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Magnifico Rettore, Illustri Colleghi, Autorità,
Signore e Signori
Come potete immaginare, mi capita
abbastanza spesso di parlare in occasioni importanti, anche se mi
considero e credo di essere più uomo di fatti che di parole. E mi è
capitato di affrontare platee diversissime tante volte e non solo in
Italia, ma anche in giro per il mondo, alla presenza di personaggi
celebri o accanto ai più umili del mondo; una volta mi è capitato di
parlare in giapponese davanti ad una principessa della casa imperiale e
ad uno stuolo di autorità che l’accompagnavano, avendo imparato a
memoria con estrema cura una serie di suoni più che una sequenza di
parole.Ma neppure quel giorno provai una emozione così profonda come
quella che provo oggi. Per questo ho evitato di imparare a
memoria, oggi potrei davvero sbagliare. E ho chiesto ai miei ragazzi il
conforto delle immagini che in modo diverso raccontano di un avventura
difficile ma esaltante vissuta senza un attimo di respiro.Sono abituato
alle responsabilità, ma oggi sono a dar conto di aver almeno in parte
meritato l’onore che avete voluto tributarmi, un onore che proviene da
una prestigiosa realtà universitaria che dal 19 agosto dell’anno
2000, è la mia Università.
Soprattutto sento la responsabilità del Vostro gesto di stima e di
fiducia nei miei confronti: confesso che nulla mi stimola e mi obbliga
come la fiducia che mi viene concessa, perché la vita mi ha insegnato
ad apprezzare la fiducia come uno dei valori più rari, più fragili ma
più importanti sia per ciascuno di noi che per la tenuta della nostra
società.Una società sta insieme, e può dirsi a pieno titolo
“civile”, quando è attraversata da correnti di fiducia reciproca
tra i cittadini e tra questi e le istituzioni. La disgregazione sociale
si misura dal numero di volte che in una società circola il pensiero
“non mi fido di te”, soprattutto quando il pensiero si traduce in
parole e comportamenti.
Ho scelto fin dall’inizio di operare come funzionario dello Stato,
sono convinto che le istituzioni pubbliche siano un punto di riferimento
indispensabile per ogni società, il luogo della sintesi delle scelte di
tutti, gli unici strumenti a disposizione dei cittadini per godere
pienamente dei loro diritti ed adempiere ai loro doveri in un contesto
“civile”.Per chi, fra l’altro, si occupa dei problemi della
gestione dei rifiuti in molte regioni d’Italia e di una in particolare
è facile assistere al degrado che prende il sopravvento quando le
istituzioni non funzionano, sono assenti, o rinunciano a costruire un
dialogo con i cittadini. La fiducia costituisce il valore fondante di
una società; se non trova accoglienza e condizioni degne a livello
delle istituzioni, la fiducia ripiega su altri soggetti: la famiglia, il
clan, il gruppo, i circuiti amicali di vario genere e natura.
Quando questo accade la società regredisce verso forme di fedeltà
arcaiche che si riconoscono nel particolare e perdono l’identità di
Nazione.Mi sono sempre battuto contro ogni forma di rinuncia a priori
della piena dignità dello Stato, che può e deve essere all’altezza
della fiducia che chiede e che deve offrire.Sono stufo di sentire che se
lavoro nel pubblico non raggiungo risultati, non costruisco e non
concludo, sono stufo di sentire che le istituzioni hanno regole e
procedure che le condannano ad una sorta di impotenza socialmente
accettata. L’impotenza dello Stato non può essere né accettata né
accettabile, senza metter nel conto conseguenze ed effetti drammatici.
Reagire si può e si deve, attraverso l’impegno e la responsabilità
personale e diretta di chi rappresenta lo Stato e in nome
dell’istituzione, cioè della collettività nel suo insieme, a nome di
tutti, insomma, deve agire, operare, scegliere, decidere
responsabilmente, cioè amministrare e governare.
