?
Nella pagina di Luca 13,1-5 Gesù non entra in nessuno dei
problemi che hanno in mente i suoi interlocutori e che riguardavano
l'attribuzione delle colpevolezze per gravi fatti di sangue, la ricerca di capri
espiatori. Superando ogni giudizio morale categoriale sulle azioni di singoli o
di gruppi, Gesù rimanda alla radice profonda di tutti questi mali, cioè alla
peccaminosità di tutti, alla connivenza interiore di ciascuno con la violenza e
il male, ripetendo per ben due volte: "se non vi convertite, perirete tutti allo
stesso modo". Egli invita a cercare in ciascuno di noi i segni della nostra
complicità con l'ingiustizia. Ammonisce a non limitarsi a sradicarla qui o là,
ma a cambiare scala di valori, a cambiare vita.
Ciò in un primo momento ci sorprende. Ci appare una fuga dal
presente, un volare troppo alto di fronte a eventi che richiedono con urgenza
decisioni e giudizi. Ci sembra un generalizzare un problema che rischia di
confondere torti e ragioni, carnefici e vittime, tutti accomunati sotto un unico
denominatore.
Ma Gesù non intende per nulla togliere a ciascuno la sua
concreta responsabilità. Ognuno è responsabile delle proprie azioni e ne porta
le conseguenze. Per questo Gesù disse a Pietro che tentava di difenderlo con la
forza quando vennero per arrestarlo: "Rimetti la spada nel fodero, perché tutti
quelli che metteranno mano alla spada periranno di spada" (Mt 26,52). Egli sa
che ciascuno deve prendere le sue decisioni morali di fronte alle singole
situazioni. Gli importa però assai di più segnalare che gli sforzi umani di
distruggere il male con la forza delle armi non avranno mai un effetto duraturo
se non si prenderà seriamente coscienza di come le cause profonde del male
stanno dentro, nel cuore e nella vita di ogni persona, etnia, gruppo, nazione,
istituzione che è connivente con l'ingiustizia. Se non si mette mano a questi
ambiti più profondi mutando la nostra scala di valori, tra breve ci ritroveremo
di fronte a quei mali che abbiamo cercato con ogni sforzo esteriore di
eliminare.
È così che i Vescovi provenienti da tutto il mondo e riuniti in
Sinodo nel mese di ottobre 2001 hanno valutato la situazione odierna. Cito dal
messaggio finale: "La nostra assemblea, in comunione con il santo Padre, ha
espresso la più viva sofferenza per le vittime degli attentati dell'11 settembre
e per le loro famiglie. Preghiamo per loro e per tutte le vittime del terrorismo
nel mondo. Condanniamo in maniera assoluta il terrorismo, che nulla può
giustificare. D'altronde non abbiamo potuto non ascoltare, nel corso del Sinodo,
l'eco di tanti altri drammi collettivi... Secondo osservatori competenti
dell'economia mondiale, l'80% della popolazione del pianeta vive con il 20%
delle sue risorse e un miliardo e duecento milioni di persone sono costretti a
vivere con meno di un dollaro al giorno. Si impone un cambiamento di ordine
morale" (nn. 9-10). E ancora i Vescovi elencano alcuni "mali endemici, troppo a
lungo sottovalutati, che possono portare alla disperazione intere popolazioni.
Come tacere di fronte al dramma persistente della fame e della povertà estrema,
in un'epoca in cui l'umanità ha a disposizione come non mai gli strumenti per
un'equa condivisione? Non possiamo non esprimere la nostra solidarietà con la
massa dei rifugiati e degli immigrati che, a causa di guerra, in conseguenza di
oppressione politica o di discriminazione economica, sono costretti ad
abbandonare la propria terra..." (n. 11).
Sono tanti i mali da deplorare e da sconfiggere: oltre il
terrorismo e la violenza va condannata ogni ingiustizia e va eliminato ogni
affronto alla dignità umana. Ci chiediamo: sarà possibile una tale inversione di
tendenza? Osiamo affermare di sì, anzitutto perché un simile raddrizzamento
della scala dei valori è necessario per il superamento di quella conflittualità
crescente che mira alla distruzione reciproca dei contendenti. In secondo luogo
perché contiamo sulla grazia di Dio e sulla ragionevolezza di fondo dell'uomo.
