Una domanda provocatoria cui invitiamo a rispondere: è uno stimolo ad un confronto sui temi dell'attualità geopolitica aperto a tutti.

Le risposte (di cui verrà fatta una selezione) verranno pubblicate in questa pagina.

 

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l'onu, il diritto internazionale e la nuova dottrina usa


cosa vogliono i terroristi islamici

di Giuseppe Caruselli

In importanti gruppi islamici è sorta la convinzione che l'uso del terrorismo possa rendere i popoli arabi ed altri popoli islamici padroni delle fonti di energia di cui gli occidentali non possono più fare a meno per la loro economia.Non si limiteranno quindi, come i sauditi, a incassare denaro e reinvestirlo nell'economia occidentale, ma metteranno il capestro al collo dell'occidente rendendolo totalmente dipendente dalla loro volontà.È evidente che tale scopo non può essere raggiunto né con la diplomazia né con azioni belliche tradizionali.L'11 settembre 2001 ha dimostrato la intrinseca vulnerabilità dell'occidente, che, per sua stessa natura, non può adottare una serie di provvedimenti repressivi che potrebbero in qualche modo proteggerlo.
Il vecchio sogno musulmano (sogno panturanico credo sia il termine corretto) del dominio del mondo si è messo in moto.Tale movimento esisteva alla fine dell'’800 e all'inizio del ’900 quando già l'impero turco perdeva terreno.Basta leggere il vecchio romanzo "I 40 giorni del Mussa Dagh" che in tempi non sospetti ne parlava.
Naturalmente i progetti politici dei capi di tale movimento non hanno una connessione diretta con le idee dei terroristi in senso stretto, a cui vengono proposti fini più comprensibilli e più immediati (la lotta contro Israele, la lotta contro il dominio russo, etc.) e la cui vita rappresenta il necessario prezzo mediante il quale i sopravvissuti raggiungeranno i loro scopi.
Scopi che non consistono nel dare una maggiore dignità a classi sociali che non contano oggi e non conteranno domani, ma a dare loro una inebriante sensazione di potenza all'esterno del loro mondo (anche il fascismo e il comunismo russo hanno seguito la stessa politica).


sars: solo epidemia o anche geopolitica?

di Giovanni Castellani Pastoris

Epidemia secondo lo Zingarelli - quello minore, ma spero sia sufficiente per l'occasione - è una manifestazione improvvisa di una malattia che si diffonde rapidamente fra gli individui di una stessa area. Corrisponde la SARS a questa definizione? E' certamente una malattia. Che si diffonda rapidamente, e sottolineo rapidamente, fra gli individui di una stessa area è molto meno certo. Tutto dipende dal significato che diamo all'espressione diffondersi rapidamente. La rapidità è un concetto relativo. Quando viaggio in macchina, abitualmente vado fra i 120 ed i 140 all'ora, in autostrada naturalmente. ( Non lo dite alla stradale, per favore. ) Negli USA sarebbe indubbiamente un andare rapidamente. In Germania sarebbe un procedere piuttosto lento. Analogamente, se consideriamo la rapidità e la ampiezza della diffusione del raffreddore in certe stagioni dell'anno, la diffusione della SARS, stando ai dati pubblicati sui giornali, sembra piuttosto lenta e limitata. Naturalmente la SARS è assai più grave del raffreddore. Ma la gravità non riguarda il carattere epidemico o meno del fenomeno. Diciamo quindi che la SARS è una piccola epidemia, una "epidemiucola", se così posso dire.
Molto diversamente appare dal martellamento cui giornali, televisioni, ecc. ci hanno sottoposto nell'ultimo paio di mesi, prendendo lo spunto dall'esito mortale di un certo numero di casi. Anche questi relativamente pochi, sia in assoluto che in percentuale. Ricordo che all'inizio degli anni settanta, quando occasionalmente ebbi a consultare le statistiche dell' OMO, ogni anno morivano nel mondo circa 14 milioni di persone per il morbillo. Dico 14 milioni ogni anno. Nessuno ne parlava però. Ignoro quanti ne muoiano ora, ma probabilmente sono sempre molti.
Il perché di questa drammatizzazione non è facile individuare. Probabilmente perché il nuovo fa sempre più effetto di quanto ci è famigliare. Tanto più se si tratta di un nuovo "mortale" di origine "esotica". Mi sembra la spiegazione più probabile, anche se non sono affatto disposto a scommettere sulla sua giustezza. Probabilmente è la ragione principale, alla quale se ne aggiungono altre.