La fiducia è il momento costitutivo del rapporto tra le persone e con
le istituzioni. Il prestigio di una struttura non è altro che il
patrimonio di fiducia che le persone che hanno operato al suo interno
hanno saputo accumulare nel tempo. Basta ben poco per disperdere un tale
patrimonio. Poche persone sbagliate o nel posto sbagliato sono in grado
di vanificare quanto molte altre, nel tempo, hanno saputo costruire.Ho
vissuto l’esperienza alla Protezione Civile con questa missione, che
ha guidato il mio operato di ogni giorno, sentendomi addosso la
responsabilità di proseguire la strada tracciata da quanti mi hanno
preceduto, che hanno costruito dal niente, nell’arco di pochi decenni,
il nostro sistema. Sapendo di godere della fiducia del mio Capo, il
Sottosegretario Gianni Letta, esempio per tutti e unico vero
protagonista di questa felice stagione ho deciso di inventarmi tempi e
modi nuovi per rendere credibile la nostra Protezione Civile, dotarla
dei poteri e degli strumenti necessari per operare in piena trasparenza
ed efficacia, farla crescere sul piano della capacità operativa ed
infine dare, del nostro lavoro, un’immagine il più possibile
veritiera, capitalizzando la fiducia dei cittadini e favorendo il
dialogo con i mezzi d’informazione.
Giornali, televisioni, radio, sono oggi un canale essenziale di
comunicazione, lo strumento più veloce ed efficace a nostra
disposizione per inviare informazioni ad una vasta platea di persone
interessate ad un evento. Per noi i media sono un insostituibile
strumento di lavoro e di azione, per far arrivare notizie precise,
puntuali e tempestive in caso di emergenza, per lottare contro uno dei
nostri peggiori nemici: il diffondersi di informazioni errate o
inappropriate, inventate da chi cerca facile visibilità, e capaci di
produrre incertezza, disorientamento e talora vere e proprie ondate di
panico. Siamo riusciti, credo, a raccontare come stanno effettivamente
le cose, dicendo la verità, costruendo la serenità di tutti attraverso
le informazioni in nostro possesso, parlando spesso direttamente alle
persone colpite dall’emergenza e, soprattutto, dai luoghi interessati
all’evento.
Gli italiani ci hanno creduto, e il mondo dei media ha accettato le
regole di verità e di chiarezza che noi abbiamo proposto; non abbiamo
mai barato con i giornalisti ma, ogni qual volta ci è stato possibile,
abbiamo aperto le porte alla loro presenza senza mai prestarci al gioco
delle facili polemiche, dei dibattiti utili solo a fare spettacolo e ad
alimentare il gossip degli scontri personali, delle guerricciole di
potere e di immagine. Ci ha spinti a evitare questa deriva il rispetto
di un’etica dell’uso dell’informazione che deve restare al
servizio degli obiettivi per i quali lavoriamo.
Noi cerchiamo ogni giorno di tradurre nelle scelte e nei comportamenti
il nostro concetto essenziale, che è quello del gioco di squadra, che
richiede l’apporto di competenze e professionalità molto diverse che
si riescono a combinare in modo ottimale solo se chi partecipa al
sistema sa che di fronte alle sfide nessuno vince o perde singolarmente.
