LOCOROTONDO A METÀ SETTECENTO:
I. POPOLAZIONE ED ECONOMIA
tratto da : "Locorotondo" n°2, luglio 1987, stampa Arti Grafiche Pugliesi di Anthony
H. Galt Professore
di Social Change and Development University
of Wisconsin - Green Bay Premessa In
questo articolo ed in un altro che seguirà presento alcuni dei
risultati del mio studio sul catasto onciario di Locorotondo.
L’argomento del presente articolo è il profilo demografico ed
economico di Locorotondo a metà Settecento. Nell’articolo che verrà
pubblicato in un secondo momento descriverò la struttura sociale. Cerco
di presentare i risultati in un modo accessibile al lettore non
specializzato e perciò ho evitato la tentazione di accludere nel testo
le analisi statistiche dalle quali alcune delle mie conclusioni
derivano. Questa
decisione è pericolosa perchè oscura i miei metodi, ma per una
pubblicazione di storia locale ritengo più importante la comunicazione
delle conclusioni, ancora inedite, che le discussioni di metodologia.
Mando il lettore che ha una certa conoscenza della statistica a
un’altra mia pubblicazione. Il
catasto onciario è una delle fonti più importanti per approfondire la
nostra comprensione del Settecento meridionale. La compilazione del
catasto onciario fu ordinata da Carlo di Borbone nel 1741 come tentativo
di una riforma fiscale. Negli anni successivi un catasto onciario fu
formato in ogni paese del Regno; quello di Locorotondo risale al 1749.
Il documento consiste di un elenco di tutti i “fuochi” del paese con
indicazioni di nomi, età e occupazioni dei familiari e delle tasse che
spettava loro pagare. Segue un elenco delle proprietà appartenenti al
“fuoco” e le indicazioni dì altre fonti di reddito come i
“capitali”, affitti di case, o canoni enfitutici. Ci sono anche le
indicazioni dei debiti dovuti ad altri. L’ onciazio da quindi il
profilo demografico ed economico di ogni famiglia residente
o possidente a Locorotondo a meta’ settecento. Manca,
però, quello del feudatario al quale non spettava pagare le tasse. La copia del catasto onciario di Locorotondo analizzata è quella conservata all’Archivio di Stato di Bari, però ho consultato anche la copia conservata all’Archivio di Stato di Napoli. La prima è, in un certo senso, più interessante della seconda perchè, essendo stata conservata presso il municipio di Locorotondo, contiene delle modifiche che sono chiaramente distinguibili dalla stesura originale. Nelle elaborazioni statistiche che seguono, però, ho preso in considerazione solamente la prima stesura come rappresentante della popolazione nell’anno di compilazione. Il catasto onciario di Locorotondo presenta poche difficoltà di lettura. L’ortografia è chiarissima e le due copie sono ben conservate. Invece ci sono molte difficoltà d’interpretazione e in numerosi casi i dati ivi trascritti non risultano precisi. Per esempio l’età degli ecclesiastici (tranne che per uno di essi) non fu registrata perchè non spettava loro pagare il testatico o l’industria. È anche probabile che manchino le registrazioni di un numero non facilmente determinabile di bambini piccoli. Manca spesso l’età dei maschi solitari che componevano i fuochi, specialmente se erano braccianti nullatenenti. Naturalmente, queste lacune complicano l’analisi della struttura della famiglia e delle vicende demografiche. Inizialmente,
ho consultato il catasto con la speranza di poter scoprire le origini
del modello d’insediamento tipico della zona di Locorotondo, e cioè
dello sparpagliamento della popolazione in campagna. Speravo
di poter stabilire tramite il catasto se già esisteva nel Settecento
una popolazione contadina sparsà in campagna e qual era la sua
percentuale sul totale. Purtroppo nè nelle due copie consultate, nè
nelle rivele per il catasto conservate a Napoli, c’è la minima
indicazione dei luoghi di domicìlio dei “fuochi” registrati, come
ci dovrebbe essere secondo le istruzioni date per la loro compilazione.
C’è solamente l’indicazione che la famiglia “abita in casa
propria” o che, e da chi, affitta la casa. Perciò il catasto di
Locorotondo non permette di localizzare con precisione il luogo di
domicilio delle famiglie censite. Anche
i dati sulle proprietà registrate presentano molte difficoltà di
interpretazione.
Le rivele erano dichiarazioni fatte dai capi di famiglia e non i
risultati di osservazioni e misurazioni controllate e le possibilità e
le probabilità di errori e di frode sono enormi. La sola speranza di
un’analisi attendibile si ha nel fatto che ci sono oltre 600
“fuochi” nella popolazione statistica e che gli errori tendono a
cancellarsi. Il valore dei risultati statistici è da trovare non nella
precisione di misurazione di variabili, come, per esempio,
l’estensione totale assoluta dei vigneti, ma nel confronto,
all’interno alla popolazione dei “fuochi”, di quantità relative.
Così si può riconoscere più attendibìlità alle percentuali relative
dei diversi tipi di proprietà fondiaria che all’estensione totale
di esse. Oltre
al catasto conciario ho consultato altri documenti del settecento.
Questo sono soprattutto gli atti notarili del periodo: i contratti di
vendita, di prestito e di affitto, alcuni atti pubblici, i contratti di
matrimonio. L’informazione ricavata da queste fonti è da considerare
supplementare ed illustrativa rispetto alle analisi fatte sul catasto.
È stata molto utile anche la mappa conservata a Locorotondo che risale,
nella sua stesura originale (ora persa), all’anno 1756, cioè proprio
al periodo che ci interessai. Un’altra serie di piante e una perizia
non risalgono al periodo del catasto, ma indicano le terre possedute
nell’agro di Locorotondo a fine secolo dal suo feudatario, che era
anche Duca di Mattina Franca. Si
può supporre che l’estensione della proprietà del feudatario di
Locorotondo non sia cambiata dì molto durante la seconda metà del
secolo e si devono accettare queste mappe e la perizia che le accompagna
come le sole fonti che danno indicazioni precise dell’estensione e
della natura della proprietà baronale. I.