Non credo, però, ad un "complotto" nei confronti dei paesi dove il nuovo male si è manifestato e diffuso, anche per indubbie manchevolezze di difesa e prevenzione. Ipotesi, questa, che, sola, giustificherebbe di chiamare in ballo la geopolitica, che il già citato Zingarelli minore definisce come scienza che studia le ragioni geografiche dei problemi politici.


COSA CI CONVIENE FARE SE SI FARà LA GUERRA

di Giovanni Castellani Pastoris

La guerra in Iraq conviene all'Italia? La domanda non mi sembra ben posta. Sia perché una guerra non dovrebbe convenire mai a nessuno, o almeno nessuno dovrebbe auspicarla, sia perché non avendo voce in capitolo, è inutile e frustrante porsi la domanda se ci conviene o no. Quello che ci dobbiamo domandare è cosa la guerra può comportare e cosa ci conviene fare nel caso che si faccia, come sembra più che probabile. Cominciando dalla fine, mi sembra che sia in questo caso più che valida la regola generale della presenza e quindi della partecipazione significativa. Del resto lo stesso ragionamento stanno facendo tutti gli altri  a cominciare dalla Francia e dalla Russia che erano stati presentati come i due paesi che avevano il maggior interesse al mantenimento dello status quo per i loro rapporti "speciali" con il regime di Saddam Hussein. In realtà questi "rapporti speciali" non portano a nulla in costanza delle sanzioni. Sono pronto a scommettere che  fra qualche settimana anche Schroeder sarà pronto a dare il suo contributo, quanto meno mettendo a disposizione le basi e le infrastrutture in Germania. Se si vuole appartenere ai soggetti e non agli oggetti della politica internazionale, occorre partecipare. Tutti, in oltre, vogliono " avere titolo " a partecipare al dopo, quando si tratterà di incassare i dividendi al "tavolo della pace". L'importante per noi è che il ruolo che ci spetterà sia adeguato e compatibile con le nostre possibilità e capacità operative, che, come noto, non sono particolarmente rilevanti e tradizionalmente ulteriormente indebolite dal "fronte interno".
Il vero problema sta nel cosa la guerra potrà comportare, cioè cosa succederà dopo in Iraq ed eventualmente nella regione. Qui sta, a mio avviso, la principale debolezza del programma americano. E' certo che avremo una fase di grande instabilità in cui le varie forze endogene ed esogene cercheranno di trarre il maggior profitto, con il conseguente rischio di destabilizzare tutta la regione la cui fragilità è sotto gli occhi di tutti. L'ultimo numero di Limes illustra con chiarezza e molto dettagliatamente questo aspetto della questione, voglio dire il dopo guerra. Aggiungerei che nella storia troviamo innumerevoli esempi che quando ci si mette a giocare al Padre Eterno si innescano situazioni e processi incontrollabili che sfociano il più delle volte in punti di partenza di nuove crisi, spesso più gravi in termini umani delle situazioni che si sono volute modificare. Gli assetti che danno maggiori affidamenti sono quelli che gli interessati si danno. Ciò ha certamente costi, talvolta anche rilevanti, ma, se non altro, hanno qualche prospettiva che seguiranno fasi di pacifico progresso. In Europa ci sono voluti 3 o 4 secoli prima che gli europei si convincessero che era meglio competere che combattersi. Ma  hanno deciso loro il come ed ora, mi pare, ne sono definitivamente convinti. Non credo che se l'assetto fosse stato stabilito ed imposto dal di fuori l'esito sarebbe stato lo stesso
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Iraq: interesse zero