Non basta che ognuno faccia il proprio lavoro, svolga con diligenza la
sua parte, fidando che il resto funzioni: occorre la vigilanza, la
disponibilità, l’intelligenza e la dedizione, direi la passione di
tutti, per fare la propria parte e seguire con la coda dell’occhio
cosa stanno facendo gli altri, per dare una mano se qualcuno è in
difficoltà, per dire la parola giusta al momento giusto, per rimanere
un’ora di più o una notte ancora al proprio posto anche se gran parte
dell’impegno grava in quei momenti su altri, per operare da
professionisti, diventando quei “cultori della materia”, come si
diceva una volta, delle professioni di tutti coloro che operano con te
per riuscire a raggiungere lo stesso traguardo conoscendone i problemi,
le difficoltà ma anche le risorse e le competenze che ti stupiscono
anche quando pensi di aver capito ormai tutto.La protezione civile è
infatti una strana creatura bifronte: da un lato tende a esprimere il
massimo della modernità, dell’innovazione scientifica e tecnologica,
della specializzazione e della esaltazione delle più alte
professionalità; dall’altra è però organismo antico, di grande ed
alto artigianato, nutrito di esperienza, di intuito, di mestiere nel
senso più nobile del termine, capace di resistere alla grande
tentazione della divisione del lavoro scientifico contemporaneo e di
guardare oltre il proprio campo di lavoro specifico per non perdere di
vista l’insieme. Questa figura bifronte trova la sua unità e la sua
coerenza in un’etica condivisa, maturata sul campo, partecipata da
gente che ha scelto un medesimo stile di vita, che partendo da
motivazioni diverse finisce sempre con l’incontrarsi e riconoscersi
appena scatta un’emergenza, appena si ha notizia di qualche situazione
da cui nasce, o può nascere, un grido d’aiuto collettivo. Lì, in
quei momenti, in quei luoghi, nelle condizioni spesso più difficili e
dure, si trova e si ritrova la gente della protezione civile: lo
scienziato e il pilota dell’elicottero, il tecnico e il volontario, il
manager delle emergenze e il medico, chi monta le tende e quello che
dirige la cucina da campo.
Ma anche nella normalità il gioco è lo stesso. Non c’è posto per i
grandi solisti, serve ogni volta un’orchestra con i più diversi
strumenti, che sappia provare per poi suonare seguendo il ritmo
dell’emergenza, sempre diverso e sempre serrato, captando con uno
sguardo veloce il movimento della bacchetta del direttore o cogliendone
il tono della voce nel gracidio di una radio da campo in mezzo a mille
altre grida.In questa logica del gioco di squadra ha preso forma la
Protezione Civile di oggi, proseguendo una storia di passi in avanti
compiuti spesso soltanto grazie all’emozione suscitata da un qualche
disastro, grazie a uomini appassionati e sapienti che hanno saputo
estrarre, dalle mille polemiche- spesso anche fondate e motivate che
sempre hanno seguito ogni evento catastrofico nel nostro Paese - le
indicazioni necessarie per migliorare il sistema, per produrre normative
più adeguate, per disegnare una strategia di protezione civile degna di
un Paese tanto fragile quanto di straordinaria bellezza. Siamo convinti
che occorra saper giocare d’anticipo rispetto all’emergenza,
prevedere gli eventi anziché inseguirli con affanno ed è per questo
che puntiamo a migliorare la capacità di previsione e prevenzione delle
calamità. Abbiamo investito molto, in soldi e uomini, per disporre di
un unico servizio meteorologico che comprenda tutte le diverse realtà e
capacità del nostro Paese, integrandolo in una rete di centri
funzionali che in ogni regione rappresentano ormai un momento continuo
di sorveglianza, di attenzione, di vigilanza su ogni fenomeno naturale
che possa dar luogo a situazioni di rischio per la popolazione.
Al potenziamento di questo servizio meteo unificato è dedicata anche la
rete dei radar meteorologici, anch’essa disegnata dal professor
Barberi ed oggi in via di completamento. Se la rete meteo ci consente di
avere un flusso continuo di informazioni che permettono di fronteggiare
il rischio idrogeologico, altre reti di monitoraggio del territorio sono
in via di potenziamento, anche per quello che riguarda le altre
tipologie di rischio tipiche del nostro Paese. Da queste reti, da questi
sistemi tecnico scientifici, che vanno dal semplice ed antico
pluviometro al satellite dotato di particolari sensori, ricaviamo
informazioni puntuali, le elaboriamo grazie a sofisticati sistemi di
calcolo, le correliamo alle conoscenze che abbiamo del terreno e delle
sue caratteristiche di sensibilità, ne ricaviamo previsioni “di
protezione civile” che permettono di decidere cosa fare, come
intervenire e quando farlo, di attivarsi in tempo utile, scegliendo la
strategia di azione più adatta ad ogni situazione. Il punto di svolta
nel potenziamento di questa capacità si è avuto, e può suonare
provocatorio dirlo in questa sede, quando abbiamo vinto l’antica
soggezione nei confronti del mondo scientifico, reimpostando il
rapporto con le Università e i centri di ricerca su una base più utile
e proficua per entrambi. Oggi il Dipartimento non favorisce la ricerca
limitandosi a distribuire risorse finanziarie a fronte di generiche
liste di materie di interesse, ma è diventato un committente più
esigente e attento di ricerca applicata, orientata davvero alla logica
del risultato.
