LOCOROTONDO A METÀ SETTECENTO:

 

I. POPOLAZIONE ED ECONOMIA

 

tratto da : "Locorotondo" n°2, luglio 1987, stampa Arti Grafiche Pugliesi

 

di

Anthony H. Galt

Professore di Social Change and Development

University of Wisconsin - Green Bay.

 

 

 

Premessa

 

In questo articolo ed in un altro che seguirà presento alcuni dei risultati del mio studio sul catasto onciario di Locorotondo. L’argomento del presente articolo è il profilo demografico ed economico di Locorotondo a metà Settecento. Nell’articolo che verrà pubblicato in un secondo momento descriverò la struttura sociale.

Cerco di presentare i risultati in un modo accessibile al lettore non specializzato e perciò ho evitato la tentazione di accludere nel testo le analisi statistiche dalle quali alcune delle mie conclusioni derivano.

Questa decisione è pericolosa perchè oscura i miei metodi, ma per una pubblicazione di storia locale ritengo più importante la comunicazione delle conclusioni, ancora inedite, che le discussioni di metodologia. Mando il lettore che ha una certa conoscenza della statistica a un’altra mia pubblicazione.

Il catasto onciario è una delle fonti più importanti per approfondire la nostra comprensione del Settecento meridionale. La compilazione del catasto onciario fu ordinata da Carlo di Borbone nel 1741 come tentativo di una riforma fiscale. Negli anni successivi un catasto onciario fu formato in ogni paese del Regno; quello di Locorotondo risale al 1749. Il documento consiste di un elenco di tutti i “fuochi” del paese con indicazioni di nomi, età e occupazioni dei familiari e delle tasse che spettava loro pagare. Segue un elenco delle proprietà appartenenti al “fuoco” e le indicazioni dì altre fonti di reddito come i “capitali”, affitti di case, o canoni enfitutici. Ci sono anche le indicazioni dei debiti dovuti ad altri. L’ onciazio da quindi il profilo demografico ed economico di ogni famiglia residente  o possidente a Locorotondo a meta’ settecento.

Manca, però, quello del feudatario al quale non spettava pagare le tasse.

La copia del catasto onciario di Locorotondo analizzata è quella conservata all’Archivio di Stato di Bari, però ho consultato anche la copia conservata all’Archivio di Stato di Napoli. La prima è, in un certo senso, più interessante della seconda perchè, essendo stata conservata presso il municipio di Locorotondo, contiene delle modifiche che sono chiaramente distinguibili dalla ste­sura originale. Nelle elaborazioni statistiche che seguono, però, ho preso in considerazione solamente la prima stesura come rappresentante della popolazione nell’anno di compilazione.

Il catasto onciario di Locorotondo presenta poche difficoltà di lettura. L’ortografia è chiarissima e le due copie sono ben conservate. Invece ci sono molte difficoltà d’interpretazione e in numerosi casi i dati ivi trascritti non risultano precisi. Per esempio l’età degli ecclesiastici (tranne che per uno di essi) non fu registrata perchè non spettava loro pagare il testatico o l’indu­stria. È anche probabile che manchino le registrazioni di un numero non facilmente determinabile di bambini piccoli. Manca spesso l’età dei maschi solitari che componevano i fuochi, specialmente se erano braccianti nullatenenti. Naturalmente, queste lacune complicano l’analisi della struttura della famiglia e delle vicende demografiche.

Inizialmente, ho consultato il catasto con la speranza di poter scoprire le origini del modello d’insediamento tipico della zona di Locorotondo, e cioè dello sparpagliamento della popolazione in campagna.

Speravo di poter stabilire tramite il catasto se già esisteva nel Settecento una popolazione contadina sparsà in campagna e qual era la sua percentuale sul totale. Purtroppo nè nelle due copie consultate, nè nelle rivele per il catasto conservate a Napoli, c’è la minima indicazione dei luoghi di domicìlio dei “fuochi” registrati, come ci dovrebbe essere secondo le istruzioni date per la loro compilazione. C’è solamente l’indicazione che la famiglia “abita in casa propria” o che, e da chi, affitta la casa. Perciò il catasto di Locorotondo non permette di localizzare con precisione il luogo di domicilio delle famiglie censite.

Anche i dati sulle proprietà registrate presentano molte difficoltà di interpretazione. Le rivele erano dichiarazioni fatte dai capi di famiglia e non i risultati di osservazioni e misurazioni controllate e le possibilità e le probabilità di errori e di frode sono enormi. La sola speranza di un’analisi attendibile si ha nel fatto che ci sono oltre 600 “fuochi” nella popolazione statistica e che gli errori tendono a cancellarsi. Il valore dei risultati statistici è da trovare non nella precisione di misurazione di variabili, come, per esempio, l’estensione totale assoluta dei vigneti, ma nel confronto, all’interno alla popolazione dei “fuochi”, di quantità relative. Così si può riconoscere più attendibìlità alle percentuali relative dei diversi tipi di proprietà fondiaria che all’estensione totale di esse.

Oltre al catasto conciario ho consultato altri documenti del settecento. Questo sono soprattutto gli atti notarili del periodo: i contratti di vendita, di prestito e di affitto, alcuni atti pubblici, i contratti di matrimonio. L’informazione ricavata da queste fonti è da considerare supplementare ed illustrativa rispetto alle analisi fatte sul catasto. È stata molto utile anche la mappa conservata a Locorotondo che risale, nella sua stesura originale (ora persa), all’anno 1756, cioè proprio al periodo che ci interessai. Un’altra serie di piante e una perizia non risalgono al periodo del catasto, ma indicano le terre possedute nell’agro di Locorotondo a fine secolo dal suo feudatario, che era anche Duca di Mattina Franca.

Si può supporre che l’estensione della proprietà del feudatario di Locorotondo non sia cambiata dì molto durante la seconda metà del secolo e si devono accettare queste mappe e la perizia che le accompagna come le sole fonti che danno indicazioni precise dell’estensione e della natura della proprietà baronale.

