OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB

NUMERO 4/2002

Chomsky contro la Quinta Libertà di Massimo Virgilio

BORDER JOKES - GEORGE & CONDI di Federico Antilippi

QUALE EUROPA VOGLIAMO di Giovanni Castellani Pastoris

INFIBULAZIONE: PERCHè IL SILENZIO DELL'OCCIDENTE? di Aldo Torchiaro

FORUM DI BORDER: l'onu, il diritto internazionale e la nuova dottrina usa con:

          IL POTERE RIMASTO ALL'ONU di Tommaso Coniglio
         
LA VERITà ALLA CASA BIANCA di Livio Zaccagnini

Chomsky contro la Quinta Libertà

di Massimo Virgilio

recensioni

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Complimenti alla casa editrice Elèuthera per aver riproposto, a distanza di 15 anni dalla prima edizione, l’ormai introvabile volume di Noam Chomsky intitolato “La quinta libertà” (456 pagine, 16 euro): non si sarebbe potuto trovare un momento più adatto dell’attuale per far tornare sugli scaffali delle librerie questo  importante saggio.

In esso, infatti, oltre a una puntuale e minuziosa ricostruzione degli “atti di aggressione e di controllo” perpetrati nel corso degli anni ’80 dagli Stati Uniti ai danni dei paesi del Sud America, si ritrova anche un’analisi approfondita e sorprendentemente attuale degli elementi costitutivi, strutturali e permanenti, delle politiche interventiste ed espansioniste statunitensi.

L’autore sottolinea che individuare questi elementi non è affatto facile, sia perché chi detiene il potere fa di tutto per non renderli palesi, sia perché molti cittadini preferiscono non saperne nulla così da vivere tranquillamente la propria esistenza. “Una rete infinita di inganni, spesso di auto-inganni, avvolge la nostra esistenza”.

Basta però guardarsi intorno con un minimo di spirito critico e di onestà intellettuale per liberarsi di questa rete. Allora compare davanti ai nostri occhi “un mondo alquanto diverso da quello che un sistema ideologico assai efficiente ama presentarci, un mondo molto più brutto, financo orribile”. E appare evidente “il contributo portato dalle nostre stesse azioni, o dalla nostra acquiescenza passiva, alla miseria e all’oppressione e forse, perfino, alla futura distruzione del pianeta”.

Ecco lo scopo che Chomsky si prefigge di raggiungere con questo saggio: dimostrare che l’  aristocrazia economica americana, “allo scopo di mantenere o estendere la propria posizione di predominio” a livello internazionale, non esita a ricorrere alla forza, alla violenza, persino alle “torture più barbare e all’assassinio di massa”, e che, soprattutto, l’uso di questi riprovevoli sistemi, oltre ad avere una portata rilevante, “è pure la conseguenza prevedibile e sistematica di persistenti concezioni geopolitiche e di strutture istituzionali”.

Per tale dimostrazione la politica adottata dagli Stati Uniti negli anni ‘80 nei confronti dei paesi dell’America centrale e dei Carabi, che più di altri hanno lungamente “subito l’influenza statunitense”, costituisce un ottimo esempio.

La zona in questione può essere considerata un vero e proprio “museo degli orrori, con fame, schiavitù, tortura, massacri, di cui portano la responsabilità le clientele locali degli Stati Uniti”. I quali si sono sempre opposti con durezza e violenza a “tutti i tentativi di attuare qualche cambiamento costruttivo” messi in atto dalle popolazioni locali.

Per descrivere meglio la situazione l’autore fa proprie le parole usate da Karl Marx nel suo “La guerra civile in Francia” (1871): “La civiltà e la giustizia della società borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e i servi insorgono contro i propri padroni. Allora tale civiltà e giustizia gettano la maschera e mostrano la loro natura selvaggia e vendicativa”.

Nicaragua, Salvador, Guatemala. Le violente ingerenze nordamericane negli affari interni di questi paesi vengono analizzate e vagliate con estrema cura e attenzione da Chomsky. Che porta a sostegno delle sue argomentazioni una mole impressionante di documenti ufficiali, di rapporti segreti e di testimonianze dirette. Le prove presentate mettono in risalto le innumerevoli atrocità commesse in America centrale dai satelliti degli U.S.A. e dimostrano “il ruolo determinante che in esse svolgono gli Stati Uniti stessi”. 

