OMERO
Omero è vissuto forse nel IX sec. a. C. Malgrado le molte biografie e il Certame di Omero ed Esiodo, tutto è incerto della sua vita e la sua stessa esistenza è stata messa in dubbio. Sette città (Atene, Argo, Chio, Colofone, Rodi, Salamina e Smirne) si disputarono l'onore di avergli dato i natali. La leggenda ce lo raffigura vecchio, cieco, girovago e mendico, alla maniera dei rapsodi, come lo descrisse il passo autobiografico dell'Inno ad Apollo a lui attribuito. Oltre l'Iliade e l'Odissea (entrambe in dialetto ionico), la tradizione gli assegna anche gli Inni agli dei, la Piccola Iliade, la Batracomiomachia e i poemetti Focide e Margites. Ma già alcuni critici alessandrini avevano affermato che l'Iliade e l'Odissea, opere tanto differenti per stili, non potevano essere opera dello stesso autore. Aristarco di Samotracia attribuì invece l'Iliade alla gioventù e l'Odissea alla vecchiaia di Omero. La tesi dei due differenti autori fu ripresa, in età moderna, dall'abate d'Aubignac e da G. B. Vico, che, nella Scienza nuova seconda (1730), diede inizio alla questione omerica, affermando che la poesia di Omero è l'espressione impersonale di un'età ancora barbara. Ancora oggi, i pareri sono molti e discordanti.
Omero raffigurato in un busto di bronzo
risalente al IV sec. a.C.
(Modena, Galleria Estense)

ULISSE
Figlio di Laèrte e d'Anticlèa, marito di Penèlope, padre di Telemaco, e anche di Telègono, da lui avuto da Circe, re delle isole di Itaca e di Duhchio. Fu tra i pretendenti alla mano della bella Elena, la quale gli preferì Menelào, senza però, che né Ulisse né altri numerosi aspiranti alla mano di lei, ne serbassero rancore al preferito. Che, anzi, si erano già impegnati, con solenne giuramento prestato a Tindarèo padre di Elena, di venire in aiuto, in caso di bisogno, a quello di loro che la bellissima si fosse scelto per marito. Ma quando, per il ratto di Elena, che Paride si rifiutava di restituire, si rese necessaria la guerra contro Troia, Ulisse non se la sentì, malgrado l'impegno assunto, di parteciparvi, tanto più che l'oracolo gli aveva predetto che egli ne avrebbe sopportato il peso molto più gravemente degli altri. Per cavarsela, finse di esser colto da pazzia. Ma ad Agamennone, che stava raccogliendo l'esercito per la spedizione, la pazzia d'Ulisse parve simulata. Così incaricò Palamede, figlio di Nàuplio, re dell'isola di Eubèa, e che conosceva per guerriero ardito e scaltro quanto Ulisse, di vedere come realmente stessero le cose. Palamede, preso in braccio il bambino Telemaco, lo depose nel solco che il finto pazzo stava tracciando: siccome Ulisse fu pronto ad alzare il vomere dell'aratro per non ferire il figlioletto, Palamede, smascheratolo lo costrinse a fare onore, suo malgrado, all'impegno preso. Nella guerra di Troia, con la sua astuzia e la sua assoluta mancanza di scrupoli, Ulisse servì la causa dei Greci, dotato com'era di una eloquenza persuasiva cui nessuno poteva resistere. Ad Odissèo, od Ulisse che dir si voglia, la tradizione attribuiva azioni non sempre esemplari. Fra l'altro si ricordava di lui d'aver fatto discendere, dalla nave, Filottete, e d'averlo lasciato, solo e senza aiuto, nell'isola di Lenno, perché infastidito dal fetore insopportabile che emanava una sua ferita che non rimarginava, fattagli dal morso d'un aspide. E se, dieci anni dopo, Ulisse tornò a riprenderlo per condurselo a Troia, lo fece soltanto perché Filottete aveva avuto in consegna da Ercole le infallibili frecce dell'eroe, senza le quali, a detta dell'oracolo, Troia non sarebbe mai stata espugnata. Pare che Ulisse, quando parlava. fosse irresistibile; e così, indotto Diomede a travestirsi con lui da mendico, riuscì a rubare a Troia il Palladio dal quale dipendeva la resistenza della città, dopo d'aver ucciso Rèso e aver condotto nel campo greco i cavalli di lui, prima che avessero compiuto le condizioni imposte dall'oracolo. Quando ebbe scongiurato tutto quello che poteva essere d'impedimento alla desiderata fine dell'impresa, Ulisse suggerì ad Epèo l'insidia del cavallo di legno, e provvide all'"imbonimento" del suo diligente allievo Sinòne: e, finalmente, Troia cadde.
Finita la guerra, i guai cominciarono anche per lui: cominciò l'Odissea.