di Santo Cuzzocrea

L'interesse italiano a supportare politicamente e a partecipare militarmente ad un'azione contro l'Iraq è praticamente nullo. A prescindere, infatti, da insormontabili questioni giuridico-costituzionali qualora l'attacco fosse "preventivo", sganciato dall'egida dell'Onu, secondo la dottrina Bush (l'art. 11 della Costituzione, per cui "l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali...", probabilmente non bloccherebbe la nostra adesione votata dal Parlamento, ma determinerebbe una pericolosa "rottura" della Costituzione stessa!), è ovvio che ragioni geopolitiche, finalizzate al mantenimento nella regione mediorientale dei già precari equilibri, il cui venir meno potrebbe innescare "effetti domino" sugli slanci terroristici dei fondamentalisti islamici (con i quali Saddam Hussein non c'entra proprio nulla!), impongono al nostro Paese un'attentissima riflessione sulle conseguenze di un supporto politico, prima che militare, alla posizione statunitense. Bisognerebbe porre, invece, maggiore attenzione alle politiche che stanno coerentemente portando avanti la Francia e la Russia, ancorando, pertanto, ogni azione militare a preventive risoluzioni dell'Onu. Una politica estera votata "a fare contenti tutti", quale sembra quella perseguita dal Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri "ad interim", on. Silvio Berlusconi, rischia, paradossalmente, di limitare oltre ogni ragione e interesse le possibilità di azione dell'Italia. E se la Fiat è in crisi, non è affatto scontato che ci si debba rivolgere ai capitali statunitensi per affrontarne le conseguenze! Non sembri ardito il collegamento tra la crisi della Fiat e la problematica dell'eventuale attacco all'Iraq...


ISRAELE/PALESTINA: Come finirà.

di Marco Panichelli

Il contenzioso storico-militare fra le due popolazione non avrà fine, se non interverranno gli USA. Questa visione pessimistica nasce dal fatto storico che una popolazione ferocemente determinata alla creazione di uno Stato, la Palestina, capace di sacrificare con il suicidio-martirio tanti giovani, ricordiamoci a tal proposito, ed in Occidente purtroppo ce lo dimentichiamo spesso, che esiste il "suicidio altruistico", suicidio che con la propria carica dirompente è di esempio a tanti altri giovani che si lasciano morire con la speranza che l'atto serva a far vivere meglio la generazione successiva. E' chiaro che, con la nostra cultura  di derivazione cattolica/comunista che rimuove addirittura l'idea della morte e delle malattie, vivendo come se non ci fossero, il suicidio è sempre visto come un atto negativo; per un attimo proviamo a immedesimarci in un popolo che vive con pochi dollari al giorno, che non possiede una casa, che non ha frigo, lavatrici, acqua corrente, una popolazione con alta mortalità infantile, che per andare a lavorare deve superare dei varchi, delle frontiere etc.. proviamo a capire che valore questi popoli danno alla vita. Ma non bisogna fare chissà quali alti ragionamenti, basta per esempio studiare la nostra storia, le generazioni antecedenti alla nostra che figliavano 8/10 figli a famiglia con elevata mortalità infantile, ragioniamo su quei morti di fame che eravamo, con pochissimo lavoro, con altissima emigrazione. Al di là di questo quadro generale, pensiamo ad Israele, fino ad oggi la loro superiorità militare, dovuta esclusivamente all'apporto militare USA ha permesso di fronteggiare il nemico arabo. Un domani con gli USA sempre più sotto pressione per l'apertura contemporanea di più fronti militari e terroristici, la sicurezza di Israele sarà irrimediabilmente compromessa, ed è inutile che si dotino di sottomarini, nuovi missili etc.., la loro unica speranza è quella di accettare un piano di pace con notevole perdita di territori occupati e non, Gerusalemme città stato con sovranità ripartita su tutte le componenti etniche. Se questa soluzione si realizzasse, il secondo passo sarebbe necessariamente quello di far passare del tempo per fare decantare la situazione e far placare l'odio, poi si potrebbe immaginare una nuova forma di integrazione etnica, ma il sogno è oggi troppo avveniristico. 