I fatti sono tanti e tali che nessuno può “negare l’esistenza di una Washington connection decisiva per la creazione, l’addestramento e il mantenimento di questo sistema di terrore statale altamente organizzato”. Con grande fastidio del governo americano, degli organi di informazione di massa e degli intellettuali sedotti dal potere, che invece hanno sempre cercato di occultare le violenze più efferate e di “produrre un flusso costante di giustificazioni degli eccidi e delle torture”.

Nel 1941 il presidente Roosevelt affermava che il compito principale degli Stati Uniti d’America doveva essere quello di fare il possibile per difendere e coltivare le “Quattro Libertà” fondamentali: la libertà di parola, la libertà di culto, la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura. L’attento esame della politica estera americana, però, mostra, secondo Chomsky, l’esistenza di una Quinta Libertà, che sovrasta per importanza le altre quattro: la libertà di sostenere gli interessi americani nel mondo a tutti i costi e con tutti i mezzi, compresi l’omicidio, la rapina e lo sfruttamento.

“Quando in territorio nemico una delle quattro libertà ufficiali viene violata, - scrive l’autore - subito insorge, addolorata, la nostra indignazione. Ma questo non vale per i territori sotto il nostro controllo”. Di questi ultimi ci si occupa solamente quando viene minacciata la Quinta Libertà, “l’unica che conti realmente”.

Se si studiano gli interventi statunitensi realizzati nelle varie regioni del mondo ci si accorge che essi in apparenza sono determinati dal sostegno ai diritti umani violati o alla libertà dei popoli oppressi, mentre in realtà ciò che li provoca non è altro che la difesa a oltranza degli interessi dei grandi potentati economici con base in America.

“La retorica U.S.A. è spesso nobile e ispirata, ma la politica reale segue un corso suo proprio assai diverso”. Per Chomsky “gli svolazzi retorici dei leader politici, echeggiati attraverso le istituzioni ideologiche, servono a nascondere al popolo di questa potenza egemonica la realtà delle cose”, che,  a causa dell’orrore che porta con sé, se venisse completamente a galla non sarebbe tollerata . Il vero significato dell’”appassionata devozione per i diritti umani” mostrata dai presidenti degli Stati Uniti, è ben compreso “nel Salvador, a Timor, nel Laos, e altrove, da centinaia di migliaia di vittime della tortura, della fame, degli eccidi”.

Scrive Noam Chomsky: “L’attenta considerazione della storia, nonché dei documenti sui piani d’intervento, rivela l’esistenza di una concezione geopolitica fondamentale: conservare la Quinta Libertà, con qualunque mezzo”. Solamente alla luce di questo principio diventa perfettamente comprensibile l’operato, a livello mondiale, degli U.S.A.

Ecco un altro punto fondamentale del saggio di Chomsky: “Il principio della Quinta Libertà è un elemento costante, profondamente radicato nelle istituzioni basilari della società americana”. Gli Stati Uniti sono una potenza globale e la loro concezione geopolitica generale non deriva da decisioni occasionali o da eventi fortuiti bensì da “strutture istituzionali estremamente restie a modificarsi”, fondate appunto sulla Quinta Libertà.

Le direttrici principali della politica estera americana sono dunque estremamente chiare, e lo sono già da decenni. “Abbiamo il 50% circa della ricchezza mondiale, e solo il 6,3% della popolazione mondiale. In siffatta situazione non possiamo evitare di essere oggetto di invidia e risentimento. Nei tempi a venire, il nostro compito sarà di mettere a punto un tipo di relazioni che ci permetta il mantenimento di tale posizione di disparità senza che da ciò sia compromessa la nostra sicurezza nazionale. A tal fine, dovremo abbandonare qualunque sentimentalismo e concentrare ovunque la nostra attenzione sugli interessi nazionali immediati. E’ inutile fingere di poter concederci il lusso dell’altruismo e della beneficenza a livello mondiale. Dovremmo smettere di parlare di obiettivi vaghi e irrealistici, come i diritti umani, l’innalzamento dei livelli di vita, la democratizzazione. Non è lontano il giorno in cui dovremo occuparci di veri e propri problemi di potere, e allora sarà bene non avere gli impacci di certi slogan idealistici”.

A scrivere queste frasi estremamente attuali non è qualche falco di Washington esasperato dalla tragedia dell’11 settembre 2001, bensì, nel lontano 1948,  George Kennan, allora capo del settore pianificazione del Dipartimento di Stato. Dal dopoguerra ad oggi, dunque, nulla sembra essere cambiato nella mentalità di chi governa gli Stati Uniti d’America.