Anche coinvolgendo la Commissione Nazionale Grandi Rischi definiamo
insieme quali informazioni e quali elaborazioni ci servono, in quali
tempi, con quali caratteristiche e modalità di trasmissione.
Aver perso ogni soggezione nei confronti del mondo scientifico ci ha
trasformato in partner attivi e propositivi di chi deve fornirci gli
strumenti per agire sempre meglio. Lo stesso mutamento è avvenuto anche
nei confronti di quelle imprese di punta che si dedicano allo sviluppo
delle tecnologie applicate. In questo processo forse abbiamo perso le
simpatie di chi era abituato a usare a piacimento la protezione civile,
ma abbiamo trovato molti altri amici che si sentono e sono a pieno
titolo “dentro” il sistema, in una dimensione di corresponsabilità
un tempo del tutto sconosciuta.
Racconterei tuttavia cose non vere se dicessi che il sistema di
monitoraggio del territorio è ormai perfetto e completo e che siamo in
grado di prevedere per tempo ogni possibile crisi: siamo ancora ben
lontani dall’aver realizzato un progetto integrato, né siamo stati
capaci di “adottare” tutti i contributi messi a disposizione dal
mondo della ricerca scientifica e da quello della tecnologia applicata.
Nonostante i limiti e le criticità, credo di poter affermare che il
percorso sin qui compiuto già oggi ci permette di disporre comunque di
una rete di “ascolto” del territorio che, abbinato alle capacità di
decidere, rappresenta la nostra forza. Molte vicende lasciano margini,
ancorché stretti, di intervento prima che accadano, ed è questo lo
spazio proprio della prevenzione di protezione civile. Forse solo il
terremoto non offre alcun segno premonitore, ma per la maggior parte dei
rischi che dobbiamo fronteggiare esiste un lasso di tempo, prima che si
trasformino in tragedia, durante il quale è possibile agire, per
tentare di mettere in sicurezza la popolazione, adottare misure di
riduzione del danno, cercare di pilotare il possibile sviluppo delle
crisi. Quel breve intervallo che corre tra il momento della normalità e
quello dell’emergenza è il tempo proprio della decisione,
dell’assunzione di responsabilità, della certezza dei dati e dei
modelli previsionali.
La prevenzione così intesa conserva sempre, anche quando i dati
confermano livelli di probabilità molto elevata, una certa percentuale
di azzardo – nessuno ti sarà mai grato se lo proteggi da un rischio
che poi non si verifica – anzi! Per questo serve una miscela di buon
senso, esperienza, coraggio e coerenza, ma soprattutto un senso pieno
della responsabilità da parte di chi è chiamato a scegliere. Spesso
nel nostro Paese si preferisce non decidere, confidando nella buona
sorte e nella benevolenza del cielo. Noi abbiamo adottato lo stile
opposto, convinti che solo il lavoro paghi e che le responsabilità
vadano assunte in prima persona e fino in fondo. Già da una settimana
prima le autorità statunitensi disponevano di previsioni dettagliate
che perimetravano le zone destinate ad allagarsi e indicavano
l’altezza che l’acqua avrebbe raggiunto in ogni area di New Orleans.
Ciò che gli Stati Uniti non avevano e ancora non hanno – come in
altri Paesi Europei - è una struttura in grado di decidere e di far
seguire alle decisioni l’effettiva attivazione delle misure operative
necessarie. Serve, ovunque, una struttura che sia un punto di
responsabilità, che sappia cosa fare, come e quando agire, e che, a
seguito della scelta adottata, disponga dei mezzi operativi per
intervenire, assumendosi l’onore e l’onere di coordinare, disporre,
impiegare le risorse disponibili secondo una sola logica e una sola
strategia d’intervento, anche per superare l’equivoco di chi pensa
che ogni forma di coordinamento si accetta con la riserva mentale che
non venga mai messa in discussione la loro autonomia nel decidere per la
propria istituzione. Credo che, forse, non abbiamo deluso chi ha
scommesso su questa riforma della Protezione Civile, sulle nuove modalità
di coordinamento determinanti per avviare una fase di migliore chiarezza
ben lungi dall’essere conclusa, ma che consente di sapere che, in
questo contesto, per ogni cosa che viene fatta e decisa dalla struttura
che si dirige, se ne risponde personalmente, in via esclusiva e senza
limiti.