 

 

I.   Cenni sulla popolazione

 

Nell’anno 1749 la popolazione di Locorotondo contava un po’ meno di 2.200 anime. Dal totale dei fuochi (635) si devono sottrarre gli enti ecclesiastici che erano otto, il menage del Duca di Mattina Franca, che non risiedeva a Locorotondo, e quattro ditte non residenti. Così la media per fuoco era di 3,51 persone. Dalle numerazioni dei fuochi si costata che nell’anno 1669 il

 numero di fuochi a Locorotondo era 342 (diminuito da 400 nel 1648) ed applicando la media di persone residenti per un fuoco ricavato dal catasto settecentesco si può stimare una popolazione di 1.200. Dal Censimento Murattiano apprendiamo che il totale della popolazione nel 1815 era di 4.576 abitanti. Si può concludere che la popolazione di Locorotondo, come quella del resto della Terra di Bari durante il Settecento, era in piena fase di espansione.

Senza dubbio si deve considerare il numero di anime ricavabile dal catasto come approssimativo, data la probabile tendenza a non registrare i bambini piccoli. Questa tendenza si vede nella rappresentazione grafica - oppure piramide delle classi della popolazione per sesso e per eta' (figura 1) - in cui si nota una certa ristrettezza delle colonne che rappresentano  le eta' fra 0 e 10 anni . La percentuale dei maschi e' 49,51 e quella delle femmine e' 50,49. Sulla popolazione totale ci sono 146 persone per le quali l' eta' non e' registrata e in questo gruppo ci sono 146 1,7 maschi per ogni femmina. Nella popolazione rappresentata nella piramide l' eta' media dei maschi e' di 26,37 e delle femmine di anni 26,6. La popolazione è perciò giovane.

La rappresentazione grafica ha la forma triangolare tipica di una situazione ne demografica in cui le condizioni sanitarie sono primitive e paragonabili a quelle odierne del terzo mondo.

La densità di popolazione nel territorio di Locorotondo non si può facilmente stimare perché non si ha un’idea certa di come fosse distribuita la popolazione registrata nel documento rispetto ai confini del comune. Si sa dai toponimi citati nel catasto onciario, però, che i residenti di Loeorotondo possedevano fondi in una zona approssimativamente uguale all’estensione del territorio comunale moderno che si può considerare come il territorio defacto se non dejure dei Locorotondesi in quel periodo. Utilizzando i dati relativi alla superficie moderna del comune (47,5 chilometri quadrati), si calcola una densità di 44,2 anime al chilometro quadrato.

Dalle fonti settecentesche non si sa che pochissimo della distribuzione spaziale della popolazione. (La prima indicazione della percentuale della popolazione residente in campagna viene dal censimento Murattiano che risale al 1811. Si può calcolare che quasi il 37 per cento abitava, in quell’epoca, fuori le mura e nei nuovi borghi del paese. E' chiaro che almeno una parte della popolazione contadina risiedeva in campagna permanentemente già alla metà del Settecento, anche se non è possibile calcolare in quale percentuale. Certo è che una parte dei contadini che risiedevano in campagna erano massari che conducevano le masserie appartenenti ai benestanti del paese e che abitavano nelle case coloniche, probabilmente a trullo, inserite nelle masserie. Ma se si osserva la distribuzione delle vigne nelle campagne di Locorotondo attraverso le indicazioni di toponimi nel catasto, si ricava che il modello tipico dell’Italia meridionale in cui le vigne si concentrano in una zona che circonda il paese non è affatto la situazione locorotondese. Si trovano, invece, concentrazioni di vigne a una certa distanza dal centro, particolarmente verso il nord, nella zona di San Marco e vicino alle strade che andavano verso Fasano. Una grande porzione di queste vigne era in mano di piccoli proprietari e la distanza di esse dal centro suggerisce un quadro che comincia a presentarsi simile a quello più recente, nel quale i contadini dimorano nella campagna.

 

FIG: 1. Piramide della popolazione a Locorotondo nel 1749 sulla base del catasto onciario.

Altre indicazioni di questo modello d’insediamento si possono leggere negli atti notarili dove si trovano alcune descrizioni di luoghi che ora si devono riconoscere come raggruppamenti di trulli abitati, oppure jazzèlere. Per esempio, in un atto pubblico relativo alla Masseria Serrapizzuto (ora Aprile) nella zona a sud-est del territorio, si legge che tre uomini “adetti a coltivare la campagna... furono chiamati da campagna dove dimoravano".

Uno di questi era Oronzo di Francesco Nardelli che abitava vicino alla masseria. In quella zona, proprio vicino alla masseria si trova un jazzeile chiamato Ronziello o Ronzielli. Sulla mappa settecentesca si trova un’indicazione in quel luogo delle “caselle di Oronzo Nardelli”. La parola italiana “casella” presenta sempre delle difficoltà d’interpretazione, perché può essere l’italianizzazione di due parole dialettali: casidde, che significa appoggio per il lavoro, e a casèdde, che significa abitazione rurale. Quindi non si può concludere che l’uso della parola “casella” in un documento significa automaticamente l’abitazione in campagna; ma in questo caso abbiamo un’indicazione “indipendente” che proviene dall’atto notarile, la quale fa capire che Oronzo Nardelli dimorava in campagna. Perciò si può inferire che il jazzeile già esisteva almeno in forma larvale attorno a metà secolo.

Un altro atto notarile, rogato nel 1725, dà la descrizione di un jazzeile a San Marco; con un buon indice di sicurezza si può affermare che tale jazzeile era abitato”. In questo caso un uomo divideva la sua proprietà fra due fi­glie nubili. Una figlia eredita dei terreni, fra cui due quartieri di vigne, “con una casella la nuova dove sta il letto in detto luogo di San Marco, et la metà della casella del fuoco, la metà del frutto delle fiche che stanno sopra le caselle, et metà dell’olivo che stà manzi le caselle, la quarta parte del pozzo, che stà dentro il Chiazzile commune, et manzi le caselle”. In più riceve “la metà del bascio” che stà in paese. L’altra sorella eredita la sua porzione di terreni, vigne comprese, “come anco una casella la grande dove stà l’argata da tessere, una con la medesima argata, la metà della casella del fuoco” con diritti sul pozzo, chiazzile, ed alberi sovracitati e l’altra metà del “bascio” in paese. Così si vede la divisione di un’abitazione, e cioè di una casédde, che contiene un letto, un telaio, ed un focolare (nella “casella del fuoco”). In questo caso la parola “casella” significa stanza coperta a trullo, un grappolo delle quali formano una casa rurale. C’è anche l’indicazione che oltre all’abitazione descritta nell’atto ce ne possono essere altre, perché ogni sorella ha una quarta porzione del pozzo nel “chiazzile”. Questo fatto fa pensare che due altri parenti con le porzioni loro ci abitavano.