“E’ importante tener presente – afferma Chomsky – che tale comportamento è sistematico e del tutto razionale, date le concezioni geopolitiche che lo guidano”, concezioni radicate nella struttura istituzionale della società americana. Ne deriva però che l’attuale situazione non è permanente: cambiando la struttura istituzionale degli Usa. cambieranno anche le sue concezioni geopolitiche.

Se in America “venisse cambiata la distribuzione interna di potere, ricchezza, proprietà e controllo, il peso della Quinta Libertà per l’economia americana verrebbe a ridursi”. 

Dunque non tutto è perduto. Ma perché le cose cambino, e cambino in meglio, occorre che all’interno degli Stati Uniti avvengano radicali sconvolgimenti. Dare vita a riforme vaste e profonde non è però cosa facile. Bisogna infatti che i cittadini imparino a valutare gli accadimenti interni e internazionali con estrema attenzione, un’attenzione talmente intensa da riuscire strappare il  pesante velo della propaganda ufficiale che tutto avvolge e tutto mistifica. I cittadini hanno il diritto e il dovere di conoscere con esattezza le motivazioni e le azioni di coloro che esercitano il potere perché solo in tal modo l’operato di questi ultimi potrà essere giudicato correttamente.

“E’ particolarmente importante - scrive Chomsky - che chi vuole tentare di influenzare la politica governativa abbia ben chiare queste questioni”.

Le argomentazioni dell’autore risalgono a 15 anni fa ma non mostrano certo la loro età. Piuttosto sembrano scritte pensando alla situazione attuale. Non a caso in un recentissimo articolo apparso sul quotidiano tedesco Frankfurter Rundschau lo scrittore di origine inglese John  Berger affronta gli stessi argomenti ed esprime le stesse opinioni dell’autore de “La quinta libertà”. Facendo riferimento in particolare agli Usa egli afferma che “oggi il potere è caduto nelle mani di una cricca di fanatici (decisi a mettere un limite a tutto tranne che al potere del capitale), ignoranti (pronti a riconoscere solo la realtà della propria potenza di fuoco), ipocriti (due misure per tutti i giudizi etici, una per noi e un’altra per loro) e spietati cospiratori B52. Anche se per funzionare richiede tecnologie estremamente sofisticate, il meccanismo politico della nuova tirannide è semplicissimo. Imporre ovunque - a costo di qualsiasi disastro - il nuovo caos economico che da un lato crea profitto e dall’altro povertà. Assicurarsi che le frontiere siano in una sola direzione: aperte alla tirannide, chiuse agli altri. Ed eliminare ogni opposizione chiamandola terrorismo”.

Dunque oltre un decennio fa, come ampiamente documentato da Noam Chomsky nel suo libro, gli stati che si opponevano alle ingerenze e ai soprusi degli americani e dei loro alleati venivano considerati nemici mortali in quanto legati a filo doppio all’Unione Sovietica. Non solo. Coloro che all’interno del paese si schieravano dalla parte dei popoli che lottavano per l’autodeterminazione venivano immediatamente accusati di essere comunisti e quindi traditori. Oggi è lo stesso: basta sostituire l’Unione Sovietica con gli stati canaglia e il comunismo con il terrorismo e il gioco è fatto.

“Coloro che hanno scippato il potere - scrive ancora John  Berger nel suo articolo -  pretendono di salvare il mondo e di offrire alla sua popolazione l’occasione di diventare loro clienti. Il consumatore mondiale è sacro. Ciò che non aggiungono è che i consumatori contano solo perché generano profitto, che è l’unica cosa davvero sacra. Questa astuzia ci porta al nodo. La pretesa di salvare il mondo maschera l’assunto del cospiratore: una vasta parte del mondo, inclusi il grosso del continente africano e una parte considerevole dell’America del Sud, non può essere salvata. Di fatto, ogni angolo del mondo che non può diventare parte del loro centro è insalvabile. E tale conclusione è l’inevitabile conseguenza di un dogma: la sola salvezza è il denaro, e il solo futuro globale è quello delle loro priorità che , anche se chiamate con altro nome, coincidono con il loro utile”.