PENELOPE
Sposa di Ulisse, nella mitologia greca simbolo dell'amore coniugale, dopo l'Odissea in cui viene esaltata per l'incorrotta fedeltà allo sposo, assente da vent'anni. Penelope è figlia di Icario e della naiade Peribea; si sarebbe prima chiamata Arnea e sarebbe stata fatta gettare in mare dal padre: dal fatto che fu salvata da uno stormo di anatre selvatice le venne il nuovo nome. Ulisse l'ottiene in sposa vincendo una gara di corsa indetta da Icario per scegliere il genero. Penelope, convinta che lo sposo Ulisse non sia morto, attende per vent'anni il suo ritorno a Itaca, resistendo alle richieste sempre più pressanti dei Proci (i pretendenti), i quali desideravano che lei sposasse uno di loro. Dopo aver rinviato ed eluso questa decisione con mille trucchi e stratagemmi, Penelope, alla fine, promette che avrebbe svelato il nome del suo futuro sposo al termine di un lavoro al telaio che stava completando. Ma, per allontanare sempre più questo momento, ella disfaceva di notte quello che di giorno tesseva. A parte i dipinti di Polignoto e di Zeusi ricordati dalle fonti antiche (Pausania, Strabone), ma non pervenuti, le immagini più note di Penelope sono quelle del Pittore di Borea (Museo di Siracusa) che la ritrae seduta di fronte al gruppo dei pretendenti; il noto skýphos attico di Chiusi (sec. V a. C.) assegnato al cosiddetto Pittore di Penelope, nel quale essa appare seduta dinanzi al telaio mentre Telemaco le è accanto; i dipinti pompeiani dove l'eroina è posta a confronto con Ulisse mendico (Pompei, Macellum). Il personaggio ha ispirato anche opere musicali, tra cui quelle di N. Jommelli (1754), N. Piccinni (1785), D. Cimarosa (1795) e, soprattutto, di G. Fauré (1913) su libretto di R. Fauchois; e alcuni testi teatrali, compresa un'elegante ironizzazione del mito svolta da R. Calzini nella commedia 'La tela di Penelope' (1922). 
Statua della cosiddetta Penelope,
copia della prima età imperiale da un
prototipo del 460 a.C.
Città del Vaticano, Musei Vaticani

ITACA

Isola nota in Italia con il nome di Itaca (Ithàki) e chiamata Miàki dai suoi abitanti, si allunga a ridosso della costa nordorientale di Cefalonia, dalla quale la divide uno stretto braccio di mare. Itaca è lunga 24 km e raggiunge una larghezza massima di 6 km, mentre l'istmo che unisce la parte settentrionale a quella meridionale dell'isola è largo appena 600 metri. La particolare conformazione dell'isola fa sì che percorrendo le sue impervie strade ci si trovi di fronte a scorci sempre nuovi e affascinanti di baie e coste frastagliate. La maggior parte degli insediamenti si trova nella parte settentrionale di Itaca, dove il territorio è fertile e collinoso. I paesi, tuttavia, si spopolano a vista d'occhio; infatti sono sempre meno numerosi i giovani che si rassegnano alle fatiche e agli scarsi guadagni dell'agricoltura e della pesca. Perciò il vero cuore di Itaca è il capoluogo Vathi, assieme al vicino paese montano di Perachòri, entrambi situati nella parte meridionale. Esistono prove sicure del fatto che Itaca era già abitata ai tempi della guerra di Troia, cioè intorno al 1200 a.C. Non è certo invece che l'isola abbia davvero avuto un re di nome Ulisse, o meglio Odisseo. Itaca non ha praticamente altre attrattive turistiche; anche le poche spiagge sono piuttosto piccole, sassose e non particolarmente belle. Per questo motivo Vathi e le altre principali località dell'isola vengono quasi ignorate dal turismo internazionale.



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