In terzo luogo perché come cristiani (e anche in questo ci distinguiamo da un
mondo Occidentale fino a poco fa sicuro di sé ma ora molto più incerto e sempre
più povero di speranza trascendente) abbiamo la certezza che se il male abbonda
è perché sovrabbondi la grazia della conversione e del perdono. Pur se lasciamo
al Signore della storia il calcolo dei tempi, sappiamo che è ben possibile che
maturi di nuovo in Occidente, forse proprio sotto la spinta di eventi così
drammatici, la percezione che è necessario un cambio di vita, l'adozione di una
nuova scala di valori. In un articolo recente si parlava, a proposito di tale
riconoscimento, di "apocalisse", nel senso etimologico di un "alzare il velo" di
"una rivelazione" (Enzo Bianchi, Le apocalissi dell'11 settembre, "la
Repubblica" 27.10.01). Nel nostro contesto si tratta di una rivelazione del male
in cui siamo immersi, dell'assurdità di una società il cui dio è il denaro, la
cui legge è il successo e il cui tempo è scandito dagli orari di apertura delle
borse mondiali. Una società che giunge quasi al ridicolo nella sua ricerca
affannosa di investimenti virtuali, di transazioni puramente mediatiche e che
pretende di esportare messianicamente questo modo di vedere in tutto il mondo.
Tale globalizzazione è giusto rifiutare. Come ha scritto recentemente Tommaso
Padoa Schioppa "la strada che porta alla sicurezza è assai più lunga di quella
che ha portato a Kabul. La strada è anche assai più faticosa, perché su di essa
siamo noi a dover camminare, non militari o Paesi lontani. E camminare vuol dire
modificare nostri modi di vivere, nostri pensieri, nostri sistemi politici.
Possiamo chiederci: abbiamo incominciato?" (Corriere della Sera, 18.11.01). Ma
se ciò vale per l'economia e la politica, perché non dovrebbero aprirsi anche
nel campo della moralità nuovi spazi per un rinnovato impegno di serietà e di
giustizia, per una ricerca del significato profondo della vita, per una maggiore
apertura sul mistero di Dio? Non ha forse Dio "rinchiuso tutti nella
disobbedienza" di conflitti senza via di uscita "per usare a tutti
misericordia?" (cfr Rom 11,32).
Non è così importante sapere se ciò si avvererà presto. In
fondo, come diceva Bonhoeffer, "per chi è responsabile la domanda ultima non è:
come me la cavo eroicamente in questo affare, ma: quale potrà essere la vita per
la generazione che viene? Solo da questa domanda storicamente responsabile
possono nascere soluzioni feconde" (Resistenza e Resa, Milano, p. 64). Ciò che
dunque urge è dirci che se non avviene un cambio radicale nella scala dei
valori, se non vengono messi al primo posto la pace, la solidarietà, la mutua
convivenza, l'accoglienza reciproca, l'ascolto e la stima dell'altro,
l'accettazione, il perdono, la riconciliazione delle differenze, il dialogo
fraterno e quello politico e diplomatico, mentre vengono contemporaneamente
messe al bando le rappresaglie della guerra, se non vengono disarmate non solo
le mani ma anche le coscienze e i cuori, noi avremo sempre a che fare con nuove
forme di violenza e anche di terrorismo. Riusciremo magari a spegnerle per un
momento, ma per vederle poi risorgere impietosamente altrove.
Come ha ripetuto il 4 dicembre 2001 il Papa a proposito del
conflitto in Medio Oriente: "La violenza non risolve mai i conflitti, ma
soltanto ne accresce le drammatiche conseguenze". Ha perciò lanciato "un nuovo
pressante appello alla comunità internazionale, affinché con sempre maggiore
determinazione e coraggio aiuti israeliani e palestinesi a spezzare questa
inutile spirale di morte. Siano ripresi immediatamente i negoziati, perché si
possa giungere finalmente alla tanto desiderata pace". Inoltre il Papa ha
stimolato, con un gesto assolutamente nuovo nella storia del rapporto
Cristianesimo-Islam, tutti i cattolici a unirsi spiritualmente il 14 dicembre
prossimo alla conclusione del solenne digiuno musulmano del Ramadan, per
proclamare che c'è e ci deve essere un clima di rispetto tra le due religioni.
Di qui avrà inizio un particolare tempo di conversione, di ritorno al Signore
nel cammino faticoso della storia verso la pienezza della verità e della carità,
che culminerà il 24 gennaio 2002 in una grande preghiera interreligiosa per la
pace ad Assisi con la partecipazione del Papa. Sono gesti che intendono
proclamare a tutto il mondo che mai per nessun motivo le religioni devono
divenire fonte di conflitto, ma al contrario occasione e strumento di pace.