Ho detto che il mio modo di intendere la prevenzione significa usare al
meglio, quando c’è, il poco tempo che separa un possibile monito, un
segnale, dal momento dell’emergenza, ma in termini generali sappiamo
bene che significa invece intervenire sul territorio riducendo il
livello delle soglie di rischio, con tutta una serie di opere e di
interventi per “mettere in sicurezza” persone e beni.
Io che detesto lo “scaricabarile” debbo segnalare che non spetta a
noi mettere in sicurezza le scuole, imporre metodi di costruzione
antisismica, decidere se e come costruire sul versante di un vulcano
attivo, impedire l’edificazione in terreni a rischio idrogeologico,
provvedere alla corretta “manutenzione del Paese”, dalla pulitura
dell’alveo dei fiumi fino a quella delle reti fognanti dei centri
urbani. La responsabilità delle attività di prevenzione in senso lato,
quelle che coincidono con la gestione normale del territorio, con le
attività di pianificazione urbanistica, con le decisioni relative alla
localizzazione di ogni nuova costruzione, con la manutenzione di ciò
che abbiamo ereditato dalla storia o abbiamo costruito negli anni
recenti esulano dalle competenze della Protezione Civile, alla stregua
della gestione degli effetti dei grandi fenomeni sociali, economici e
culturali che hanno inciso sull’assetto del nostro Paese, e che hanno
provocato il progressivo abbandono di molte aree di montagna e di
collina e di molte attività agricole che rappresentavano la migliore
sentinella del nostro Paese. La prevenzione, così intesa, è un fatto
di cultura politica e sociale, di valori condivisi tra chi governa e chi
è governato, di scelte rigorose premiate dal voto, di scelte sbagliate
addebitate ai responsabili, o almeno presunti tali, dalla coscienza dei
cittadini. Su questo piano la situazione del nostro Paese presenta
elementi di incoerenza significativi, espressione di una sorta di
controcultura che privilegia il rinvio piuttosto che l’impegno
immediato, che si accontenta, si adatta e si rassegna a convivere con
gli errori accumulatisi nel tempo, più disposta a riconfermarli e
ripeterli che a correggerli. Questa controcultura aleggia su ogni
situazione a rischio, è un convitato di pietra che rende difficile ogni
azione in positivo, un’ombra che falsa o vorrebbe falsare ogni analisi
seria, ogni tentativo di risalire alle cause reali di qualsiasi evento
emergenziale.
La burocrazia, le burocrazie nei loro comportamenti spesso si fanno
interpreti di questa confortevole rassegnazione all’esistente,
traducendola in inerzia e passività e azzerando il valore del tempo.
Per noi il tempo esiste, spesso è il nemico da battere: occorre
arrivare prima, esserci, attivarsi immediatamente. Altre realtà vivono
il tempo in maniera del tutto diversa: gelose delle loro competenze,
avviano iter procedurali destinati ad arenarsi in qualsiasi momento, e
convivono senza disagio con procedimenti in corso magari da anni che non
hanno prodotto e che spesso non produrranno alcun risultato concreto.
E’ questo – non l’unico – un motivo importante della ragione per
cui la Protezione Civile spesso viene vissuta come una sorta di indebita
violenza, come una forzatura della volontà di altri, perché obbediamo
a logiche opposte, ci muoviamo anche dal punto di vista normativo con
regole che riconoscono il valore del tempo, operiamo calando sul tavolo
la carta della responsabilità, ci attiviamo e non ci rassegniamo fino a
quando non abbiamo tentato tutte le strade per raggiungere gli obiettivi
che ci vengono affidati. Ecco perché è più difficile gestire il
confronto con le burocrazie di questo tipo, attive al centro come in
periferia, piuttosto che governare un’emergenza.