Cenni sulla popolazione Nell’anno 1749 la popolazione di Locorotondo contava un po’ meno di 2.200 anime. Dal totale dei fuochi (635) si devono sottrarre gli enti ecclesiastici che erano otto, il menage del Duca di Mattina Franca, che non risiedeva a Locorotondo, e quattro ditte non residenti. Così la media per fuoco era di 3,51 persone. Dalle numerazioni dei fuochi si costata che nell’anno 1669 il numero
di fuochi a Locorotondo era 342 (diminuito da 400 nel 1648) ed applicando
la media di persone residenti per un fuoco ricavato dal catasto
settecentesco si può stimare una popolazione di 1.200. Dal Censimento
Murattiano apprendiamo che il totale della popolazione nel 1815 era di
4.576 abitanti. Si può concludere che la popolazione di Locorotondo,
come quella del resto della Terra di Bari durante il Settecento, era in
piena fase di espansione. Senza
dubbio si deve considerare il numero di anime ricavabile dal catasto
come approssimativo, data la probabile tendenza a non registrare i
bambini piccoli. Questa tendenza si vede nella rappresentazione grafica
- oppure piramide delle classi della popolazione per sesso e per eta'
(figura 1) - in cui si nota una certa ristrettezza delle colonne che
rappresentano le eta' fra 0 e 10 anni . La percentuale dei maschi
e' 49,51 e quella delle femmine e' 50,49. Sulla popolazione totale ci
sono 146 persone per le quali l' eta' non e' registrata e in questo
gruppo ci sono 146 1,7 maschi per ogni femmina. Nella popolazione
rappresentata nella piramide l' eta' media dei maschi e' di 26,37 e
delle femmine di anni 26,6. La popolazione è perciò giovane. La
rappresentazione grafica ha la forma triangolare tipica di una
situazione ne demografica in cui le condizioni sanitarie sono primitive
e paragonabili a quelle odierne del terzo mondo. La
densità di popolazione nel territorio di Locorotondo non si può facilmente
stimare perché non si ha un’idea certa di come fosse distribuita la
popolazione registrata nel documento rispetto ai confini del comune. Si
sa dai toponimi citati nel catasto onciario, però, che i residenti di
Loeorotondo possedevano fondi in una zona approssimativamente uguale
all’estensione del territorio comunale moderno che si può considerare
come il territorio defacto se non dejure dei Locorotondesi
in quel periodo. Utilizzando i dati relativi alla superficie moderna del
comune (47,5 chilometri quadrati), si calcola una densità di 44,2 anime
al chilometro quadrato. Dalle
fonti settecentesche non si sa che pochissimo della distribuzione
spaziale della popolazione. (La prima indicazione della percentuale
della popolazione residente in campagna viene dal censimento Murattiano
che risale al 1811. Si può calcolare che quasi il 37 per cento abitava,
in quell’epoca, fuori le mura e nei nuovi borghi del paese. E' chiaro
che almeno una parte della popolazione contadina
risiedeva in campagna permanentemente già alla metà del Settecento,
anche se non è possibile calcolare in quale percentuale. Certo è che
una parte dei contadini che risiedevano in campagna erano massari che
conducevano le masserie appartenenti ai benestanti del paese e che
abitavano nelle case coloniche, probabilmente a trullo, inserite nelle
masserie. Ma se si osserva la distribuzione delle vigne nelle campagne
di Locorotondo attraverso le indicazioni di toponimi nel catasto, si
ricava che il modello tipico dell’Italia meridionale in cui le vigne
si concentrano in una zona che circonda il paese non è affatto la
situazione locorotondese. Si trovano, invece, concentrazioni di vigne a
una certa distanza dal centro, particolarmente verso il nord, nella zona
di San Marco e vicino alle strade che andavano verso Fasano. Una grande
porzione di queste vigne era in mano di piccoli proprietari e la
distanza di esse dal centro suggerisce un quadro che comincia a
presentarsi simile a quello più recente, nel quale i contadini dimorano
nella campagna.
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FIG: 1. Piramide della popolazione a Locorotondo nel 1749 sulla base del catasto onciario. |
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Altre
indicazioni di questo modello d’insediamento si possono leggere negli
atti notarili dove si trovano alcune descrizioni di luoghi che ora si
devono riconoscere come raggruppamenti di trulli abitati, oppure jazzèlere.
Per esempio, in un atto pubblico relativo alla Masseria Serrapizzuto
(ora Aprile) nella zona a sud-est del territorio, si legge che tre
uomini “adetti a coltivare la campagna... furono chiamati da campagna
dove dimoravano". Uno
di questi era Oronzo di Francesco Nardelli che abitava vicino alla
masseria. In quella zona, proprio vicino alla masseria si trova un jazzeile
chiamato Ronziello o Ronzielli. Sulla mappa settecentesca si trova
un’indicazione in quel luogo delle “caselle di Oronzo Nardelli”.
La parola italiana “casella” presenta sempre delle difficoltà
d’interpretazione, perché può essere l’italianizzazione di due
parole dialettali: casidde, che significa appoggio per il lavoro,
e a casèdde, che significa abitazione rurale. Quindi non si può
concludere che l’uso della parola “casella” in un documento
significa automaticamente l’abitazione in campagna; ma in questo caso
abbiamo un’indicazione “indipendente” che proviene dall’atto
notarile, la quale fa capire che Oronzo Nardelli dimorava in campagna.