4. APERTURE NUOVE
Devo avviarmi a concludere il mio discorso, che inevitabilmente
rischia di coinvolgerci in sempre nuove direzioni, perché la violenza e il male
sono dappertutto e stanno alla radice di tutto. Ma il bene zampilla da una
sorgente ancora più profonda e innaffia, risana e rigenera continuamente questa
radice di male e di amarezza. È importante allora riconoscere che dobbiamo fare
ciascuno la nostra parte e ascoltare l'appello che ci raggiunge. Il momento
drammatico che stiamo vivendo è un forte richiamo alla conversione e al
riconoscimento della nostra connivenza con i mali del mondo. Sottolineo: con i
mali di tutti, sotto ogni latitudine e non del solo mondo occidentale.
Certamente esso ha i suoi gravissimi torti, le sue cecità, i suoi idoli, i suoi
deliri di onnipotenza. Per questo la Chiesa, neppure quella Occidentale, che ha
vissuto storicamente e tuttora vive in questo ambito e si è sempre sforzata di
dargli un'anima, non si è mai riconosciuta né identificata del tutto con esso né
tanto meno si identifica ora in un ambito nel quale gloriose tradizioni di
libertà e dignità umana convivono - in un clima crescente di compromissione -
con un individualismo senza regole, con il culto del denaro, del successo,
dell'immagine e della potenza. Pur con tutto ciò non dobbiamo ritenere che sia
solo il nostro mondo occidentale quello chiamato da Gesù a cambiar vita. Il
Signore afferma due volte, nel testo di Luca da cui siamo partiti (13,3.5): "se
non cambierete vita, perirete tutti!". La follia dell'autodistruzione, che
assume nelle odierne culture innumerevoli forme, minaccia tutti quanti. Gli
spettri della corruzione, del malgoverno, del prevalere dell'interesse privato e
tribale su quello pubblico, della dittatura e del primato della forza e delle
armi, stanno succhiando il sangue di innumerevoli poveri della terra. Sarebbe
troppo facile trovare un solo capro espiatorio e una sola vittima. Zizzania e
buon grano sono intrecciati profondamente in ogni angolo del pianeta. Gesù sa
che il male è nascosto nel cuore di ogni uomo e di ogni cultura, sa che siamo
"generazione incredula e perversa" (Mt 17,17).
Dobbiamo in altre parole renderci conto che di certe pesti che
ammorbano il mondo (e di cui i conflitti bellici e gli attentati sono una delle
manifestazioni) non è soltanto colpevole l'uno o l'altro individuo o popolo
lontano da noi o vicino a noi, ma ne siamo tutti in qualche modo, ciascuno per
la sua parte, conniventi e corresponsabili.
Se, spinti da eventi tragici che mai avremmo voluto neppure
immaginare, l'invito di Gesù a cambiare scala di valori e criteri di giudizio
cominciasse a venire accolto, ne emergerebbe una società più pensosa, una
gioventù meno dissipata e meno avida di divertimenti, conscia delle proprie
responsabilità per il futuro del pianeta; pronta anche ad ascoltare il richiamo
per aprirsi a esistenze consacrate al servizio totale di Dio e del prossimo. E
di tutto questo inizio di cammino positivo noi, grazie a Dio, siamo anche i
gioiosi testimoni, per poco che sappiamo guardarci intorno con gli occhi della
speranza.
5. IL GRANDE BENE DELLA PACE
Non potrei concludere il mio discorso senza ritornare a quella
che ne fu l'ispirazione principale fin dall'inizio, cioè il grande bene della
pace: se abbiamo infatti cominciato con l'ascoltare Gesù che parlava della
violenza (Lc 13,1-5), era solo perché a Lui - e oggi alla sua Chiesa - una cosa
sta sommamente a cuore: la pace!
Infatti la pace è il più grande bene umano, perché è la somma
di tutti i beni messianici. Come la pace è sintesi e simbolo di tutti i beni,
così la guerra è sintesi e simbolo di tutti i mali. Non si può mai volere la
guerra per se stessa, perché è sistematica violazione di sostanziali diritti
umani. Vi saranno al limite casi di legittima difesa di beni irrinunciabili.
Però il contrasto all'azione ingiusta, non di rado doveroso e meritorio, deve
restare nei limiti strettamente necessari per difendersi efficacemente. Potranno
anche essere necessarie coraggiose azioni di "ingerenza umanitaria" e interventi
volti alla restituzione e al mantenimento della pace in situazioni a gravissimo
rischio. Ma non saranno ancora la pace.