le paure europee
e il dramma israeliano

di Marco Leofrigio

La situazione è sempre più complessa. Oggi Arafat ha finalmente fatto una dichiarazione di condanna in arabo. Che si senta alle strette? E' chiaro che in sede internazionale -che è poi solo USA-oriented- si può trovare una soluzione al lunghissimo conflitto in corso. Noi europei dobbiamo supportare Israele (l'unica democrazia della regione) e premere sui paesi arabi "sponsor" di Hamas e suoi simili. Ma ne avremo il coraggio? Penso di no, dato che la paura di avere i kamikaze in casa ci fa fare questo gioco della botte e del cerchio. Ma con quale risultato? Non si prende nessuna decisione vera. Lasciamo il comando al solito "impero" americano che è l'unico mediatore riconosciuto dalle parti in conflitto. D'altro canto Israele per quanti mesi potrà reggere le bombe e ogni volata far scattare la rappresaglia nei Territori? Chi si logorerà prima? A quale assurdo prezzo! Si deve giungere ad un riconoscimento reciproco e sincero e non puntare come fanno alcuni della dirigenza palestinese e araba alla "vittoria demografica", ovvero puntando sulla prevalenza tra 10-15 anni del numero di palestinesi grazie al loro quasi permanente boom demografico. E per Gerusalemme uno status internazionale ma che sia veramente organizzato e gestito bene dalla comunità mondiale.


ISRAELE/PALESTINA: I DOVERI DELLA
 COMUNITà INTERNAZIONALE

di Santo Cuzzocrea

La soluzione della crisi israelo-palestinese è, prima di tutto, un problema di giustizia e libertà che non può lasciare inerme la Comunità internazionale, a costo di prese di posizione geopoliticamente scomode! Alcuni atteggiamenti diplomatici degli ultimi mesi, soprattutto degli Stati Uniti, non hanno di certo incoraggiato la reciproca legittimazione ed il dialogo tra le parti.
Ed invero, se i soprusi, le prepotenze e i morti hanno la stessa valenza quale che sia la prospettiva di osservazione, allora è necessario che Israele venga costretto dalla Comunità Internazionale - con la forza del diritto - a "tanti passi indietro": dal rispetto delle risoluzioni dell'O.N.U. sui territori (ancora) occupati, alla cessazione di violenze ed abusi perpetrati dall'esercito con la stella di David; è troppo comodo per Israele - infatti - chiedere che vengano annientate le fonti del "terrorismo" palestinese, fomentando - tuttavia - le cause che di quei gesti estremi sono le origini più immediate.
E se è vero che Arafat, forse troppo spesso negli ultimi tempi, ha tenuto comportamenti politicamente ambigui, è altrettanto vero che Israele ha fatto quanto gli era possibile per delegittimare l'anziano leader palestinese, in atto unico interlocutore internazionalmente credibile!
Ed allora, la diplomazia - nell'accezione più completa del termine - riprenda doverosamente il sopravvento:la Comunità Internazionale faccia rispettare ad entrambe le parti le risoluzioni dell'O.N.U.; Stati Uniti ed U.E. "obblighino" Israele ed ANP a riprendere i negoziati per una "definitiva"risoluzione delle problematiche, magari lasciando per ultima la controversa questione dello "status" di Gerusalemme, invece che partire proprio da essa.Si arrivi - quindi - ad un accordo che assicuri la coesistenza (se non la convivenza) dei due popoli e dei due Stati: Israele e Palestina.
Sarebbe auspicabile, per un' approccio più terzo alla crisi - che politici di statura internazionale senza più ruoli di governo (J. Carter, G. Andreotti, H. Kohl) abbiano conferito dall'O.N.U. un mandato di mediazione vincolato al raggiungimento di un accordo, eventualmente articolato anche in più fasi progressive.