Perciò si può inferire che il jazzeile già esisteva almeno in
forma larvale attorno a metà secolo. Un
altro atto notarile, rogato nel 1725, dà la descrizione di un jazzeile
a San Marco; con un buon indice di sicurezza si può affermare che
tale jazzeile era abitato”. In questo caso un uomo divideva la
sua proprietà fra due figlie nubili. Una figlia eredita dei terreni,
fra cui due quartieri di vigne, “con una casella la nuova dove sta il
letto in detto luogo di San Marco, et la metà della casella del fuoco,
la metà del frutto delle fiche che stanno sopra le caselle, et metà
dell’olivo che stà manzi le caselle, la quarta parte del pozzo, che
stà dentro il Chiazzile commune, et manzi le caselle”. In più riceve
“la metà del bascio” che stà in paese. L’altra sorella eredita
la sua porzione di terreni, vigne comprese, “come anco una casella la
grande dove stà l’argata da tessere, una con la medesima argata, la
metà della casella del fuoco” con diritti sul pozzo, chiazzile, ed
alberi sovracitati e l’altra metà del “bascio” in paese. Così si
vede la divisione di un’abitazione, e cioè di una casédde, che
contiene un letto, un telaio, ed un focolare (nella “casella del
fuoco”). In questo caso la parola “casella” significa stanza
coperta a trullo, un grappolo delle quali formano una casa rurale. C’è
anche l’indicazione che oltre all’abitazione descritta nell’atto
ce ne possono essere altre, perché ogni sorella ha una quarta porzione
del pozzo nel “chiazzile”. Questo fatto fa pensare che due altri
parenti con le porzioni loro ci abitavano. Per
di più si legge nel documento di un basso in paese. Sarebbe potuto
essere che mantenevano un’abitazione minima nel centro come comodità
per i giorni festivi, come facevano alcuni dei contadini di questo
secolo che utilizzavano il basso in paese per cambiare i vestiti o per
pernottare se gli affari in paese richiedevano più del tempo di una
sola giornata. Testimonianza di questa usanza si trova in un altro atto
del 1725, una divisione di proprietà in cui si legge “che si
possono servire di detto bascio di casa per necessità d’infirmità,
et per bisogno di quando vengono a sentire la messa nelli giorni di fèsta,
et non altrimenti” In un altro atto del 1725 si trova l’indicazione di uno dei problemi connessi all’abitare unjazzeile. I jazzèlere della campagna di Locorotondo hanno una certa notorietà per le liti che nascono dalle differenze di opinione riguardo all’uso comune degli spazi, dei pozzi ed, anticamente, dell’aia e dei palmenti per la lavorazione dell’uva. Il controllo degli animali rispetto allo spazio tenuto in comune era un problema perenne. Nell’atto si legge di un padre, che fa il suo testamento preoccupandosi delle liti che teme possano nascere fra i suoi eredi nel jazzeile che divide e che nota specificamente: “se detti eredi volessero allevarsi animali porcini, che ogni uno li debba tenere sopra la porzione propria”’. Si possono immaginare le difficoltà che sarebbero sorte da una situazione in cui i maiali errassero liberamente nel jazzeile, o nei giardini adiacenti. Per di più sarebbe stato difficile allevare i maiali in un jazzeile in campagna e poi ritirarsi in paese di notte, lasciando gli animali in balia di ladri; perciò si deve pensare che gli eredi dimoravano in campagna.
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TABELLA 1. Occupazioni o denominazioni dei capifamiglia residenti ( Classi aggregate fra parentesi come segue. V=vedove ; B= braccianti; p= pastori; OR= operaio rurale; APR= artigiano rurale; VA= vaticale; BZ= bizoca; PR= professsionale; S= sacerdote; VC= vive civilmente; AL= altro. queste classi sono aplicate alle tabelle 3 e 4 . |
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E chiaro dalle fonti, pero', che il distacco totale della popolazione contadina di Loeorotondo dal centro storico che si nota attraverso le fonti pubblicate, e sul quale insistono gli informatori contadini, non era ancora sviluppato nel Settecento. Questo si desume da numerosi contratti di matrimonio conservati fra gli atti notarili. La donna, che ovviamente si sposa con un contadino, riceve in dote un’abitazione in paese, e l’uomo, se è segnalato, riceve della terra e gli attrezzi del lavoro, ma raramente una “casella”. Si vede anche dal censimento del 1811 che molti “coltivatori’’ abitavano in paese anche se, sessant’anni dopo la formazione del catasto onciario, una percentuale sostanziale di essi già abitava in campagna. Insomma, riguardo al modello
di insediamento a Locorotondo a metà Settecento è da concludere che il
distacco fra paese e campagna, tipico della zona, era già iniziato, ma
non aveva raggiunto il livello che comincia a essere chiaro dalle fonti
ottocentesche. |
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lI.
Cenni sull’economia e la struttura agricola Occupazioni Nel
Catasto Onciario non c’è indicazione dello sviluppo di una specialità
artigianale a Locorotondo. A differenza della situazione
economica a Martina Franca, dove c’era una specializzazione
artigianale nella lavorazione del cuoio che si associava all’economia
pastorizia del paese, gli artigiani registrati rendevano servizi per
soddisfare i bisogni della popolazione locale. (Sì veda la Tabella 1).