Nelle ultime pagine del suo libro Chomsky sembra profetizzare l’attuale atteggiamento degli Usa nei confronti dell’Iraq  di Saddam Hussein e dei così detti stati canaglia. “Non c’è dubbio che i conservatori sperano di lasciare un segno imperituro nella politica americana. Vogliono dimostrare che la violenza paga. Il sistema di propaganda ha costruito una serie di demoni, dinanzi ai quali dobbiamo tremare di paura. Fortunatamente, ci assicurano i nostri valenti pensatori, l’amministrazione sta cercando di sbarazzarsi dei gaglioffi. Se si riuscirà a distruggerli per mezzo della violenza, gli effetti a lungo termine sulla politica degli Stati Uniti potrebbero essere rilevanti. Non ci sarà più posto per i pusillanimi nel sistema politico; per coloro che si trastullano con trattati e negoziati, con soluzioni politiche, con il diritto internazionale e altre quisquilie del genere. Ci sarà posto soltanto per delinquenti criminali che godono nell’inviare le loro truppe e le loro squadre di sicari a torturare e ad ammazzare chi è troppo debole per reagire e difendersi”.

A tutto questo però ci si può opporre, ci si deve opporre. E in questa lotta per l’affermazione di “una visione o una speranza diverse per il mondo”, per usare ancora le parole di John Berger, già nei lontani anni ’80, di nuovo con incredibile lungimiranza,  Chomsky assegna un ruolo fondamentale all’Europa. “L’Europa dovrà fare le sue scelte. La via più facile consiste nel mantenersi fedele e obbediente agli ordini del padrone, evitando di offrire aiuti alle vittime del terrore statunitense, lasciando gli Stati Uniti liberi di esercitare il proprio volere. Ma potrebbe anche imboccare la via dell’indipendenza, prendendo sul serio la retorica sull’autodeterminazione e sui diritti umani, che viene sfoderata con grande indignazione quando un nemico ufficiale può essere accusato di maltrattamenti e crimini. E agendo di conseguenza”.

Quindici anni fa, dunque, Chomsky ha caricato l’Europa di una grande responsabilità: quella di fermare il dilagante strapotere economico e militare degli Usa Ma se fino ad ora i paesi europei hanno potuto evitare di affrontare la questione, oggi una chiara scelta di campo non può più essere rinviata: ne va della salvezza del mondo intero.

george & condi

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...va letto con pronuncia MOLTO yankee...

(We take you now to the Oval Office.....enter Condoleezza Rice)
George Bush, Jr: Condi! Nice to see you. What's happening?
Condi: Sir, I have the report here about the new leader of China.
George: Great. Lay it on me.
Condi: Hu is the new leader of China.
George: That's what I want to know.
Condi: That's what I'm telling you.
George: That's what I'm asking you. Who is the new leader of China?
Condi: Yes.
George: I mean the fellow's name.
Condi: Hu.
George: The guy in China.
Condi: Hu.
George: The new leader of China.
Condi: Hu.
George: The Chinaman!
Condi: Hu is leading China.
George: Now whaddya' asking me for?
Condi: I'm telling you Hu is leading China.
George: Well, I'm asking you. Who is leading China?
Condi: That's the man's name.
George: That's who's name?
Condi: Yes.
George: Will you or will you not tell me the name of the new leader of China?
Condi: Yes, sir.
George: Yassir? Yassir Arafat is in China? I thought he was in the Middle East.
Condi: That's correct.
George: Then who is in China?
Condi: Yes, sir.
George: Yassir is in China?
Condi: No, sir.
George: Then who is?
Condi: Yes, sir.
George: Yassir?
Condi: No, sir.
George: Look, Condi. I need to know the name of the new leader of China. Get me the Secretary General of the U.N. on the phone.
Condi: Kofi?
George: No, thanks.
Condi: You want Kofi?
George: No.
Condi: You don't want Kofi.
George: No. But now that you mention it, I could use a glass of milk. And then get me the U.N.
Condi: Yes, sir.
George: Not Yassir! The guy at the U.N.
Condi: Kofi?
George: Milk! Will you please make the call?
Condi: And call who?
George: Who is the guy at the U.N?
Condi: Hu is the guy in China.
George: Will you stay out of China?!
Condi: Yes, sir.
George: And stay out of the Middle East! Just get me the guy at the U.N.
Condi: Kofi.
George: All right! With cream and two sugars. Now get on the phone.
(Condi picks up the phone.)
Condi: Rice, here.
George: Rice? Good idea. And a couple of egg rolls, too. Maybe we should send some to the guy in China. And the Middle East. Can you get Chinese food in the Middle East?

Quale Europa vogliamo?

di Giovanni Castellani Pastoris

attualità

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Come vediamo l’Europa del futuro? A cosa ci aspettiamo che serva? Sono domande che vengono poste esplicitamente molto raramente, ed alle quali ancor più raramente viene data risposta e quasi esclusivamente in modo solo implicito, argomentando a favore o contro questa o quella delle tesi che attualmente sono all’esame della Convenzione e cioè di chi dovrebbe disegnare la o le ipotesi per il futuro. Eppure sono quesiti la cui risposta deve precedere le scelte sia istituzionali che in materia di allargamento e la cui importanza non dovrebbe consentire di darle per scontate.

