IL MALATO TERMINALE

 

 

 Centro Studi di Etica e Bioetica

 

Padova

A.A. 2003-2004

 

 

Esame

 

 

 

“L’assistenza infermieristica: dai letti di una corsia alle mura domestiche”°

 

 

 

 

 

 

Relatore: Dr. De Chirico Leonardo

Studentessa: Di Pietrantonio Rosita Anna Rita

 


 

° G. Pusceddu, C. Bert,  “Il malato tumorale - per un’umanizzazione dell’assistenza”, Giorgio Lovera, C.G. Edizioni Medico Scientifiche Torino, 1999, pp. 423-451.

 

 

La scelta di un argomento come quello dell’assistenza ad una persona affetta da cancro è stato il tema della mia tesi di laurea in Infermieristica. Per questa occasione ho voluto sviscerare i presupposti assistenziali proposte nel capitolo di questo testo (utilizzato come elemento bibliografico della tesi stessa) ponendomi degli interrogativi.

L’umanizzazione dell’assistenza è una questione sempre più dibattuta negli ambienti accademici, una problematica che resta incisa solo sulla carta non applicabile al vissuto della cura. Tenendo in considerazione la griglia etica triangolare - circolare di riferimento, gli autori del testo nell’ esprimere indirettamente i propri contenuti etici, dimostrano un evidente sbilanciamento verso l’aspetto esistenziale.

Com’è possibile far sentire vivo il malato oncologico quando la vita è considerata solo in base all’aspetto biologico (la vita c’è finchè c’è respiro) anche se si fa riferimento alla molteplicità degli aspetti che la compongono ma solo in parole? Cosa significa in realtà far sentire viva una persona?

Lo sforzo di tenere in considerazione la “globalità” della persona (la caratteristica fisica, psicologica, sociale e spirituale) è basata su di una visione antropologica frammentaria dove manca l’interdipendenza dei molteplici aspetti dell’essere umano in cui non è chiaro neanche il senso che si dà a ciascuno di essi come, per esempio, a quello della  “spiritualità”. Se la comunicazione è basata su questa visione antropologica di fondo, com’è possibile stabilire un corretto modo di viverla autenticamente per produrre un beneficio comune tra i soggetti coinvolti (operatori sanitari, assistito e suoi famigliari)? Cosa significa “entrare in sintonia” con la persona e com’è possibile questo quando tra gl’interlocutori c’è una “distanza di pensiero”, una visione della realtà diversa (della salute, della malattia, della morte…) ? Come si può accettare la persona nella sua complessità (sintomi, emozioni, corporeità) quando chi lo assiste si trova a convivere con le proprie divisioni senza affrontarle?

La gratificazione professionale può essere presente solo quando Il beneficio della cura è la guarigione? Si può concepire la cura un sinonimo di guarigione?

L’impotenza di risolvere il problema (scientificamente definito problem solving) produrrebbe la fuga dallo stesso che riduce l’assistenza ad una serie di atti tecnici da perfezionare. Come si può pensare ad un equilibrio delle prestazioni assistenziali? Abilità tecnica e coinvolgimento emotivo sono presenti nella stessa misura? Fino a che punto lasciarsi coinvolgere?

Un’assistenza personalizzata può definirsi “arte” come se fosse una creazione di umanità?

Come conciliare un modello standardizzato che il problem solving stabilisce attraverso un “processo di nursing” e la singola persona da assistere che viene posta al centro con la propria autonomia decisionale? Il problem solving è l’unico metodo assistenziale o si può pensare ad altri sistemi?

È auspicabile l’utilizzo di metodi alternativi (per esempio la riflessologia podalica) spesso di provenienza culturale New Age, ed in che misura, per diminuire i gravi effetti emetizzanti del trattamento chemioterapico?

Gli autori di questo capitolo evidenziano quattro tipi di situazione di comunicazione di fronte alla diagnosi, all’assistenza e prognosi della persona affetta da cancro:

·        non deve sapere, la persona viene esclusa da qualsiasi coinvolgimento decisionale e di collaborazione, dove l’infermiere deve stare al gioco anche se non condivide questa presa di posizione;

·        intuisce ma non chiede, pone domande indirette facendo attenzione ad ogni parola o gesto seguendo il proprio intuito; l’infermiere frena i discorsi per non incorrere in situazioni che non gli competono e che potrebbero ledere la persona e nuocere anche al lavoro assistenziale;

·        tutti sanno ma vivono come se non sapessero, la scelta di non comunicare è la via più semplice dove l’infermiere fa da tramite tra malato e famiglia cercando di proporre una via alternativa di comunicazione nel rispetto dei soggetti;

·        tutti sanno e ne parlano, si tratta di un parlare tecno-scientifico distaccato dalla persona malata, un modo per affrontare il caso con più razionalità dove la prognosi aiuta ad affrontare la vita.

Come porsi di fronte ad una richiesta di silenzio? L’omertà è la via migliore per il bene della persona? Si può definire rispetto della persona nascondendogli la verità o non dicendo tutto?

Non è una sorta di fuga dalla persona (e da se stessi) anche quella di evitare certe domande?

Parlarne in modo prettamente tecnico non è forse un'altra via di fuga?

Si può definire la scienza infermieristica la risolutrice dei problemi?

Riassumendo, secondo il triangolo etico, la visione laica dell’assistenza sul piano normativo vive in base ad un’antropologia umanistica dove la persona è al centro ed è fondamento del problem-solving; l’assistenza personalizzata è sinonimo di creazione ex novo di una sorta di umanità (assistenza come arte); nell’aspetto situazionale è determinante la pratica di medicine alternative discutibili (tutto è lecito purché dia risultati positivi), la cura è intesa come guarigione, l’inefficacia del problem-solving conduce l’infermiere a “semplificare” l’assistenza riducendola ad una serie di azioni tecniche spogliate di umanità a cui consegue spesso la sindrome  del burn-out.

Secondo l’aspetto esistenziale  l’autonomia della persona assistita non le permette di vivere dignitosamente la propria malattia e la possibile imminente morte (c’è sempre l’illusione di guarire). Le relazioni sono compromesse perché c’è un fuggire reciproco dell’assistito (e della sua famiglia) e di chi lo assiste da se stessi e dall’altro: la professionalità dell’infermiere è alterata perché non riesce a risolvere i problemi adeguatamente ed in modo integro, l’assistito ha paura della diagnosi, cura e prognosi e davanti alla paura di chi lo assiste ed alle conseguenze pratiche a cui conduce.

I quesiti scaturiti dalla lettura del testo preso in esame, sicuramente non sono esaustivi ma spero che mi possano condurre ad approfondire la riflessione per poter creativamente ed in modo incisivo vivere un’assistenza che non si riduca solo ad un esame “accademico” senza lasciare qualche traccia se non quella di alcune pagine scritte.

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