La categoria artigianale più numerosa era quella dei calzolai e fra i
capifamiglia sedici uomini seguivano questo mestiere. Cinque erano
sarti. Gli altri artigiani facevano o riparavano gli attrezzi -
carpentieri, ferrai - o costruivano edifici. E interessante notare che
nel Settecento esisteva la distinzione, che si nota ancora, fra il
“muratore”, che costruiva le case di paese, ed il caseddère, o
“casellaro”, che costruiva i trulli. Sì nota anche la presenza deI
“paretaro” che costruiva li muri a secco in campagna. Un’altra
categoria di artigiani che appartiene al modello locorotondese
dell’agricoltura era lo “zoccatore di pietra”, ossia quello che,
adoperando u zucchétte, bucava e rompeva gli strati di pietra
per scavare i pozzi, le cisterne e le cantine delle case di campagna e
per trasformare i campi da superfici rocciose di poca utilità in
vigneti. Ne appaiono cinque nel catasto. Oltre a questi fuochi con capìfamiglia
artigiani e quelli dei più benestanti (sacerdoti, nobili viventi,
professionisti), la stragrande maggioranza dei fuochi o erano di massari
(158) o di braccianti (244). La
proprietà fondiaria e il paesaggio agricolo La
base economica della società locorotondese settecentesca era
l’agricoltura e quindi per la comprensione del periodo bisogna
studiare la distribuzione della fonte di ricchezza, la terra, e fare
una ricostruzione fin quanto possibile della natura del paesaggio
agrario. Il coefficiente Gini è una misura statistica che mostra la
distribuzione della ricchezza. Per Locorotondo il coefficiente per la
terra è pari a 0,81, e si nota che la distribuzione della ricchezza era
piuttosto ineguale. Bisogna
notare, però, che 1’ 82,36 per cento dei fuochi avevano delle
proprietà. La massa della proprietà era concentrata nelle mani del
feudatario, degli ecclesiastici, dei possidenti “borghesi”, ma la
maggior parte degli altri fuochi di Locorotondo possedevano almeno un
fazzoletto di terra, spesso piantato a vigna. Le
categorie di terre che possono essere distinte nel catasto sono
“vigneto”, “demaniale”, “mezzana” e ‘chiusura e serrata”
che insieme comprendono il 41 per cento del totale delle proprietà (si
vedano le tabelle 2 e 3). Da una lettura della fonte e degli atti
notarili, sembra che siano categorie che nella maggior parte dei casi si
escludono mutualmente. A differenza dei catasti di altri paesi, né la
copia del catasto di Locorotondo conservata a Napoli né la copia
analizzata presentano delle descrizioni precise e consistenti della
destinazione colturale dei campi. Ci sono altre categorie, come
“masseria”, “vignale” e “seminatorio”, per esempio: ma
appaiono poco e incostantemente e perciò non hanno valore statistico
attendibile. La maggior parte delle proprietà veniva classificata
semplicemente come “terra”. Con l’eccezione dei vigneti, sembra
che i compilatori del catasto si interessassero piu’ delle categorie
giuridiche riguardanti il grado di apertura delle terre che di quelle
riguardanti la produzione. |
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FIG. 2 . Mappa del territorio di Locorotondo a meta' 70 che mostra la rete stradale ed entro lo spazio triangolare i confini stabiliti nel 500. Le cifre danno la percentuale sul totale dei vigneti dell' estensione in ogni contrada localizzabile. Questa mappa e' stata creata facendo il confronto fra la mappa topografica moderna con quella del 1756. | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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TABELLA 3. Estensioni e valori imponibili di proprieta' fondiaria secondo le occupazioni o denominazioni dei capifamiglia dei fuochi rappresentati nel catasto onciario di locorotondo, 1749. (V. tabella 1 per la composizione delle classi aggregate). I valori e redditi sono in ducati |
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I
vigneti I vigneti sono sempre registrati adoperando “il quartiero” come misura di superficie, e questa misura è, neI catasto, limitata alle vigne. Per gli scopi di questo studio ho considerato il quartiero uguale alLo stoppello, cioè pari a 0,1074 ettari. Secondo un processo verbale del decurionato di Locorotondo, che risale al 1842, un quartiero si calcolava essere un po’ più grande dello stoppello e pari a 0,1098 ettari, ma, data l’imprecisione della misurazione nelle rivele del catasto onciario, le due misure si possono considerare uguali. Secondo una perizia inserita in un contratto
d’enfiteusi del 1801, un quartiero era “un quadrato che per ogni
lato contiene venticinque viti, che compone numero seicentoventicinque
viti superficiali”. I
vigneti costituiscono il 5,18 per cento della totalità della
proprietà fondiaria registrata nel documento. Se ci si può fidare
delle cifre registrate, la proporzione dei vigneti sul totale aumentava
durante il Settecento fino a raggiungere il 16,6 per cento al periodo
del Catasto Provvisorio del decennio francese. La rendita media
imponibile di un quartiero di vigneto era di 0,32 ducati, ed è evidente
nella fonte che spesso un quartiero fu fissato a 3 carlini di rendita
come stima, senza badare molto alla qualità o alla situazione della
terra nel paesaggio. È da notare che la rendita media di un quartiero
di vigneto è pari a più di tre volte quella di uno stoppello di tutte
le altre categorie di terra. Perciò anche se i vigneti comprendevano
solamente il 5,18 per cento della proprietà registrata, producevano il
17,61 per cento della rendita fondiaria della zona e ci doveva essere,
quindi, una certa motivazione economica per “pastanare”. È anche
importante notare che quasi tre quarti dei fuochi di Locorotondo erano