La percezione che, dall’esterno, in molte sedi, se ne ha avuto, ed in parte si continua ad avere, è stata assai spesso influenzata da fattori ideologici o di politica internazionale. Così per alcuni, ed in particolare per i Paesi del blocco sovietico, la Comunità Europea era il “volet” economico dell’Alleanza Atlantica, a sua volta uno degli strumenti dell’”imperialismo americano”. E, per il vero, volet economico dell’Alleanza occidentale (avente la democrazia e l’economia di mercato come valori costitutivi fondamentali), è, in un certo senso, anche oggi la percezione che ne hanno molti cittadini di paesi, anche candidati all’adesione, dell’est-europeo, nonché auspicio di alcune componenti dell’establishment USA. Per altri è una intesa che sancisce libertà di scambi e di circolazione di persone, beni e servizi per lo sviluppo economico fra paesi industrializzati dell’Europa occidentale. Per altri ancora un “cartello” dei medesimi.

La molla iniziale dei “Padri Fondatori” fu, probabilmente, l’idea che, tutto sommato, era più conveniente per Nazioni e Popoli uniti da alcuni secoli di comuni civiltà e conflitti, continuare a competere senza combattersi, creando regole che permettessero il fiorire, senza ricorso a strumenti traumatici, delle rispettive capacità realizzatrici. Si ebbero così le Comunità, prima del carbone e dell’acciaio, poi economica e dell’energia nucleare che portarono, passo a passo, alla libera circolazione dei fattori di produzione. Progressivamente, alla competizione si aggiunse la collaborazione, per arrivare, oggi, al coordinamento sempre più intrusivo. Dal libero scambio al mercato unico, per finire all’ Unione. Progressivamente al nucleo iniziale si unirono altre Nazioni e Popoli, non tutti convinti e, forse, nemmeno consci della “deriva unitaria” che aveva guidato il processo. E’ questo che occorre tenere presente. E’ stata proprio questa “deriva unitaria” insieme al “metodo comunitario” a permettere i progressi che, malgrado le radicate tradizioni presenti nei singoli stati e nei singoli popoli, hanno permesso, in tempi che sono da Guinness dei primati, di arrivare dove siamo oggi.

Le difficoltà che si incontrano nel funzionamento dell’Unione per fare fronte alle crescenti esigenze, e che prevedibilmente si incontreranno in misura sempre maggiore dopo l’allargamento, richiedono, evidentemente, degli adattamenti; analogamente a quanto, del resto, si è progressivamente andati facendo nel passato man mano che si presentava la necessità di modificare ed adattare le regole di funzionamento.

Al Consiglio Europeo di Laeken, è stata quindi varata la Convenzione con il compito di raccogliere la o le ipotesi per un miglior funzionamento della macchina europea, più corrispondenti al comune sentire, concernenti: la Presidenza dell'Unione, la Commissione (ruolo, eventualmente composizione, sistema di nomina del Presidente), il raccordo fra Consiglio e Parlamento Europeo ed i rispettivi ruoli nel processo decisionale, i livelli di competenza o, come si dice in gergo, l’applicazione del principio di sussidiarietà, l'estensione della maggioranza qualificata e la natura e collocazione della Politica Estera e di Sicurezza. Ma non dar vita a qualcosa d'altro. 

Gli orientamenti che sono stati avanzati al termine della prima fase dei lavori hanno il duplice torto di andare molto al di là, mettendo in forse i delicati equilibri che il “metodo comunitario” ha fino ad oggi garantito, senza, per altro, chiarire che cosa ci si attende per il futuro prossimo (quello più lontano è, per definizione, non prevedibile), in quale direzione si intende procedere e con chi. E’ infatti evidente che la natura dei partecipanti determina la direzione dello sviluppo e della evoluzione dell’organismo.

Le risposte alternative possono sintetizzarsi in due ipotesi.

Possiamo optare per un organismo che presti determinati “servizi”, fra cui i principali sarebbero (senza pretendere di essere esaustivi): controllo delle normative onde assicurare sia sempre migliori condizioni di concorrenza (eliminando situazioni distorsive di privilegio o penalizzanti) sia il rispetto dei diritti fondamentali e di quelli ritenuti necessari allo sviluppo di una società competitivamente civile, la protezione da fatti esterni che possano pregiudicare tali obbiettivi, la gestione di un comune mezzo dei pagamenti (EURO), la gestione di strumenti per il raggiungimento di obbiettivi che non possono essere raggiunti singolarmente ( dalla protezione dell’ambiente a quella delle frontiere ), ecc.