Per di più si legge nel documento di un basso in paese. Sarebbe potuto essere che mantenevano un’abitazione minima nel centro come comodità per i giorni festivi, come facevano alcuni dei contadini di questo secolo che uti­lizzavano il basso in paese per cambiare i vestiti o per pernottare se gli affari in paese richiedevano più del tempo di una sola giornata. Testimonianza di questa usanza si trova in un altro atto del 1725, una divisione di proprietà in cui si legge “che si possono servire di detto bascio di casa per necessità d’infirmità, et per bisogno di quando vengono a sentire la messa nelli giorni di fèsta, et non altrimenti”

In un altro atto del 1725 si trova l’indicazione di uno dei problemi connessi all’abitare unjazzeile. I jazzèlere della campagna di Locorotondo hanno una certa notorietà per le liti che nascono dalle differenze di opinione riguardo all’uso comune degli spazi, dei pozzi ed, anticamente, dell’aia e dei palmenti per la lavorazione dell’uva. Il controllo degli animali rispetto allo spazio tenuto in comune era un problema perenne. Nell’atto si legge di un padre, che fa il suo testamento preoccupandosi delle liti che teme possano nascere fra i suoi eredi nel jazzeile che divide e che nota specificamente: “se detti eredi volessero allevarsi animali porcini, che ogni uno li debba tenere sopra la porzione propria”’. Si possono immaginare le difficoltà che sarebbero sorte da una situazione in cui i maiali errassero liberamente nel jazzeile, o nei giardini adiacenti. Per di più sarebbe stato difficile allevare i maiali in un jazzeile in campagna e poi ritirarsi in paese di notte, lasciando gli animali in balia di ladri; perciò si deve pensare che gli eredi dimoravano in campagna.

 

occupazione o denominazione del capofamiglia indicata in catasto numero di capofamiglia percentuale sul totale dei capifamiglia
Vedove (V) 49 7,99
bracciale (B) 241 39,31
massaro (M) 158 25,77
pastore (P) 8 1,31
ortolano (OR) 1 0,16
gualano (OR) 1 0,16
casellaro (APR) 1 0,16
paretaro (APR) 2 0,33
zoccolatore di pietra (APR) 5 0,82
zavattine (AL) 1 0,16
servo (AL) 1 0,16
vaticale (VA) 22 3,59
fabbricatore (AP) 11 1,79
pellaro (AP) 1 0,16
scarparo (AP) 19 3,10
beccaro (AP) 1 0,16
mastro d' ascia (AP) 5 0,82
fabbro (AP) 6 0,98
sarto (AP) 5 0,82
speziale (P) 1 0,16
bottegaro di oglio e caso (MR) 3 0,49
bizoca (BZ) 6 0,98
dottore di medicina (P) 4 0,65
notaro (P) 2 0,33
dottore di legge (P) 1 0,16
sacerdote (S) 49 7,99
scolaro (AL) 1 0,16
vive civilmente (VC) 7 1,14
duca di Martina Franca 1 0,16
TOTALI 613 100

TABELLA 1. Occupazioni o denominazioni dei capifamiglia residenti ( Classi aggregate fra parentesi come segue. 

V=vedove ; B= braccianti; p= pastori; OR= operaio rurale; APR= artigiano rurale; VA= vaticale; BZ= bizoca; PR= professsionale; S= sacerdote; VC= vive civilmente; AL= altro. queste classi sono aplicate alle tabelle 3 e 4 .

E chiaro dalle fonti, pero', che il distacco totale della popolazione contadina di Loeorotondo dal centro storico che si nota attraverso le fonti pubblicate, e sul quale insistono gli informatori contadini, non era ancora sviluppato nel Settecento. Questo si desume da numerosi contratti di matrimonio conservati fra gli atti notarili. La donna, che ovviamente si sposa con un contadino, riceve in dote un’abitazione in paese, e l’uomo, se è segnalato, riceve della terra e gli attrezzi del lavoro, ma raramente una “casella”. Si vede anche dal censimento del 1811 che molti “coltivatori’’ abitavano in paese anche se, sessant’anni dopo la formazione del catasto onciario, una percentuale sostanziale di essi già abitava in campagna. Insomma, riguardo al

modello di insediamento a Locorotondo a metà Settecento è da concludere che il distacco fra paese e campagna, tipico della zona, era già iniziato, ma non aveva raggiunto il livello che comincia a essere chiaro dalle fonti ottocentesche.

 

lI.   Cenni sull’economia e la struttura agricola

 

Occupazioni

 

Nel Catasto Onciario non c’è indicazione dello sviluppo di una specialità artigianale a Locorotondo. A differenza della situazione economica a Martina Franca, dove c’era una specializzazione artigianale nella lavorazione del cuoio che si associava all’economia pastorizia del paese, gli artigiani registra­ti rendevano servizi per soddisfare i bisogni della popolazione locale. (Sì veda la Tabella 1). La categoria artigianale più numerosa era quella dei calzolai e fra i capifamiglia sedici uomini seguivano questo mestiere. Cinque erano sarti. Gli altri artigiani facevano o riparavano gli attrezzi - carpentieri, ferrai - o costruivano edifici. E interessante notare che nel Settecento esisteva la distinzione, che si nota ancora, fra il “muratore”, che costruiva le case di paese, ed il caseddère, o “casellaro”, che costruiva i trulli. Sì nota anche la presenza deI “paretaro” che costruiva li muri a secco in campagna. Un’altra categoria di artigiani che appartiene al modello locorotondese dell’agricoltu­ra era lo “zoccatore di pietra”, ossia quello che, adoperando u zucchétte, bucava e rompeva gli strati di pietra per scavare i pozzi, le cisterne e le cantine delle case di campagna e per trasformare i campi da superfici rocciose di poca utilità in vigneti. Ne appaiono cinque nel catasto. Oltre a questi fuochi con capìfamiglia artigiani e quelli dei più benestanti (sacerdoti, nobili viventi, professionisti), la stragrande maggioranza dei fuochi o erano di massari (158) o di braccianti (244).