proprietari di vigneti. Data la più uniforme distribuzione dei vigneti
(Gini circa uguale a 0,56) e il valore elevato di
essi, questo tipo di proprietà fondiaria mitigava un po’ la
distribuzione ineguale di terra che caratterizzava il sistema
socioeconomico
di Locorotondo a mètà Settecento. Dall’onciario
si ricava che i 244 fuochi con capofamiglia in condizione di
“bracciale” avevano in media 1,92 quartieri di vigneto ognuno. L’estensione
media di vigneto dei braccianti indicati nell’onciario quasi
certamente bastava per l’uso domestico durante l’anno e forse
permetteva alla famiglia che produceva più della media di vendere unà
porzione del prodotto. 1158 capifamiglia massari, in media, coltivavano
4,47 quartieri e producevano perciò parecchie volte la quantità
necessaria all’autoconsumo. Almeno per quanto riguarda i vigneti, i
contadini della zona, specialmente i massari - oppure i piccoli
proprietari più benestanti - erano inseriti nei mercato e chiaramente
non producevano solamente a livello di sussistenza. Questo mercato non
era necessariamente completamente monetizzato; spesso il vino serviva,
secondo Massafra, come salario in natura. Però penso che un mercato per
il vino andasse sviluppandosi in direzione della marina, dove a metà
Settecento la specializzazione nell’olivicoltura era quasi totale. Come
notato sopra, i vigneti erano distribuiti un po’ dovunque, con
l’eccezione della zona orientale del territorio, dove aveva i suoi
parchi il Barone, e della zona settentrionale, dove vi erano i parchi di
Talinajo e San Pantaleo che appartenevano al Bailaggio di Santo Stefano
di Fasano. Si nota in particolare un asse di concentrazione di vigneti
che corre tra la zona a nord-ovest del territorio e, attraversando il
paese di Locorotondo, finisce a sud-est del centro abitato, vicino al
confine con Martina Franca e agli antichi confini della Difesa di
Ficazzano, dell’Università di Ostuni. Quest’asse coincide, più o
meno, con le strade che vanno per il Canale di Pirro verso il
nord-ovest, alla pianura litorale ed ai territori di Monopoli e Fasano
(Figura 2). C’e’
la possibilità che questa distribuzione indichi la presenza del
commercio di vino fra la Murgia dei Trulli e la pianura litorale, data
la scarsa evidenza dell’esportazione per via di mare del vino, per
soddisfare il bisogno locale. È
probabile che i vigneti fossero recintati da pareti. Il diritto di
serrare i vigneti fu notato specificamente nel documento che risale alla
sistemazione nel 1566 del Regio Demanio della Città di Monopoli,
al quale apparteneva Locorotondo. I
vigneti di Locorotondo sono indicati nel catasto onciario come proprietà
piena delle persone che compongono i fuochi, e le indicazioni di
contratti ed enfiteusi (che divengono più comuni nell’Ottocento ed ai
qùali si ascrive la più larga diffusione di viticoltura nella zona
della Murgia dei Trulli) sono, a metà secolo, rarissime. La porzione
del numero totale dei quartieri dei vigneti soggetti al canone
enfiteutico sul totale dei quartieri di vigneto (2.299,45) era
pari a solamente 10,65 quartieri, oppure al 10,44 per cento. Il
proprietario che dava queste vigne in enfiteusi era il Barone.
Sfogliando i contratti fra gli atti notarili, si verifica che le istanze
di enfiteusi ad meliorandum et pastanandum erano rarissime fino
alla fine del secolo. |
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TABELLA 2. Statistiche sulle classi di proprieta' fondiaria registrate nel catasto onciario di Locorotondo 1749 |
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Quindi,
dalle fonti consultate non s’impara molto sull’origine della piccola
proprietà viticola nella zona. Masi, scrivendo dello sviluppo della
piccola proprietà nella zona dei Trulli, dice in una nota che i
“contratti enfiteutici nell’agro di Locorotondo furono dovuti alla
genovese Pellegrina Castelli”. Purtroppo, questo non risulta vero né
dal documento citato da Masi né dal testamento della Madama Pellegrini
Castelli. Se la piccola proprietà viticola era dovuta all’enfiteusi,
i contratti originali risalivano a molti decenni prima del catasto ed o
erano affrancati, o i canoni erano erosi dal tempo fino al punto di non
contare più. Così si rimane nell’oscurità per quanto riguarda gli
inizi del modello Locorotondese dello sparpagliamento o dei vigneti o
delle abitazioni in campagna. Una grande porzione dei vigneti - il 21 per cento - era caricata da decime o quindecime dovute agli enti ecclesiastici, sopratutto alla Mensa Vescovile di Monopoli (nella zona di San Màrco). Altri enti ecclesiastici che imponevano pesi erano l’Abbazia di Sant’Angelo in Grecis di Fasano, e il Capitolo di Locorotondo. Si può ipotizzare che questi pesi rappresentano tracce di antiche cessioni da parte degli enti ecclesiastici ai singoli proprietari della zona, come testimonia un brano di contratto duecentesco pubblicato da De Gennaro o come suggerisce Villari. Sappiamo dal catasto onciario che spettavano al “Reverendo Capitolo” di Locorotondo ottantasei canoni enfiteutici, nella maggior parte dei casi dovuti dagli eredi dei contraenti originali, e perciò da considerare come vecchie concessioni, forse del Seicento. Purtroppo, nella registrazione di questi affitti non era specificata la natura della proprietà data in enfiteusi e non possiamo sapere se si trattava di vigneti (com’è probabile) odi altre proprietà, come per esempio delle case. |
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Mezzane
e demaniali La
categoria “mezzana”, o, spesso, negli atti notarili “menzana”,
comprendeva il 9,42 per cento della totalità della proprietà
fondiaria e produceva quasi l’il per cento del reddito totale.