Come possiamo, invece, optare per conservare quella che ho chiamato “deriva unitaria” e cioè la tendenza a progressivamente costituire un “unicum” (lasciando da parte le definizioni tecnico-giuridiche) allargando, via via che la congiuntura lo consenta, i settori nei quali si intende operare unitariamente, fra i quali, sempre senza pretendere di essere esaustivi, vanno considerati la politica estera e di sicurezza, la politica finanziaria, le regole di convivenza civile (giustizia, affari sociali).

La prima opzione si caratterizza nelle forme della tradizionale cooperazione intergovernativa, con iniziativa di propulsione facente capo a ciascun paese membro e limita la partecipazione di nuovi membri essenzialmente solo alla garanzia dell’osservanza dei diritti fondamentali ed all’accettazione dei principi di una economia di mercato.

La seconda, oltre a porre limiti più stretti all’adesione di nuovi partners (poiché l’appartenenza ad un “unicum” richiede la presenza radicata di molto maggiori elementi di comune sentire), esige anche una maggiore cautela e precisione nella costruzione istituzionale onde contemperare le caratteristiche che secoli di sviluppo individuale hanno radicato nelle singole società statuali, facendo si che esse abbiano un ruolo propulsivo piuttosto che disgregatore. Questo delicato equilibrio è stato fino ad oggi assicurato, in maniera soddisfacente, dalla struttura e dal metodo immaginati dai paesi fondatori, con i successivi adattamenti, e costituisce tuttora il meglio che offra il mercato.

Gli elementi essenziali possono così riassumersi: rispetto del principio che la “sovranità comunitaria” origina dagli stati membri (tramite i rispettivi esecutivi) e si colloca nel Consiglio, principio che si è andato poi “democratizzando” con la elezione a suffragio diretto del Parlamento Europeo, sede della sovranità popolare; diritto esclusivo di proposta della Commissione, che ha altresì un ruolo esecutivo, e la cui duplice natura richiede che in essa ci si ritrovino tutti gli stati membri e che i suoi componenti, compreso il Presidente, siano da questi ultimi designati.

I maggiori adattamenti resi necessari dalla mutata congiuntura (allargamento massiccio a nuovi partner, globalizzazione dei fatti economici e finanziari, fine del bi-polarismo) sembrano dover essere la rapida, anche se progressiva, estensione dei settori in cui si decide a maggioranza, la modifica della Presidenza a rotazione semestrale, la definizione dei livelli di competenza ( c.d. principio di sussidiarietà), la piena personalità di soggetto internazionale con la “comunitarizzazione” della politica estera e di sicurezza. Poco rilevanti, se non indifferenti, mi sembrano l’adozione o meno di una Carta costituzionale (che comunque non potrà avere carattere rigido per salvaguardare la natura evolutiva dell’Unione) e la creazione di una figura rappresentativa dell’Unione, sia esso un Presidente o altro. A Kissinger che chiedeva “l’Europa, a chi debbo telefonare?” si risponde con politiche unitariamente adottate ed implementate.

E’ dubbio che verrà fatta una scelta precisa e con ogni probabilità si deciderà per un ibrido. Ma non sono forse gli ibridi che hanno portato avanti l’evoluzione?

 

INFIBULAZIONE: PERCHÉ IL SILENZIO DELL’OCCIDENTE?

di Aldo Torchiaro

diritti umani

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C’è una barbarie che, agli inizi del terzo millennio, continua ogni anno a mietere più di due milioni di giovani vittime. Questa vergogna ha un nome. Si chiama mutilazione dei genitali femminili (abbreviata nella sigla Fgm, da Female Genital Mutilation) e, nonostante le misure adottate da molte nazioni interessate, soprattutto africane, si calcola abbia colpito finora centotrenta milioni di donne. Contrariamente a quanto si possa ritenere, le sue origini sono anteriori alla diffusione della cultura islamica. La si fa risalire addirittura all’antico Egitto. Da lì sarebbe stata esportata a Roma per controllare e inibire la sessualità delle schiave. Varie sono le tecniche con cui viene praticata questa ignobile usanza: la clitoridectomia, asportazione parziale o totale della clitoride (sunna); l’asportazione di parte o di tutte le piccole labbra; la cruenta infibulazione (dal latino fibula, una specie di fermaglio); la manipolazione della clitoride. 