 

 

La proprietà fondiaria e il paesaggio agricolo

 

La base economica della società locorotondese settecentesca era l’agricol­tura e quindi per la comprensione del periodo bisogna studiare la distribuzione della fonte di ricchezza, la terra, e fare una ricostruzione fin quanto possibile della natura del paesaggio agrario. Il coefficiente Gini è una misura statistica che mostra la distribuzione della ricchezza. Per Locorotondo il coefficiente per la terra è pari a 0,81, e si nota che la distribuzione della ricchezza era piuttosto ineguale.

Bisogna notare, però, che 1’ 82,36 per cento dei fuochi avevano delle proprietà. La massa della proprietà era concentrata nelle mani del feudatario, degli ecclesiastici, dei possidenti “borghesi”, ma la maggior parte degli altri fuochi di Locorotondo possedevano almeno un fazzoletto di terra, spesso piantato a vigna.

Le categorie di terre che possono essere distinte nel catasto sono “vigneto”, “demaniale”, “mezzana” e ‘chiusura e serrata” che insieme comprendono il 41 per cento del totale delle proprietà (si vedano le tabelle 2 e 3). Da una lettura della fonte e degli atti notarili, sembra che siano categorie che nella maggior parte dei casi si escludono mutualmente. A differenza dei cata­sti di altri paesi, né la copia del catasto di Locorotondo conservata a Napoli né la copia analizzata presentano delle descrizioni precise e consistenti della destinazione colturale dei campi. Ci sono altre categorie, come “masseria”, “vignale” e “seminatorio”, per esempio: ma appaiono poco e incostantemente e perciò non hanno valore statistico attendibile. La maggior parte del­le proprietà veniva classificata semplicemente come “terra”. Con l’eccezione dei vigneti, sembra che i compilatori del catasto si interessassero piu’ delle categorie giuridiche riguardanti il grado di apertura delle terre che di quelle riguardanti la produzione.

FIG. 2 . Mappa del territorio di Locorotondo a meta' 70 che mostra la rete stradale ed entro lo spazio triangolare i confini stabiliti nel 500. Le cifre danno la percentuale sul totale dei vigneti dell' estensione in ogni contrada localizzabile. Questa mappa e' stata creata facendo il confronto fra la mappa topografica moderna con quella del 1756.
occupazioni o denominazione dei capifamiglia censiti nel catasto onciario numero estensione dei fondi (stoppelli) media a fuoco valore imponibile dei fondi al fuoco reddito totale imponibile al fuoco
vedove 49 1242,99 25,37 3,30 6,23
braccianti 244 9549,38 39,14 1,35 1,73
massari 158 12024,69 76,11 8,10 13,05
pastori 8 460,83 57,60 6,91 12,29
operai rurali 2 47,50 23,75 2,25 2,50
artigiani rurali 8 107,16 13,40 1,96 2,22
vaticali 22 254,99 11,59 2,23 4,20
artigiani paesani 49 379,50 7,74 1,12 4,56
mercanti  3 69,50 23,17 4,23 23,06
bizoche 6 61,83 10,30 1,31 4,56
professionali 8 944,00 118,00 19,57 40,37
sacerdoti 49 12074,00 246,41 28,26 36,45
vivono civilmente 7 2501,50 257,36 34,65 96,75
duca 1 3249,10 3249,10 ? ?
enti religiosi 8 1387,66 173,46 53,86 102,29
altri 3 0,00 0,00 0,00 0,00

TABELLA 3. Estensioni e valori imponibili di proprieta' fondiaria secondo le occupazioni o denominazioni dei capifamiglia dei fuochi rappresentati nel catasto onciario di locorotondo, 1749. (V. tabella 1 per la composizione delle classi aggregate). I valori e redditi sono in ducati

I vigneti

 

I vigneti sono sempre registrati adoperando “il quartiero” come misura di superficie, e questa misura è, neI catasto, limitata alle vigne. Per gli scopi di questo studio ho considerato il quartiero uguale alLo stoppello, cioè pari a 0,1074 ettari. Secondo un processo verbale del decurionato di Locorotondo, che risale al 1842, un quartiero si calcolava essere un po’ più grande dello stoppello e pari a 0,1098 ettari, ma, data l’imprecisione della misurazione nelle rivele del catasto onciario, le due misure si possono considerare uguali. Secondo una perizia inserita in un

contratto d’enfiteusi del 1801, un quartiero era “un quadrato che per ogni lato contiene venticinque viti, che compone numero seicentoventicinque viti superficiali”.

I vigneti costituiscono il 5,18 per cento della totalità della proprietà fondiaria registrata nel documento. Se ci si può fidare delle cifre registrate, la proporzione dei vigneti sul totale aumentava durante il Settecento fino a raggiungere il 16,6 per cento al periodo del Catasto Provvisorio del decennio francese. La rendita media imponibile di un quartiero di vigneto era di 0,32 ducati, ed è evidente nella fonte che spesso un quartiero fu fissato a 3 carlini di rendita come stima, senza badare molto alla qualità o alla situazione della terra nel paesaggio. È da notare che la rendita media di un quartiero di vigneto è pari a più di tre volte quella di uno stoppello di tutte le altre categorie di terra. Perciò anche se i vigneti comprendevano solamente il 5,18 per cento della proprietà registrata, producevano il 17,61 per cento della rendita fondiaria della zona e ci doveva essere, quindi, una certa motivazione economica per “pastanare”. È anche importante notare che quasi tre quarti dei fuochi di Locorotondo erano proprietari di vigneti. Data la più uniforme distribuzione dei vigneti (Gini  circa uguale a 0,56) e il valore elevato di essi, questo tipo di proprietà fondiaria mitigava un po’ la distribuzione ineguale di terra che caratterizzava il sistema socioeconomico di Locorotondo a mètà Settecento.