Pace non è solo assenza di conflitto, cessazione delle
ostilità, armistizio. Non è neppure soltanto la rimozione di parole e gesti
offensivi (Mt 5,21-24), neppure solo perdono e rinuncia alla vendetta, o saper
cedere pur di non entrare in lite (cfr Mt 5,38-47). Pace è frutto di alleanze
durature e sincere, (enduring covenants e non solo enduring freedom), a partire
dall'Alleanza che Dio fa in Cristo perdonando l'uomo, riabilitandolo e dandogli
se stesso come partner di amicizia e di dialogo, in vista dell'unità di tutti
coloro che Egli ama. In virtù di questa unità e di questa alleanza ciascuno vede
nell'altro anzitutto uno simile a sé, come lui amato e perdonato, e se è
cristiano legge nel suo volto il riflesso della gloria di Cristo e lo splendore
della Trinità. Può dire al fratello: tu sei sommamente importante per me, ciò
che è mio è tuo. Ti amo più di me stesso, le tue cose mi importano più delle
mie. E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi importa il bene di tutti, il
bene dell'umanità nuova: non più solo il bene della famiglia, del clan, della
tribù, della razza, dell'etnia, del movimento, del partito, della nazione, ma il
bene dell'umanità intera: questa è la pace.
Ogni azione contro questo "bene comune", questo "interesse
generale" affonda le radici nel-la paura, nell'invidia e nella diffidenza.
Genera i conflitti e nutre gli odi che causano le guerre. Ci vorrà una intera
storia e superstoria di grazia per compiere tale cammino. Ma è questa la pace
che è mèta della vicenda umana.
6. ALCUNI IMPERATIVI IMMEDIATI
1. Abbiamo anzitutto un grande bisogno di
percepire dentro di noi una fontana zampillante di pace che ci apra alla fiducia
nella possibilità di passi concreti e semplici verso un cambiamento di stile di
vita e di criteri di giudizio, unica via a un cammino serio di pace. Evitiamo di
lasciarci intorpidire da un clima consumistico prenatalizio che rischia di farci
rimuovere le domande serie emerse da questi fatti drammatici.
2. Per evitare di essere trascinati, magari non
intenzionalmente, in uno scontro di civiltà, occorrerà esercitarsi nell'arte del
dialogo, che parte da una chiara coscienza della propria identità e della
ricchezza dei linguaggi con cui esprimerla e renderla accessibile smontando i
pregiudizi, i cavilli e le false comprensioni.
3. Per questo sarà importante imparare a conoscere
le altre religioni, in particolare l'Ebraismo e l'Islam, scrutando di ciascuna
la storia, la letteratura, le ricchezze spirituali, le profondità mistiche, il
pluralismo espressivo, anche quello sociale e politico.
4. Soprattuto occorrerà educare a gesti, pensieri
e parole di perdono, di comprensione e di pace, usando tolleranza zero per ogni
azione che esprima sentimenti di xenofobia, di antisemitismo, di minor rispetto
di qualunque sentimento e tradizione religiosa. Questo richiede che anche gli
altri rispettino e apprezzino quei segni religiosi che sono stati e sono tuttora
per noi la via e il simbolo che ci permette oggi di offrire a tutti ospitalità e
pace.
5. È superfluo ricordare quanto la scuola e
l'università siano chiamate a educare al dialogo, al confronto sereno, per
aiutare a riflettere motivatamente sui gravi problemi in discussione a livello
internazionale ma anche nazionale e regionale (e non soltanto perciò sui temi
della pace e della guerra, ma anche oggi su temi per noi gravi e urgenti come la
giustizia e la sanità). Grande sarà in questo senso il compito e la
responsabilità dell'autonomia scolastica.
Ci conforta e ci fa ben sperare l'anniversario che
si ricorderà domani, quello dell'apertura, 80 anni fa, proprio a pochi metri da
questa Basilica di sant'Ambrogio, in via Sant'Agnese, dei corsi della neonata
Università Cattolica del Sacro Cuore. Incominciò con 68 iscritti. Oggi sono
oltre 40.000. Auguriamo a essi e a tutti i giovani del mondo di essere, per il
millennio che inizia, come le "sentinelle del mattino" che annunciano il giorno
della tanto desiderata pace.
+ Carlo Maria Martini