Non vorrei a questo punto che dalle mie parole emergesse l’immagine di
un Dipartimento fatto di persone che, senza guardare in faccia nessuno,
decidono, dispongono e agiscono senza tener conto degli altri.
E’proprio questa la consapevolezza che ha invece stimolato da un lato
il progressivo potenziamento delle strutture regionali e locali del
nostro sistema, e dall’altro ha favorito una attività quotidiana
molto intensa di rapporti, di relazioni, di confronto, di discussione
con tutte le Amministrazioni e i soggetti che condividono con noi questo
impegno. Non si governa l’emergenza se la delega della responsabilità
e del potere di decidere non è bilanciata da una cultura condivisa, da
un confronto continuo che permette a chi deve coordinare e a chi deve
essere coordinato non solo di parlare lo stesso linguaggio, ma anche di
condividere gli stessi obiettivi, di vivere gli stessi valori, di
riconoscersi pienamente nell’impegno di tutti. Con questo metodo e con
questa filosofia affrontiamo l’intero capitolo della gestione
dell’emergenza, un’attività che non si accontenta più di
conoscenza, di potere, di disponibilità di strumenti tecnologici e
mezzi adeguati, ma richiede attitudini, risorse e capacità che crescono
soltanto nell’anima e nel carattere delle persone e si affinano grazie
alle esperienze che ne caratterizzano la biografia. Gestire
l’emergenza è una delle attività umane più esaltanti e più
difficili. Paragono quei momenti a quando ti trovi al timone di una
barca, che tu stesso hai contribuito a costruire e a strumentare, al
comando di un equipaggio che, almeno in parte, hai scelto e selezionato;
conosci la rotta, le manovre, le vele da impiegare, conosci la carta
nautica e sai come dovrebbero essere i fondali, conosci
l’affidabilità e l’esperienza di chi naviga con te. Eppure, quando
arriva la tempesta tutto questo scompare o meglio passa in secondo
piano, e ti confronti direttamente col vento, le raffiche, la pioggia
che sferza e le onde che sembrano sempre sul punto di travolgerti. Tutto
passa in secondo piano, non avverti, non senti, non pensi, fai, decidi,
resisti, intuisci, spesso ti salva la prontezza di riflessi, il sesto
senso, il lasciarti tentare dalla sfida. Poi, quando torna la quiete ti
accorgi che se la barca ha retto lo devi a come l’avevi progettata e
costruita, alle dotazioni e agli strumenti che avevi installato, ma
soprattutto, direi sempre, alle reazioni tue e del tuo equipaggio, che
come te ha messo in secondo piano tutto per dedicarsi all’emergenza,
con la volontà, l’attenzione e le energie fisiche concentrate su un
unico immediato, vitale obiettivo. Proprio nel momento in cui meno te ne
accorgi, funziona, e funziona bene, lo spirito di squadra e lo stile
della gente che lavora con te. Ogni emergenza è diversa dall’altra,
ma l’unica cosa uguale, ogni volta, è l’impeto della domanda
d’aiuto che l’emergenza ti rivolge, fatta di parole, pianti,
panorami di desolazione e disastro, immagini forti, di sgomento di
fronte a fenomeni di grande violenza. Più forte ancora è la domanda
quando essa è muta, e quando la leggi solo negli occhi dei bambini,
negli sguardi pieni di paura dei grandi, nei volti stanchi e spenti
delle donne, nelle lacrime asciutte di tanta gente che,
all’improvviso, è stordita dal lutto, dall’ansia per i feriti,
dalla perdita della casa, di quel poco che hanno, dell’orizzonte della
propria quotidianità. Ho provato questa sensazione tante volte, in
Italia e ancor più all’estero, dove ti accorgi che la mancanza di una
lingua comune non impedisce all’emergenza di presentarsi e farsi
capire con immediata, brutale, capacità di comunicazione. Qui, quando
sembra che non sai proprio da che parte cominciare, si ripete ogni volta
il miracolo del gioco di squadra: la gestione dell’emergenza è il
momento in cui raccogli il frutto del tuo lavoro di preparazione, di
studio, di analisi degli scenari, di conoscenza di ogni possibile
variazione nella dinamica di un evento, ma raccogli anche il frutto
della fiducia che hai costruito lavorando con chi è impegnato con te,
di chi ti ha seguito giorno e notte nelle strade, sotto la pioggia, nel
fango, in mezzo alle macerie. Ricevi il dono ogni volta inatteso ma
puntuale e incisivo di coloro che incontri sul campo, gente che non
conosci con la quale basta uno sguardo per capirsi. Grazie a questo puoi
affrontare l’emergenza che ogni volta provvede a cambiare le carte in
tavola, a truccarsi per non farsi riconoscere, a rendere inutili i piani
e i progetti che hai predisposto e che devi sostituire con strategie
definite all’istante. Non lo fai se non hai esperienza, non lo fai se
sei da solo, se alla tua volontà, determinazione e capacità di
reazione non si sommano le stesse doti della squadra che lavora con te.