Dall’onciario si ricava che i 244 fuochi con capofamiglia in condizione di “bracciale” avevano in media 1,92 quartieri di vigneto ognuno.

L’estensione media di vigneto dei braccianti indicati nell’onciario quasi certamente bastava per l’uso domestico durante l’anno e forse permetteva alla famiglia che produceva più della media di vendere unà porzione del prodotto. 1158 capifamiglia massari, in media, coltivavano 4,47 quartieri e producevano perciò parecchie volte la quantità necessaria all’autoconsumo. Almeno per quanto riguarda i vigneti, i contadini della zona, specialmente i massari - oppure i piccoli proprietari più benestanti - erano inseriti nei mercato e chiaramente non producevano solamente a livello di sussistenza. Que­sto mercato non era necessariamente completamente monetizzato; spesso il vino serviva, secondo Massafra, come salario in natura. Però penso che un mercato per il vino andasse sviluppandosi in direzione della marina, dove a metà Settecento la specializzazione nell’olivicoltura era quasi totale.

Come notato sopra, i vigneti erano distribuiti un po’ dovunque, con l’eccezione della zona orientale del territorio, dove aveva i suoi parchi il Barone, e della zona settentrionale, dove vi erano i parchi di Talinajo e San Pantaleo che appartenevano al Bailaggio di Santo Stefano di Fasano. Si nota in particolare un asse di concentrazione di vigneti che corre tra la zona a nord-ovest del territorio e, attraversando il paese di Locorotondo, finisce a sud-est del centro abitato, vicino al confine con Martina Franca e agli antichi confini della Difesa di Ficazzano, dell’Università di Ostuni. Quest’asse coincide, più o meno, con le strade che vanno per il Canale di Pirro verso il nord-ovest, alla pianura litorale ed ai territori di Monopoli e Fasano (Figura 2).

 C’e’ la possibilità che questa distribuzione indichi la presenza del commercio di vi­no fra la Murgia dei Trulli e la pianura litorale, data la scarsa evidenza dell’esportazione per via di mare del vino, per soddisfare il bisogno locale.

È probabile che i vigneti fossero recintati da pareti. Il diritto di serrare i vigneti fu notato specificamente nel documento che risale alla sistemazione nel 1566 del Regio Demanio della Città di Monopoli, al quale apparteneva Locorotondo.

I vigneti di Locorotondo sono indicati nel catasto onciario come proprietà piena delle persone che compongono i fuochi, e le indicazioni di contratti ed enfiteusi (che divengono più comuni nell’Ottocento ed ai qùali si ascrive la più larga diffusione di viticoltura nella zona della Murgia dei Trulli) sono, a metà secolo, rarissime. La porzione del numero totale dei quartieri dei vigneti soggetti al canone enfiteutico sul totale dei quartieri di vigneto (2.299,45) era pari a solamente 10,65 quartieri, oppure al 10,44 per cento. Il proprietario che dava queste vigne in enfiteusi era il Barone. Sfogliando i contratti fra gli atti notarili, si verifica che le istanze di enfiteusi ad meliorandum et pastanandum erano rarissime fino alla fine del secolo.

classe di proprieta' fondiaria numero di stoppello nella cl. % sul totale rendita della cl. ducati % sul totale rendita di uno stoppello % dei fuochi posseduti
vigneti 2299,45 5,18 738,50 17,61 0,32 74,02
demaniale 8067,64 18,16 441,80 10,54 0,05 25,98
mezzana 4185,03 9,42 460,60 10,98 0,11 24,57
chiusura/serrata 3613,50 8,13 400,81 9,56 0,11 15,91
altre terre 26262,34 59,11 2151,29 51,31 0,08 73,54
totali 44427,96 100,00 4193,00 100,00 0,09 82,36

TABELLA 2. Statistiche sulle classi di proprieta' fondiaria registrate nel catasto onciario di Locorotondo 1749

Quindi, dalle fonti consultate non s’impara molto sull’origine della picco­la proprietà viticola nella zona. Masi, scrivendo dello sviluppo della piccola proprietà nella zona dei Trulli, dice in una nota che i “contratti enfiteutici nell’agro di Locorotondo furono dovuti alla genovese Pellegrina Castelli”. Purtroppo, questo non risulta vero né dal documento citato da Masi né dal testamento della Madama Pellegrini Castelli. Se la piccola proprietà viticola era dovuta all’enfiteusi, i contratti originali risalivano a molti decenni prima del catasto ed o erano affrancati, o i canoni erano erosi dal tempo fino al punto di non contare più. Così si rimane nell’oscurità per quanto riguarda gli inizi del modello Locorotondese dello sparpagliamento o dei vigneti o delle abitazioni in campagna.

Una grande porzione dei vigneti - il 21 per cento - era caricata da decime o quindecime dovute agli enti ecclesiastici, sopratutto alla Mensa Vescovile di Monopoli (nella zona di San Màrco). Altri enti ecclesiastici che imponevano pesi erano l’Abbazia di Sant’Angelo in Grecis di Fasano, e il Capitolo di Locorotondo. Si può ipotizzare che questi pesi rappresentano tracce di antiche cessioni da parte degli enti ecclesiastici ai singoli proprietari della zona, come testimonia un brano di contratto duecentesco pubblicato da De Gennaro o come suggerisce Villari. Sappiamo dal catasto onciario che spettavano al “Reverendo Capitolo” di Locorotondo ottantasei canoni enfiteutici, nella maggior parte dei casi dovuti dagli eredi dei contraenti originali, e perciò da considerare come vecchie concessioni, forse del Seicento. Purtroppo, nella registrazione di questi affitti non era specificata la natura della proprietà data in enfiteusi e non possiamo sapere se si trattava di vigneti (com’è probabile) odi altre proprietà, come per esempio delle case.