Solamente un quarto dei fuochi possedeva terreni di questo tipo. La
definizione della terra “mezzana”, però, non è facile. Secondo la
definizione più comune del periodo le mezzane dovevano essere pascoli
per gli animali da lavoro sulle masserie “di campo” e la loro
superficie avrebbe dovuto corrispondere a un quinto, più o meno, della
superficie totale. Infatti, in un contratto di vendita di una
masseria allora in territorio di Fasano (ora in territorio di Cisternino),
si legge che l’estensione totale della masseria comprendeva 100
tomoli, dei quali 80 erano terre demaniali e 20, cioè un quinto,
erano mezzane Nel
sovraccennato documento cinquecentesco, che riguardava la definizione
degli usi delle terre del Regio Demanio della Città di Monopoli, si legge
“che le mezzane si concedono secondo la quantità de’ Territorj, e
qualità delle masserie per li Bovi aratorj tantum, et de coetero
ultra di dette mezzane non si possa far Parco di novo in detto
Territorio”. Inoltre, nella sua relazione, Giuseppe Trinchiarello,
agente distrettuale dei demani (mandato a Fasano, Locorotondo, e
Cisternino nel 1809 per fare un’inchiesta sulla natura dei demani),
dopo aver consultato le carte esistenti a Monopoli che riguardavano
questa vendita storica, scrive: “e quindi perché varj possessori di
masserie aveano cinto di pareti molte estenzioni di terre di tal
natura a danno dei diritti demaniali, esso presidente (Santacroce) le fè
diroccare, assegnando dieci tomola di chiuso ad uso di mezzana da
contenere animali da pascolo per ogni novanta di terre aperte”. Per
il Settecento, però, se si considera la proporzione delle mezzane sul
totale del terreno demaniali più quello mezzano fra tutta la
popolazione, si trova che è uguale al 34 per cento. Questa
proprozione rimane abbastanza consistente fra le categorie dei
braccianti (37,5), i massari (35,6), ed i sacerdoti (35,6). A
metà Settecento, invece, una grande quantità di mezzane registrate a
Locorotondo nè si associava esplicitamente alle masserie nel senso
convenzionale di grande o media proprietà nè si associava molto bene
al possesso di buoi aratori. I braccianti di Locorotondo, per esempio,
possedevano un totale di 364 stoppelli di mezzane. In media ogni fuoco
capeggiato da un bracciante possedeva 1,5 stoppelli di terra
mezzana ed il numero di animali tenuti dai fuochi di questa categoria
era bassissimo, mentre i buoi aratori erano completamente assenti. I
massari possedevano collettivamente 1966 stoppelli di terra mezzana. Massafra suggerisce che la categoria “mezzana” rappresentava terra a pascolo riservata all’uso del proprietario durante i mesi invernali (da San Michele a metà maggio) e che tornava di uso pubblico durante i mesi estivi. Cioè sarebbe stato un tipo di territorio parzialmente aperto che veniva
trattato come proprietà privata che si poteva vendere, affittare, o
cedere in enfiteusi. Da
un’analisi statistica delle relazioni fra il possesso degli animali e
la terra mezzana si deve concludere che nel Settecento per la
totalita’ dei fuochi le mezzane non erano semplicemente utilizzate
come pascoli, almeno per gli animali dei proprietari. Naturalmente, ciò
non esclude la possibilità che venivano affittate ad altri, anche a
pastori forestieri, durante il periodo invernale. Probabilmente erano
anche seminate e non è raro fra gli atti notarili trovare la
designazione “mezzano seminatorio”. Fra i 158 massari, invece, c’è
una maggior associazione statistica fra il possesso delle terre mezzane
e l’allevamento degli animali caprini ed ovini. Inoltre,
abbiamo visto dai documenti citati sopra che le mezzane definite nel
Cinquecento erano chiuse. La denominazione “chiusura menzana”
ricorre con frequenza fra gli atti notarili (non appare mai nel
catasto). Infatti, secondo il catasto, le mezzane rendevano tanto quanto
le “chiusure”, ad un livello, cioè, pari a undici grana allo
stoppello. Purtroppo, non avendo altra documentazione a disposizione, si
deve accettare una serie di possibilità inconcluse invece di una
definizione concreta dell’uso delle mezzane. Si tratta di un periodo
di mutamento e di privatizzazione delle terre aperte, e la destinazione
delle terre demaniali e delle mezzane probabilmente rifletteva questo
mutamento. Penso, però, che l’evidenza indichi che le mezzane erano,
nella maggior parte dei casi, una specie di pascolo recintato, ma
possibilmente aperto durante l’estate. La
quantità totale di terra denominata “demaniale” ricavabile dal
catasto è di 8067,64 stoppelli, oppure il 18 per cento circa del totale
della proprietà fondiaria. Il quarantaquattro per cento della terra
demaniale apparteneva ai fuochi dei massari che, in media, ne
possedevano 22,54 stoppelli. I sacerdoti seguivano come classe di
possessori di territorio demaniale con 2.287 stoppelli, ossia con una
media di 67 stoppelli ognuno. Gli enti religiosi invece ne avevano
pochissimo. Fra le sette famiglie di quelli che vivevano
“nobilmente” ne esistevano 980 stoppelli, assicurandone al fuoco
tipico una media di 140. Neppure mancava il demaniale ai braccianti che
tenevano in un fuoco tipico 2,48 stoppelli. Questa classe di proprietà
fondiaria, insomma, era distribuita fra diversi tipi di azienda agraria
della zona, anche se il 74 per cento del numero assoluto dei fuochi non
ne aveva. Nella zona di Locorotondo, a quanto pare, tutto il demanio comunale era in mani private a metà Settecento. Non c’è nel catasto la minima indicazione di terra demaniale communale non in possesso dei singoli fuochi. Le terre del Barone (Parco del Vaglio, Parco del Locofetido, e qualche altro fondo), che misuravano 406 tomoli, erano chiuse ed affittate a massari o date in enfiteusi; non esisteva demanio feudale a Locorotondo. Infatti, nel sovracitato rapporto del 1809 sui demani troviamo che quelli di Locorotondo venivano considerati “demani appadronati, sol perché gli usi civici si esercitano dopo tagliate le biade”. Trinchiarello giunse alla conclusione che, essendo tutti in mani private i demani di Locorotondo, non era il caso di dividerli. Da