La gestione dell’emergenza è una sfida che obbliga ad essere uniti,
piaccia o meno, che si vince soltanto sommando le forze ed è messa a
rischio ogni volta che qualcuno, per non essere entrato nel clima
giusto, per non aver capito questa logica, per estraneità culturale ed
umana, pretende di intervenire sulla scena portando priorità,
riferimenti, esigenze diverse. Nella mia esperienza non ricordo casi di
situazioni di emergenza in cui le cose siano andate secondo i piani: è
forse questo l’elemento che ne caratterizza la gestione e la rende
diversa dalle altre attività umane che prevedono l’impiego di un
sapere razionale, ordinatorio, di capacità di calcolo e di valutazione
degli effetti di una scelta su un sistema complesso, come sono le
attività di carattere ingegneristico. Ma questa caratteristica
dell’emergenza a sua volta è fonte di stimolo per nuove creatività e
passi avanti, perché si cammina su un terreno dove nessuno ha segnato
il sentiero, e puoi inventare soluzioni, cambiare le abitudini
consolidate e gli schemi di divisione dei ruoli e di competenze. Quando
l’impegno delle istituzioni e l’interesse della pubblica opinione si
smorzano nell’esaurirsi delle prime indispensabili attività di
soccorso, lasciando spesso le comunità colpite da una tragedia in piena
solitudine a ricostruire da sole un percorso difficile e faticoso per
riprendere a sperare, noi siamo lì, li andiamo a cercare, certe volte
possiamo anche stupirli con la nostra presenza. Ecco perchè abbiamo
imparato ad agire senza fissare noi i tempi migliori per organizzare un
intervento ben fatto, ma accettando che la cadenza del nostro impegno
sia invece determinata dalle urgenze e dai bisogni di quanti stiamo
aiutando.
Può sembrare un’eresia, ma rivendicando in questo anche una specifica
genialità italiana mi piace pensare che spesso operiamo seguendo solo
in parte la “logica del progetto”, non rispettando soprattutto le
lungaggini e le perdite di tempo che caratterizzano l’attività di
tante agenzie di aiuto.
Questa, forse, è la caratteristica che, a mio avviso, distingue la
complessità da ciò che è semplicemente complicato, magari anche
difficile ed impegnativo: è la presenza di elementi imponderabili e di
elementi mancanti, di possibili carenze che non impediscono comunque di
partire, di iniziare, di accettare la sfida, giocando proprio sulla
variabile tempo.