Mezzane e demaniali

 

La categoria “mezzana”, o, spesso, negli atti notarili “menzana”, comprendeva il 9,42 per cento della totalità della proprietà fondiaria e produceva quasi l’il per cento del reddito totale. Solamente un quarto dei fuochi possedeva terreni di questo tipo. La definizione della terra “mezzana”, però, non è facile. Secondo la definizione più comune del periodo le mezzane dovevano essere pascoli per gli animali da lavoro sulle masserie “di campo” e la loro superficie avrebbe dovuto corrispondere a un quinto, più o meno, della su­perficie totale. Infatti, in un contratto di vendita di una masseria allora in territorio di Fasano (ora in territorio di Cisternino), si legge che l’estensione totale della masseria comprendeva 100 tomoli, dei quali 80 erano terre dema­niali e 20, cioè un quinto, erano mezzane

Nel sovraccennato documento cinquecentesco, che riguardava la definizione degli usi delle terre del Regio Demanio della Città di Monopoli, si leg­ge “che le mezzane si concedono secondo la quantità de’ Territorj, e qualità delle masserie per li Bovi aratorj tantum, et de coetero ultra di dette mezzane non si possa far Parco di novo in detto Territorio”. Inoltre, nella sua relazione, Giuseppe Trinchiarello, agente distrettuale dei demani (mandato a Fasano, Locorotondo, e Cisternino nel 1809 per fare un’inchiesta sulla natura dei demani), dopo aver consultato le carte esistenti a Monopoli che riguardavano questa vendita storica, scrive: “e quindi perché varj possessori di mas­serie aveano cinto di pareti molte estenzioni di terre di tal natura a danno dei diritti demaniali, esso presidente (Santacroce) le fè diroccare, assegnando dieci tomola di chiuso ad uso di mezzana da contenere animali da pascolo per ogni novanta di terre aperte”. Per il Settecento, però, se si considera la proporzione delle mezzane sul totale del terreno demaniali più quello mezza­no fra tutta la popolazione, si trova che è uguale al 34 per cento.

Questa proprozione rimane abbastanza consistente fra le categorie dei braccianti (37,5), i massari (35,6), ed i sacerdoti (35,6).

A metà Settecento, invece, una grande quantità di mezzane registrate a Locorotondo nè si associava esplicitamente alle masserie nel senso convenzio­nale di grande o media proprietà nè si associava molto bene al possesso di buoi aratori. I braccianti di Locorotondo, per esempio, possedevano un totale di 364 stoppelli di mezzane. In media ogni fuoco capeggiato da un brac­ciante possedeva 1,5 stoppelli di terra mezzana ed il numero di animali tenuti dai fuochi di questa categoria era bassissimo, mentre i buoi aratori erano completamente assenti. I massari possedevano collettivamente 1966 stoppelli di terra mezzana.

Massafra suggerisce che la categoria “mezzana” rappresentava terra a pa­scolo riservata all’uso del proprietario durante i mesi invernali (da San Michele a metà maggio) e che tornava di uso pubblico durante i mesi estivi. Cioè sarebbe stato un tipo di territorio parzialmente aperto che

veniva trattato come proprietà privata che si poteva vendere, affittare, o cedere in enfiteusi.

Da un’analisi statistica delle relazioni fra il possesso degli animali e la terra mezzana si deve concludere che nel Settecento per la totalita’ dei fuochi le mezzane non erano semplicemente utilizzate come pascoli, almeno per gli animali dei proprietari. Naturalmente, ciò non esclude la possibilità che venivano affittate ad altri, anche a pastori forestieri, durante il periodo invernale. Probabilmente erano anche seminate e non è raro fra gli atti notarili trovare la designazione “mezzano seminatorio”. Fra i 158 massari, invece, c’è una maggior associazione statistica fra il possesso delle terre mezzane e l’allevamento degli animali caprini ed ovini.

Inoltre, abbiamo visto dai documenti citati sopra che le mezzane definite nel Cinquecento erano chiuse. La denominazione “chiusura menzana” ricorre con frequenza fra gli atti notarili (non appare mai nel catasto). Infatti, secondo il catasto, le mezzane rendevano tanto quanto le “chiusure”, ad un livello, cioè, pari a undici grana allo stoppello. Purtroppo, non avendo altra documentazione a disposizione, si deve accettare una serie di possibilità inconcluse invece di una definizione concreta dell’uso delle mezzane. Si tratta di un periodo di mutamento e di privatizzazione delle terre aperte, e la destinazione delle terre demaniali e delle mezzane probabilmente rifletteva questo mutamento. Penso, però, che l’evidenza indichi che le mezzane erano, nella maggior parte dei casi, una specie di pascolo recintato, ma possibilmente aperto durante l’estate.

La quantità totale di terra denominata “demaniale” ricavabile dal catasto è di 8067,64 stoppelli, oppure il 18 per cento circa del totale della proprietà fondiaria. Il quarantaquattro per cento della terra demaniale apparteneva ai fuochi dei massari che, in media, ne possedevano 22,54 stoppelli. I sacerdoti seguivano come classe di possessori di territorio demaniale con 2.287 stoppelli, ossia con una media di 67 stoppelli ognuno. Gli enti religiosi invece ne avevano pochissimo. Fra le sette famiglie di quelli che vivevano “nobilmente” ne esistevano 980 stoppelli, assicurandone al fuoco tipico una media di 140. Neppure mancava il demaniale ai braccianti che tenevano in un fuoco tipico 2,48 stoppelli. Questa classe di proprietà fondiaria, insomma, era distribuita fra diversi tipi di azienda agraria della zona, anche se il 74 per cento del numero assoluto dei fuochi non ne aveva.

Nella zona di Locorotondo, a quanto pare, tutto il demanio comunale era in mani private a metà Settecento. Non c’è nel catasto la minima indicazione di terra demaniale communale non in possesso dei singoli fuochi. Le terre del Barone (Parco del Vaglio, Parco del Locofetido, e qualche altro fondo), che misuravano 406 tomoli, erano chiuse ed affittate a massari o date in enfi­teusi; non esisteva demanio feudale a Locorotondo. Infatti, nel sovracitato rapporto del 1809 sui demani troviamo che quelli di Locorotondo venivano considerati “demani appadronati, sol perché gli usi civici si esercitano dopo tagliate le biade”. Trinchiarello giunse alla conclusione che, essendo tutti in mani private i demani di Locorotondo, non era il caso di dividerli.