Gli interventi, ma il termine è un eufemismo, vengono tutti effettuati senza anestesia con la conseguenza di un alto tasso di mortalità, rilevanti complicazioni sanitarie e gravi disturbi psicologici nelle poverette costrette a subirli. La clitoridectomia viene inferta alle bambine nella primissima infanzia, dal terzo al quarantesimo giorno di vita, mentre l’infibulazione riguarda una fascia d’età variante dai tre ai dodici anni. Le cifre sono spaventose. In area cristiana ne risultano vittime tra il 20 e il 50 per cento delle donne mentre in quella islamica la già triste percentuale aumenta, purtroppo, dall’80 al 100 per cento. Tutto è nascosto, protetto, da un muro, apparentemente impenetrabile, di omertà. Nell’Africa subsahariana le mutilazioni rientrano nel complesso sistema, economico e sociale, matrimoniale. Si tratta di un abominevole meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa (brideprice o bridewealth), che deve essere stata perfettamente escissa o infibulata. In caso contrario la si rimanda a casa insieme alla richiesta in restituzione del compenso versato (ingenti somme di denaro e capi di bestiame).

Il valore (nel senso letterale del termine) di una sposa deriverebbe, dunque, dalla sua verginità e le mutilazioni vengono interpretate come una forma di tutela. Dapprima le bambine vengono allontanate dalla propria abitazione e condotte nel luogo dove avverrà “l’operazione”. Seguono, poi, il dolorosissimo periodo della cicatrizzazione delle ferite e della presunta guarigione e quello, infine, dell’entrata effettiva nel mondo femminile. Una volta infibulate, le bambine devono evitare movimenti che possano causare la riapertura delle ferite saturate. In tal modo si crea e radicalizza, a livello sociale, la netta e assurda differenziazione tra componente maschile e quella femminile. Le mutilazioni dei genitali costituiscono, in sostanza, una delle forme più subdole di assoggettamento delle donne. In Italia si stima che, in seguito ai flussi immigratori, sia considerevolmente aumentato il numero di bambine fortemente a rischio. Si parla di oltre cinquantamila casi. Su questo ennesimo tipo di violenza perpetrata nei confronti delle donne non c’è molta informazione. Non ne parlano di certo i seguaci dei vari Gino Strada e tanto meno no-global, new-global, disobbedienti terzomondisti.

Perché? Una ingiustizia è sempre tale, non ha mai giustificazioni. I diritti umani sono sempre tali, non si può dire di chi usa pratiche di remota origine “quella è una cultura a sé” e stare a guardare. Una cultura, una visione (lasciatemelo dire, deviata) della storia, può e deve essere giudicata quando entra in conflitto con i principi etici comunemente accettati, quali il diritto ad una vita sana. Tutte le menomazioni imposte alle donne da chissà quale retaggio sono devianze, sono inaccettabili violenze.

Di troppe cose il mondo rimane ebete spettatore.

forum di border:
l'onu, il diritto internazionale
e la nuova
dottrina usa

 

Una nuova iniziativa on line del Limes Club Roma. Come nostra Audax Quaestio abbiamo deciso di aprire un Forum di discussione -stimolato dall'intervento del nostro socio Tommaso Coniglio- sul rapporto tra l'Onu e il caro, vecchio, diritto internazionale con la nuova dottrina Usa.

Uno spazio che rimane sempre molto libero, ma che permette di approfondire un po' di più un tema sicuramente importante alla luce degli sviluppi della questione irachena e più in generale della guerra al terrorismo.

A voi dunque: intervenite scrivendo a limesclubroma@gmail.com

 

Il potere rimasto all’Onu

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di Tommaso Coniglio

È divertente vedere come il Consiglio di Sicurezza e l’Onu per antonomasia siano stati percepiti durante e soprattutto dopo la discussione che è sfociata nella risoluzione 1441. La prima cosa da notare è l’evidente debolezza che il mondo sembra attribuire al massimo organo delle Nazioni Unite: tutti sanno che autorizzazione o non autorizzazione, se gli Stati Uniti vogliono attaccare l’Iraq, lo faranno senza problemi, magari con una fila di paesi dietro a seguirli. Non vi sembra un paradosso che l’organo che, in teoria – secondo il diritto internazionale – detiene il massimo potere mondiale, cioè quello di autorizzare o meno l’uso della forza armata, sia visto come “debole”?