Sarei tentato di dire che quando c’è tutto, quando non manca nulla,
quando governi un sistema chiuso che non ti riserva sorprese, quando
puoi seguire i tuoi piani e i tuoi progetti così come li hai pensati e
li hai scritti, allora il metodo di gestione che ho imparato
confrontandomi con le emergenze è superfluo, perché per governare
bastano dei buoni tecnici, dei programmatori, dei pianificatori. E
potrebbe non servire allora l’ausilio di chi deve invece saper curare,
nello stesso tempo, l’albero e la foresta. Eppure, non solo se mi
guardo indietro, ma anche se mi guardo intorno, vedo una serie infinita
di errori, anche grossolani, di effetti negativi non voluti, di disastri
compiuti in buona fede da istituzioni, amministrazioni, organismi
nazionali ed internazionali e da persone che hanno affidato ad un
qualche schema di pensiero e di azione predefinito il loro ruolo nel
mondo. Abbiamo sotto gli occhi i risultati drammatici ottenuti da quanti
si chiudono in un modo rigido di vedere le cose e si consegnano
prigionieri ad astratti schemi formali, diventando incapaci di
interagire con chi incontrano sul loro percorso, con chi propone o
chiede cose diverse da quelle già disponibili nel repertorio. Basta
guardare, a mio avviso, lo scarto che esiste tra le ben note necessità
di saggia manutenzione del territorio e quanto si realizza ogni anno per
evitare che si aggravi il rischio di crisi e di emergenze. Basta
guardare verso sud, verso il continente africano, per constatare
l’enormità del divario tra gli annunci, i proclami, le dichiarazioni
di intenti e i risultati concreti portati a casa da chi dovrebbe
operare e raggiungere quegli obiettivi, oppure il ritardo pauroso con
cui si mettono in moto gli aiuti umanitari anche nel caso di tragedie
annunciate.
Mi viene da pensare che la lezione dell’emergenza sia una lezione
importante per tutti, difficile da seguire perché non si impara a
distanza, né può essere appresa soltanto studiando sui libri o
costruendo modelli, ma richiede di esser vissuta sul campo, nella
pratica, dove emerge tutta la complessità di ogni operazione per
la quale serve una miscela sempre diversa di sapere scientifico, di
competenza tecnologica, di esperienza operativa che sono rese efficaci
dalle doti umane di chi si impegna e dall’attenzione alle esigenze
dell’uomo che il sistema riesce ad esprimere.
Per questo mi ritengo fortunato, per aver avuto in dono dalla vita
occasioni sempre nuove per sperimentare queste combinazioni di saperi,
per essere stato arricchito ogni volta da nuovi incontri, da lezioni di
vita ricevute nei posti più strani e dalle persone più diverse. Ho
imparato, sbagliando tante volte, ad ascoltare prima di prendere la
parola; come ogni viaggiatore, ho imparato poco per volta a vuotare il
mio zaino, nella consapevolezza che ciò che veramente ti serve in
emergenza è poca cosa, occupa poco spazio, perché la gran parte di ciò
che è indispensabile te la porti dentro. Ho imparato a confrontarmi con
la scarsa gioia e il grande dolore degli altri, con le paure e la festa,
con l’attesa premiata dal risultato voluto e con l’insuccesso, con
le mille occasioni in cui diventa forte la tentazione di disperare
nell’uomo, quando è allora lo sguardo saggio di una nostra
vecchietta, che con poche parole o un gesto cancella dalla tua anima il
pessimismo accumulato per eccesso di fiducia in se stessi. Non so se
quanto vi ho raccontato possa bastare a delineare almeno i punti
fondamentali di un metodo di governo della complessità. Sarei felice
però, se almeno fossi riuscito a raccontare il percorso che ho fatto
per imparare a confrontarmi con queste sfide, e soprattutto a
condividere con voi la certezza che al cuore della complessità ci sia
sempre l’uomo, nella sua infinita ricchezza e nella sua immensa povertà.
Su questa scoperta ho cercato di costruire la mia vita, scegliendo un
mestiere e un ruolo che accontenta la mia voglia di bene per me e per
gli altri, sottoponendo Gloria, Olivia e Chiara a sacrifici e rinunce,
costringendole ai miei silenzi e alle mie assenze, abituandole a vivere
con qualcuno assai complesso e chiedendomi ogni giorno di essere un
esperto ingegnere delle mie intenzioni e dei miei obiettivi, vivendoli
sino in fondo senza sconti, condividendoli con quanti hanno accettato ed
ogni giorno accettano di impegnarsi con me. E’ questo il modo che ho
trovato per tenere la porta e l’anima aperte ad ogni nuova sfida che
possa impegnarmi domani." |
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