DOPO L'EURO

di Marco Panichelli

A mio avviso c'è prima da chiederci cosa intendiamo per Europa. L'unione monetaria, auspicabile per diverse ragioni che mi pare superfluo ribadire in questo articolo, è finalmente realizzata e a breve altri Paesi importanti, penso all'Inghilterra, aderiranno alla moneta unica. Questo ci permette di analizzare i fenomeni politici. L'analisi da cui si può iniziare un ragionamento è questo: l'asse Franco-Tedesco-Belga; l'asse Inghilterra-USA-Olanda; l'Italia,  la Spagna, il Portogallo, la Grecia e la Turchia etc. e infine come cambia la politica estera in relazione all'unione monetaria. Il mio parere è che il primo passo difficilissimo da realizzare affinchè una Europa possa finalmente accrescere  il suo peso economico politico e militare è cercare di scompaginare l'asse GB-USA-Olanda. Questo creerebbe uno stimolo da parte inglese a integrarsi in maniera più decisa all'Europa.Tutti noi sappiamo che questo passo porterebbe L'Europa ad avere un maggior peso nello scacchiere mondiale. E' inconcepibile che qualsiasi guerra scoppiata in questi ultimi periodi sia stata combattuta per capacità degli USA e non per esempio dalla NATO o dall'ONU, questo significa che queste strutture sono così burocratizzate, così inefficienti da non poter garantire azioni risolutive. Immagino ma spero di essere un cattivo profeta, che anche la questione palestinese si risolverà quando lo vorranno gli Stati Uniti, gli unici a poter imporre ad Israele di sedersi ad un tavolo di trattative. Gli Stati Uniti, tramite il Fondo Monetario, le multinazionali, il controllo informatico e telematico ed alimentare, nonché uno sviluppo demografico multirazziale, che piaccia o no, sono gli unici a poter muovere tutte le leve per combattere su tutti i fronti. A questo punto mi chiedo cosa manca all'Europa per cominciare ad avere pari peso nel mondo. Un esecutivo sovranazionale, capace di superare le divergenze nazionali sganciato dalle piccole politiche nazionali. Una forza di pronto intervento aeronavale e terrestre. Un reale fondo economico di aiuto ai paesi più bisognosi. Un unitario sviluppo tecnologico multinazionale, capace di competere con le principali aziende nordamericane. Uno sviluppo demografico capace di garantire un futuro di sviluppo bilanciato. Penso all'Italia delle sue piccole politiche e mi viene da ridere, stiamo garantendo tanto alle persone anziane, e non facciamo nulla per le giovani coppie. Non abbiamo politiche demografiche. Questo significa che fra una decina di anni  non discuteremo più delle pensioni, né di come garantirle, semplicemente non ci saranno più pensioni, perché il livello di uno occupato a due pensionati salirà a uno a tre o quattro. Ma questo è forse un ragionamento ed un approfondimento che faremo in un'altra Audax Quaestio del Limes Club Roma.


L'EUROPA DOPO L'EURO

di Santo Cuzzocrea

Grazie all'euro, al suo consolidarsi nel panorama macro-economico internazionale ed al suo progressivo estendersi anche ai Paesi che nei prossimi anni faranno il loro ingresso nell'Unione Europea, l'Europa potrà emanciparsi - sia sotto l'aspetto strettamente politico che sotto quello militare - dal pesante giogo degli Stati Uniti d'America che - fino adesso - hanno "costretto" i Paesi Europei a subire scelte spesso non geopoliticamente convenienti.
Del resto, le tempeste valutarie che spesso hanno turbato i mercati finanziari internazionali hanno avuto origine da speculazioni americane, volute per finalità poco ortodosse o - comunque - non pubblicamente confessabili.
Si rammenti - a tal proposito - la situazione apocalittica in cui si trovò la lira italiana nel Settembre 1992 a causa della speculazione provocata dal finanziere statunitense (seppure di origine ungherese) Soros, ai drammatici interventi della Banca d'Italia - con esito assolutamente non risolutivo - e, pertanto, al decremento delle nostre riserve di valuta straniera. Ed è solo un esempio, quello a noi più conosciuto!
L'euro, inoltre, rappresenta senz'altro e al di là di ogni retorica l' "incipit" dell'indispensabile, da qui a qualche lustro, unione politica dei Paesi dell'Ue, pena pericolose avventure economico-finanziarie.