una lettura dell’opera di Villari sui catasti oncìari di Brienza,
Atena, Sasso e Pietrafesa, s’impara che la sistemazione del territorio
demaniale poteva variare anche fra comuni limitrofi. Senza la buona
documentazione dei dibattiti e delle decisioni dei parlamenti comunali
di cui godeva Villari è pericolosissimo inferire la natura della
sistemazione del demaniale a Locorotondo, ma è chiaro che si tratta di
una specie di concessione in perpetuum che permetteva
l’alienazione libera, perchè nel catasto si legge di pezzi di terra
demaniale che furono comprati da un altro individuo e ci sono contratti
di vendita e molto raramente di enfiteusi che parlano specificamente del
demaniale. Non ci sono, inoltre, indicazioni di canoni o affitti da
pagare al comune rispetto alla terra demaniale nè nel catasto né fra
gli atti notarili (tranne che, naturalmente, le terre denominate
demaniali che giacevano nei territori degli enti ecclesiastici che
esigevano la quindecima o la decima). Le
consuetudini dell’uso del territorio demaniale non sono chiare nè dal
catasto nè dagli atti notarili. Dall’analisi statistica fatta per
portare luce alla definizione del mezzano si vede che c’è
un’associazione debole fra il possesso del demaniale ed il possesso
degli animali, specialmente i buoi aratori. Confrontando il reddito
imponibile medio ricavato da uno stoppello di mezzana con uno stoppello
di demaniale ci si rende conto che quello rendeva più di due volte
questo e che le terre denominate demaniali producevano rendite basse
rispetto a tutti i tipi di proprietà fondiaria. Penso che, nella
maggior parte dei casi, i demani fossero pascoli aperti e non recintati. Chiusura
e terra serrata La
definizione delle categorie di “chiusura” e “serrata” presenta,
come quella delle altre categorie, delle difficoltà. Ovviamente si
tratta di campi recintati da pareti a secco, e perciò non di fondi
aperti. Ogni tanto nel catasto si trova la designazione “seminatoria
serrata” che indica che le serrate erano almeno qualche vita destinate
alla coltivazione cerealicola. (È anche da notare che negli atti
notarili non manca la designazione parallela di “chiusura
seminativa”). I frutteti estesi sono tuttora rari nella zona di
Locorotondo (a differenza delle zone limitrofe verso il settentrione);
la coltivazione della frutta si limita ad alcuni alberi sparpagliati tra
i fondi di un’azienda agraria. Dagli atti notarili si ha la stessa
impressione per il paesaggio agricolo del Settecento. Naturalmente,
anche avendo solamente alcuni alberi, sarebbe stato vantaggioso
coltivarli nella situazione più sicura del fondo recintato. Era forse
questa sicurezza che dava ai terreni serrati ed alle chiusure la rendita
elevata di 11 grana allo stoppello rispetto alla media di 9 grana per
tutti i tipi di proprietà. La distinzione fra la chiusura e la serrata
continua ad essere elusiva, e rimane la possibilità che fossero, nei
concetti di quelli che rogarono il documento e gli atti notarili locali,
sinonimi. Per esempio, in un atto di affitto della Masseria Sei Caselle
registrato presso la Corte Baronale nel 1804, troviamo il patto
seguente: “che tutto il bestiame che pascolerà nella suddetta
masseria tanto per l’uso del suddetto e quanto di fida lo debba chiudere
e serrare nell’ istessa" Suggerisco
anche l’ipotesi che le due parole non riflettessero tanto differenze
di coltivazione quanto differenze relative alla natura delle pareti che
circondavano il fondo stesso. Osservabili nella campagna di Locorotondo
e dei paesi vicini sono due tipi di pareti, una bassa e più frequente e
l’altra più alta di un uomo, e in alto fornita di alcuni fili di
pietra sporgenti denominati u paraken che serviva a escludere gli
animali nocivi come i lupi, e naturalmente gli uomini, rendendo
difficile la salita. L’ultimo tipo di parete si associa nel passaggio
rurale recente alle masserie dei benestanti e circonda il vigneto, o il
frutteto. Si tratta di uno spazio che si può serrare veramente con un
cancello o una porta e una serratura, mentre i fondi recintati da muri a
secco bassi vengono chiusi con un semplice cancello a legno, o più
spesso con alcuni rami grossi, per impedire il movimento di animali
domestici. Questo
tipo di proprietà era registrata fra solamente il 15,9 per cento
dei fuochi e raggiungeva 1’8,13 per cento della superficie totale
della proprietà registrata. La più grande porzione dei 3613,5
stoppelli era registrata ai fuochi dei sacerdoti e uguagliava il 36,4
per cento. Dopo venivano i massari con 24,1 per cento e gli agrari
benestanti con 14,8 per cento. Di questa categoria fondiaria i
braccianti ne possedevano poco, in quanto la loro porzione raggiungeva
solamente il 2,3 per cento. C’è dunque un’associazione fra il possesso della serrata e della chiusura e il maggior controllo del capitale, e, infatti, la recinzione di un fondo doveva rappresentare un investimento iniziale considerevole e, dopo, una spesa costante, poichè le pareti a secco tipiche della zona dovevano richiedere la manutenzione frequente. L’alta concentrazione di chiusura e di serrata fra i ceti che non lavoravano nei campi creava il bisogno che soddisfavano i due “paretari” di Locorotondo. Probabilmente, com’è il caso attualmente, i massari e gli altri della campagna che possedevano i fondi recintati si dedicavano alla costruzione e alla manutenzione di essi. Diversi sarebbero stati i vantaggi di aver recintato il fondo, fra i quali: il controllo dell’accesso di persone o di animali allo spazio recintato, la limitazione del movimento degli animali messi al chiuso, la prevenzione dello spreco di suolo a causa dell’ erosione nei fondi situati in pendio sulle colline. Le altre categorie di terra La