Da una lettura dell’opera di Villari sui catasti oncìari di Brienza, Atena, Sasso e Pietrafesa, s’impara che la sistemazione del territorio demaniale poteva variare anche fra comuni limitrofi. Senza la buona documentazione dei dibattiti e delle decisioni dei parlamenti comunali di cui godeva Villari è pericolosissimo inferire la natura della sistemazione del demaniale a Locorotondo, ma è chiaro che si tratta di una specie di concessione in perpetuum che permetteva l’alienazione libera, perchè nel catasto si legge di pezzi di terra demaniale che furono comprati da un altro individuo e ci sono contratti di vendita e molto raramente di enfiteusi che parlano specificamente del demaniale. Non ci sono, inoltre, indicazioni di canoni o affitti da pagare al comune rispetto alla terra demaniale nè nel catasto né fra gli atti notarili (tranne che, naturalmente, le terre denominate demaniali che giacevano nei territori degli enti ecclesiastici che esigevano la quindecima o la decima).

Le consuetudini dell’uso del territorio demaniale non sono chiare nè dal catasto nè dagli atti notarili. Dall’analisi statistica fatta per portare luce alla definizione del mezzano si vede che c’è un’associazione debole fra il possesso del demaniale ed il possesso degli animali, specialmente i buoi aratori. Confrontando il reddito imponibile medio ricavato da uno stoppello di mezzana con uno stoppello di demaniale ci si rende conto che quello rendeva più di due volte questo e che le terre denominate demaniali producevano rendite basse rispetto a tutti i tipi di proprietà fondiaria. Penso che, nella maggior parte dei casi, i demani fossero pascoli aperti e non recintati.

 

 

Chiusura e terra serrata

 

La definizione delle categorie di “chiusura” e “serrata” presenta, come quella delle altre categorie, delle difficoltà. Ovviamente si tratta di campi recintati da pareti a secco, e perciò non di fondi aperti. Ogni tanto nel catasto si trova la designazione “seminatoria serrata” che indica che le serrate erano almeno qualche vita destinate alla coltivazione cerealicola. (È anche da nota­re che negli atti notarili non manca la designazione parallela di “chiusura seminativa”). I frutteti estesi sono tuttora rari nella zona di Locorotondo (a differenza delle zone limitrofe verso il settentrione); la coltivazione della frutta si limita ad alcuni alberi sparpagliati tra i fondi di un’azienda agraria. Dagli atti notarili si ha la stessa impressione per il paesaggio agricolo del Settecento.

Naturalmente, anche avendo solamente alcuni alberi, sarebbe stato vantaggioso coltivarli nella situazione più sicura del fondo recintato. Era forse questa sicurezza che dava ai terreni serrati ed alle chiusure la rendita elevata di 11 grana allo stoppello rispetto alla media di 9 grana per tutti i tipi di proprietà. La distinzione fra la chiusura e la serrata continua ad essere elusiva, e rimane la possibilità che fossero, nei concetti di quelli che rogarono il documento e gli atti notarili locali, sinonimi. Per esempio, in un atto di affitto della Masseria Sei Caselle registrato presso la Corte Baronale nel 1804, troviamo il patto seguente: “che tutto il bestiame che pascolerà nella suddetta masseria tanto per l’uso del suddetto e quanto di fida lo debba chiudere e serrare nell’ istessa"

Suggerisco anche l’ipotesi che le due parole non riflettessero tanto differenze di coltivazione quanto differenze relative alla natura delle pareti che circondavano il fondo stesso. Osservabili nella campagna di Locorotondo e dei paesi vicini sono due tipi di pareti, una bassa e più frequente e l’altra più alta di un uomo, e in alto fornita di alcuni fili di pietra sporgenti denominati u paraken che serviva a escludere gli animali nocivi come i lupi, e naturalmente gli uomini, rendendo difficile la salita. L’ultimo tipo di parete si associa nel passaggio rurale recente alle masserie dei benestanti e circonda il vigneto, o il frutteto. Si tratta di uno spazio che si può serrare veramente con un cancello o una porta e una serratura, mentre i fondi recintati da muri a secco bassi vengono chiusi con un semplice cancello a legno, o più spesso con alcuni rami grossi, per impedire il movimento di animali domestici.

Questo tipo di proprietà era registrata fra solamente il 15,9 per cento dei fuochi e raggiungeva 1’8,13 per cento della superficie totale della proprietà registrata. La più grande porzione dei 3613,5 stoppelli era registrata ai fuochi dei sacerdoti e uguagliava il 36,4 per cento. Dopo venivano i massari con 24,1 per cento e gli agrari benestanti con 14,8 per cento. Di questa categoria fondiaria i braccianti ne possedevano poco, in quanto la loro porzione raggiungeva solamente il 2,3 per cento.

C’è dunque un’associazione fra il possesso della serrata e della chiusura e il maggior controllo del capitale, e, infatti, la recinzione di un fondo doveva rappresentare un investimento iniziale considerevole e, dopo, una spesa costante, poichè le pareti a secco tipiche della zona dovevano richiedere la ma­nutenzione frequente. L’alta concentrazione di chiusura e di serrata fra i ceti che non lavoravano nei campi creava il bisogno che soddisfavano i due “paretari” di Locorotondo. Probabilmente, com’è il caso attualmente, i massari e gli altri della campagna che possedevano i fondi recintati si dedicavano alla costruzione e alla manutenzione di essi. Diversi sarebbero stati i vantaggi di aver recintato il fondo, fra i quali: il controllo dell’accesso di persone o di animali allo spazio recintato, la limitazione del movimento degli animali messi al chiuso, la prevenzione dello spreco di suolo a causa dell’ erosione nei fondi situati in pendio sulle colline.

Le altre categorie di terra

La maggior parte delle terre censite nell’onciario sono registrate o con la disignazione “terra” o raramente con una designazione generica come “chiascia”, “palude” o “seminativo”. Questa categoria residuale è pari al 59,11 per cento del totale e valeva, in media, 9 grana a stoppello. Ovviamente, non si possono sapere con precisione gli usi di questa categoria residuale di proprietà fondiaria, ma nell’analisi statistica accennata sopra si nota la sua mancanza di associazione al possesso degli animali di proprietà del fuoco. Si tratta principalmente di seminativi, ma anche di piccoli orti, di boschi e di macchiosi (denominazione irregolarmente trovata nel catasto).