COME POSSIAMO MIGLIORARE
IL LIMES CLUB ROMA

di Roberto Stocchetti

Immaginare se un provocatore nato (Altri hanno usato, a volte, un termine più pesante) poteva esimersi dal rispondere alla provocazione lanciata sull’ultimo numero di Border; ecco, dunque, alcune “modeste proposte” (Non di genere swiftiano, naturalmente!) per un ulteriore sviluppo delle nostre attività. In primo luogo vorrei dire che stimo camminando col passo giusto e su questo non posso che concordare con quanto espresso dal nostro coordinatore nello scorso numero. Per il futuro proporrei: a breve scadenza, dare una cadenza almeno bimestrale a Border mantenendo l’impostazione a 12 pagine; contemporaneamente, o al massimo ogni tre mesi, organizzare i nostri incontri geopolitica “a tema”, non necessariamente su quanto trattato dalla rivista (Perché non impegnarci sulla tematica dell’Iran che ho visto così poco considerata?). A media scadenza: promuovere una convenzione annuale dei Limes Club; un’occasione per conoscere le varie realtà a livello nazionale, per omogeneizzarle, per favorire la crescita di quelle più giovani, per aiutare la nascita di nuove. A lunga scadenza si potrebbe promuovere un premio annuale di geopolitica; dare la possibilità a giovani laureati o diplomati di far conoscere il loro talento. Ed ultimo, ma non ultimo, creare un archivio e una biblioteca geopolitica che possano permettere agli Amici del Club (Ma non solo a loro) di potere rintracciare libri rari, bibliografie e quant’altro. Come si può osservare ho tracciato per sommi capi tre possibili obiettivi, certamente molti altri validi suggerimenti perverranno; ed allora perché non incontrarci per stabilire quali assumere e mettere in pratica? Ovviamente con la più attiva collaborazione e partecipazione di tutti! Un saluto ed un augurio di buon lavoro a tutto il Limes Club Roma.


KURDISTAN:
L’IRREALIZZABILITÀ DI UN PROGETTO

di Domenico Catera

 Il Kurdistan è una regione dall’Asia occidentale, nel Medio Oriente, divisa tra la Turchia (di cui occupa la maggior parte), l’Iraq e Iran, è abitata prevalentemente da Kurdi, popolazione seminomade che professa la religione mussulmana, insofferente all’amministrazione dei Paesi in cui vive, che esprime il suo malcontento con una ribellione che interessa l’intera Regione.I loro capi militari e politici aspirano ad una creazione di uno Stato Kurdo indipendente, da attuarsi con la fusione in un unico organismo politico di tutti i territori di Turchia, Iraq ed Iran abitati da Kurdi.Ciò vorrebbe dire ridisegnare i confini dei tre stati citati in precedenza, i quali sono stati riconosciuti da Trattati Internazionali. I Paesi citati sono localizzati in un’area geopolitica altamente instabile, come quella mediorientale, quindi la creazione di uno stato Kurdo farebbe implodere l’intera regione col rischio di un conflitto generalizzato. Per tale ragione, in questo periodo storico, la nascita di uno Stato Kurdo è irrealizzabile.L’Italia si potrebbe fare portavoce della questione Kurda, in seno alle organizzazioni internazionali di cui è membro, cercando di fare in modo che sia indetta una Conferenza Internazionale, alla quale devono partecipare tutti i Paesi direttamente interessati, in modo da trovare una soluzione, che da una parte garantisca il mantenimento dei confini attuali e dall’altra dia una certa autonomia alle popolazioni kurde; magari con la creazione di una regione transnazionale, tutta da definire e da discutere. Questa soluzione o altre similari porrebbero fine alle ribellioni e stabilizzerebbero l’area interessata.


LA PACE NEI BALCANI
CONVIENE ALL'ITALIA

di Domenico Catera

 L’Italia è, lo voglia o no, coinvolta in tutto ciò che succede nei Balcani. Quindi la pace in quest’area è per il nostro Paese d’interesse vitale. Tra le motivazioni per cui questa pace a noi conviene ne cito solo alcune, che a mio avviso sono molto importanti.

 


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