maggior parte delle terre censite nell’onciario sono registrate o con
la disignazione “terra” o raramente con una designazione generica
come “chiascia”, “palude” o “seminativo”. Questa categoria
residuale è pari al 59,11 per cento del totale e valeva, in media, 9
grana a stoppello. Ovviamente, non si possono sapere con precisione gli
usi di questa categoria residuale di proprietà fondiaria, ma
nell’analisi statistica accennata sopra si nota la sua mancanza di
associazione al possesso degli animali di proprietà del fuoco. Si
tratta principalmente di seminativi, ma anche di piccoli orti, di boschi
e di macchiosi (denominazione irregolarmente trovata nel catasto). Spesso
s’incontra la parola “masseria” nel catasto, ma il significato
varia da un’azienda di una ventina di tomoli, a un tenimento di tipo
latifondistico di centinaia di tomoli. Le aziende che sono
specificamente designate “masserie” nel catasto hanno
un’estensione totale di 1.445 tomoli. (Però, in alcuni casi le
masserie erano censite senza specificare le loro estensioni; quindi
questo totale è basso rispetto alla realtà). Di questa estensione
circa l’88 per cento è concentrato nelle mani dei ceti benestanti
ecclesiastici, professionali e “nobili viventi”, e fra le proprietà
degli ecclesiastici. La porzione rimanente è registrata come proprietà
dei massari e dei pastori. Chiaramente, la parola “masseria” ha nel
Settecento un’accezione pressapoco uguale a quella più recente, e cioè
si tratta delle grandi e medie aziende agrarie delle élites, le
aziende dei massari essendo solo raramente denominate
“masserie”. Un masseria era considerata composta di fondi delle diverse categorie già accennate, con un “appoggio” consistente in vari trulli, fra cui il tipo a cono troncato che serviva come pagliaio, diversi magazzini e stalle, e forse un’abitazione per il massaro. La masseria più grande e signorile conteneva anche la “lamia”, ossia la casa colonica del proprietario benestante che serviva come residenza estiva, e che aveva sotto le lamie - le volte - dei magazzini vasti. C’erano generalmente anche dei pozzi, un palmento e un’aia. Gli animali Il catasto dà indicazioni dei bovini, equini, ovini e caprini, ma
non dei maiali e denli animali nel cortile. (Si veda la tabella 4).
Indicazioni della presenza di questi si hanno però dagli atti
notarili. Che i braccianti di Locorotondo non possedessero animali
soggetti all’imposta catastale suggerisce una mancanza di sufficiente
pascolo aperto. Per i 244 fuochi dei braccianti si hanno solo 10 mucche,
2 cavalli e 14 asini. I buoi erano completamente assenti, fatto che
spiega, forse, la specializzazione bracciantile nella viticoltura che
non richiedeva la trazione animale. I 22 vaticali tenevano 21 cavalli e
2 asini. Invece, i massari e i sacerdoti erano allevatori di bestiame;
lo stragrande numero di animali e la maggior quantità di rendita
imponibile erano concentrati nelle loro aziende agricole. I 49
sacerdoti erano allevatori di ovini e caprini specialmente “a metà”
o “a moneta”, e cioè in una relazione di soccida. Fra le due
categorie i sacerdoti allevavano una media di 10,78 animali per ogni
azienda, mentre la media per i massari era di 1,67 animali. Ci
sono anche indicazioni fra gli atti notarili di affitti di ereeei di
ovini e di caprini con la corrispondenza di un canone annuale. Il fatto
che i sacerdoti vivessero di rendita spiega la loro preferenza per la
soccida, invece dell’allevamento diretto. Diffondeva il rischio e dava
maggior responsabilità al socio. In
conclusione, molti elementi tipici del passaggio e dell’economia di
questo secolo erano presenti durante il Settecento, almeno in forma
incipiente. Dalle torri del centro si vedeva qualche jazzeile e
un trullo isolato, ma anche spazi vuoti d’abitazioni molto più vasti
di quanto si veda ora. L’impressione di una campagna affollata di case
che colpisce il turista di oggi non era ancora appariscente. I jazzèlere
grandi probabilmente non erano più frequenti delle masserie, almeno
ventitrè delle quali si possono localizzare sulla mappa del 1756.
Queste erano circondate da zone estese di pascoli e seminativi. Fondi
recintati erano isolati nel paesaggio e c’erano più pascoli aperti e
più animali di oggi visibili a chi godeva il panorama. La fitta rete
murale tipica della Murgia dei Trulli esisteva in certe zone come San
Marco, dove la viticoltura era particolarmente sviluppata, ma non
dappertutto. Le strade si irradiavano dal paese verso le masserie, i
piccoli centri rurali ed i paesi limitrofi, ma la maggior parte di esse
erano strette e limitate per chi voleva passare a piedi o montando un
cavallo o un asino. Siccome la maggioranza dei contadini non dimorava in
campagna, sulle strade vicino alle mura del paese c’era un continuo
andirivieni, specialmente all’alba e al tramonto. Chi vagabondava in
campagna incontrava macchie di coltivazione intensa di viti, spesso ad
una distanza notevole dal paese e associate a grappoli di trulli, di cui
alcuni mostravano segni di essere abitati continuamente. |
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TABELLA 4. Animali e valore imponibile in ducati di animali secondo le classi aggregate di denominazione e occupazione dei capifamiglia nel catasto onciario 1749. Categorie di animali come seguono: A = mucche; B = mucche allevate a meta' ; C = ovini e caprini; D = ovini e caprini allevati a meta'; E = buoi; F = buoi allevati a meta'; I = asini ; J = asini allevati a meta'; K = valore imponibile in ducati. | ||||
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