Questo mi porta alla seconda osservazione: che nonostante si parli della “fine dell’Onu” intesa come sistema regolatore dell’uso della forza, il mondo lo ha richiamato a gran voce al centro della scena mondiale. L’Onu appare come il capo decaduto di una tribu africana, che nonostante non abbia ormai nessun peso sulle decisioni, viene comunque chiamato dal popolo a conferire legittimità su di esse. Il vero decisore, l’uomo che detiene il potere de facto, si stupisce: che bisogno c’è del consenso del vecchio, dato che un suo dissenso non impedirebbe alla decisione di produrre i suoi effetti?

Nel caso della tribù, sappiamo che il capo è una figura simbolica che rappresenta un’entità superiore: la tradizione, gli antenati, gli dei. Insomma, il suo suggello è importante, perché conferisce alla decisione umana una connotazione divina. Nel caso del Consiglio di Sicurezza, rappresenta anch’esso un’entità superiore: l’idea che attraverso il diritto si possa costituire un ordine mondiale sicuro, pacifico, giusto. Il fallimento della Società delle Nazioni ha infranto tale sogno, ma l’Organizzazione delle Nazioni Unite gli ha ridato vita. Il funzionamento dell’Onu rappresenta il funzionamento del progetto sottostante, dei suoi principi superiori che hanno raggiunto una dimensione quasi sacra.

L’accanimento della maggioranza degli Stati e dell’opinione pubblica mondiale per “Onuizzare” la guerra all’Iraq è, a mio avviso, dettato dalla paura di vedere il sistema internazionale regredire da un sistema di sicurezza collettiva sotto “l’imperio del diritto internazionale” ad un sistema basato sulla volontà quasi-arbitraria delle grandi potenze, o meglio di una grande potenza. Dopo due mesi di trattative, la questione è stata posta sotto l’egida dell’Onu: gli Stati Uniti sembrano aver rinunciato ad agire senza il consenso del Consiglio di Sicurezza. Che conclusioni ne dobbiamo trarre?

Sarebbe troppo facile dire, come si sente in giro, che gli Stati Uniti hanno dato il “contentino” ai membri dell’Onu, senza pagare un prezzo troppo alto: due mesi di trattative valgono ben la legittimazione internazionale della loro azione. La decisione degli Stati Uniti è stata, secondo i sostenitori di questa visione, semplicemente etichettata con un nome diverso: ad Usa si è sosituita Onu. E’ vero che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti comunque, e che l’etichetta diversa non rappresenta il potere superiore dell’Onu, bensì quello degli Stati Uniti che si servono della bandiera Onu. Così, nel perseguire i loro interessi, fanno anche un favore all’Onu, evitando di bypassarla e di sancire ulteriormente (se non definitivamente) il suo declino. Ciò non toglie nulla al fatto che il declino è reale: basta solo immaginare cosa succederà se, in un futuro, il Consiglio di Sicurezza non dovesse votare una risoluzione americana...

Il principio è stato dunque infranto: gli Stati Uniti non credono più nel sistema di sicurezza collettivo. Non importa se, oggi, per caso, sono passati attraverso i suoi meccanismi: ne hanno rifiutato il presupposto. Ciò, però, non significa che il vecchio capo del villaggio abbia perso la sua influenza: la stragrande maggioranza del villaggio vuole assolutamente il suo assenso. La pressione della comunità internazionale è fortissima: non vuole rinunciare al diritto internazionale, al sogno di poter gestire le controversie attraverso un’organizzazione internazionale basata su principi condivisi da tutti. Non credo che questo sogno vada trascurato. Come ci insegna il professore di Relazioni Internazionali di Harvard, Joseph Nye, il potere è anche soft power, cioè deriva anche dalle idee condivise da tantissime persone. Questo mi porta a pensare che gli Stati Uniti avrebbero comunque avuto difficoltà ad agire senza il consenso delle Nazioni Unite, perché l’opinione pubblica internazionale sarebbe stata a maggioranza contraria. Powell ha lo ha capito, ed è pragmaticamente riuscito a convincere Bush. D’altronde, l’Onu ha fatto aspettare gli Stati Uniti due mesi, votando una risoluzione che non autorizza a muovere guerra senza una seconda risoluzione. Niente male per un vecchio capo tribù decaduto!

 

LA VERITÀ ALLA CASA BIANCA
(NON QUELLA DI MARISA SANNIA)

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di Livio Zaccagnini

Studio Ovale. Monica non c’è più, l’era Clinton è finita. I democratici se ne sono andati portandosi dietro le W dei computer. I repubblicani sono entrati con in mano un po’ di coriandoli della Florida. Poi l’11 settembre, l’Afghanistan, la guerra preventiva e ora Saddam.

 


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