Spesso s’incontra la parola “masseria” nel catasto, ma il significato varia da un’azienda di una ventina di tomoli, a un tenimento di tipo latifondistico di centinaia di tomoli. Le aziende che sono specificamente designate “masserie” nel catasto hanno un’estensione totale di 1.445 tomoli. (Però, in alcuni casi le masserie erano censite senza specificare le loro estensioni; quindi questo totale è basso rispetto alla realtà). Di questa estensione circa l’88 per cento è concentrato nelle mani dei ceti benestanti ecclesiastici, professionali e “nobili viventi”, e fra le proprietà degli ecclesiastici. La porzione rimanente è registrata come proprietà dei massari e dei pastori. Chiaramente, la parola “masseria” ha nel Settecento un’accezione pressapoco uguale a quella più recente, e cioè si tratta delle grandi e medie aziende agrarie delle élites, le aziende dei massari essendo solo raramente denominate “masserie”.

Un masseria era considerata composta di fondi delle diverse categorie già accennate, con un “appoggio” consistente in vari trulli, fra cui il tipo a cono troncato che serviva come pagliaio, diversi magazzini e stalle, e forse un’abitazione per il massaro. La masseria più grande e signorile conteneva anche la “lamia”, ossia la casa colonica del proprietario benestante che serviva come residenza estiva, e che aveva sotto le lamie - le volte - dei magazzini vasti. C’erano generalmente anche dei pozzi, un palmento e un’aia.

Gli animali

Il  catasto dà indicazioni dei bovini, equini, ovini e caprini, ma non dei maiali e denli animali nel cortile. (Si veda la tabella 4). Indicazioni della pre­senza di questi si hanno però dagli atti notarili. Che i braccianti di Locorotondo non possedessero animali soggetti all’imposta catastale suggerisce una mancanza di sufficiente pascolo aperto. Per i 244 fuochi dei braccianti si hanno solo 10 mucche, 2 cavalli e 14 asini. I buoi erano completamente assenti, fatto che spiega, forse, la specializzazione bracciantile nella viticoltura che non richiedeva la trazione animale. I 22 vaticali tenevano 21 cavalli e 2 asini. Invece, i massari e i sacerdoti erano allevatori di bestiame; lo stragran­de numero di animali e la maggior quantità di rendita imponibile erano concentrati nelle loro aziende agricole. I 49 sacerdoti erano allevatori di ovini e caprini specialmente “a metà” o “a moneta”, e cioè in una relazione di soccida. Fra le due categorie i sacerdoti allevavano una media di 10,78 animali per ogni azienda, mentre la media per i massari era di 1,67 animali.

Ci sono anche indicazioni fra gli atti notarili di affitti di ereeei di ovini e di caprini con la corrispondenza di un canone annuale. Il fatto che i sacerdoti vivessero di rendita spiega la loro preferenza per la soccida, invece dell’allevamento diretto. Diffondeva il rischio e dava maggior responsabilità al socio.

In conclusione, molti elementi tipici del passaggio e dell’economia di questo secolo erano presenti durante il Settecento, almeno in forma incipiente. Dalle torri del centro si vedeva qualche jazzeile e un trullo isolato, ma anche spazi vuoti d’abitazioni molto più vasti di quanto si veda ora. L’impressione di una campagna affollata di case che colpisce il turista di oggi non era ancora appariscente. I jazzèlere grandi probabilmente non erano più frequenti delle masserie, almeno ventitrè delle quali si possono localizzare sulla mappa del 1756. Queste erano circondate da zone estese di pascoli e seminativi. Fondi recintati erano isolati nel paesaggio e c’erano più pascoli aperti e più ani­mali di oggi visibili a chi godeva il panorama. La fitta rete murale tipica della Murgia dei Trulli esisteva in certe zone come San Marco, dove la viticoltura era particolarmente sviluppata, ma non dappertutto. Le strade si irradiavano dal paese verso le masserie, i piccoli centri rurali ed i paesi limitrofi, ma la maggior parte di esse erano strette e limitate per chi voleva passare a piedi o montando un cavallo o un asino. Siccome la maggioranza dei contadini non dimorava in campagna, sulle strade vicino alle mura del paese c’era un continuo andirivieni, specialmente all’alba e al tramonto. Chi vagabondava in campagna incontrava macchie di coltivazione intensa di viti, spesso ad una distanza notevole dal paese e associate a grappoli di trulli, di cui alcuni mostravano segni di essere abitati continuamente.

occupazione o denominazione dei capifamiglia categorie animali
A           B            C          D            E          F            G            H              I           J               K
vedove 12 6 0 0 6 0 3 0 0 0 6,58
braccianti 3 7 0 0 0 0 2 0 14 0 4,03
massari 192 97 53 211 120 48 74 27 13 7 151,90
pastori 6 1 309 20 7 0 2 0 2 0 9,34
operai rurali 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0
artigiani rurali 0 1 0 0 0 0 0 1 0 0 0,18
vaticali 0 2 0 0 0 0 21 0 2 0 8,50
artigiani paesani 4 3 0 0 9 0 13 0 2 0 10,96
mercanti 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0
bizoche 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0
professionali 6 2 0 0 2 2 0 0 1 1 2,65
sacerdoti 44 73 62 466 53 35 28 13 1 2 76,14
viventi civilmente 22 0 0 94 10 0 8 0 0 0 18,59
enti ecclesiastici 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0
altri 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0
TOTALI 289 192 424 791 207 85 151 41 35 10 288,87
TABELLA 4. Animali e valore imponibile in ducati di animali secondo le classi aggregate di denominazione e occupazione dei capifamiglia nel catasto onciario 1749. Categorie di animali come seguono: A = mucche; B = mucche allevate a meta' ; C = ovini e caprini; D = ovini e caprini allevati a meta'; E = buoi; F = buoi allevati a meta'; I = asini ;   J = asini allevati a meta'; K = valore imponibile in ducati.