OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB |
NUMERO 3/2001 |
PREMESSA di Livio Zaccagnini
DOPO LA TRAGEDIA di Roberto Stocchetti
UNA SINERGIA INTEGRALISTA di Aldo Torchiaro
COMUNICATO DEL VIS di Maria Vittoria Sbordoni
LA RIVENDICAZIONE MANCANTE di Vincenzo Baldassarre
LA MIA IMPRESSIONE di Marco Panichelli
UNA NUOVA STAGIONE di Stefano Cera
IL MIO PENSIERO di Michele Cosimo Santoro
L'ERRORE DEI PRINCIPI UNIVERSALI di Massimo Virgilio
Subito
dopo i fatti dell'11 settembre avevamo deciso di lanciare una Audax Quaestio
sulla tragedia di New York e di Washington; visto il gran numero di risposte
arrivate su "DOPO LA
TRAGEDIA DEL WORLD TRADE CENTER: COSA NE PENSATE?", abbiamo deciso di
dedicare un numero di Border alle riflessioni sull'attacco terroristico agli
Stati Uniti.
Ecco di seguito tutte le opinioni e riflessioni, ragionate o emozionali.
Livio
Zaccagnini
Coordinatore del Limes Club Roma
di Roberto Stocchetti
11 SETTEMBRE |
Scriviamo a caldo, mentre ancora la polvere delle macerie avvolge Manhattan e le fiamme si levano dall'isola simbolo degli Usa. Eppure l'enormità della tragedia non può sollevarci dall'individuare le sue scaturigini e prevederne le possibili conseguenze.
Non vi è dubbio che gli Usa stiano vivendo un drammatico "colpo di rimbalzo"; la miope politica di sostegno della resistenza afghana negli anni '80 (Bin Laden è stato addestrato in Arabia Saudita da militari statunitensi, e non solo lui), l'operazione di polizia internazionale contro l'Iraq (in precedenza disinvoltamente armato ed eterodiretto in funzione anti-iraniana) e la recente guerra contro la Serbia non hanno solo contribuito a spargere a piene mani odi e rancori nei confronti degli Usa; hanno anche fomentato, organizzato e financo armato le forze che oggi così sanguinosamente li colpiscono
Non è scontato che le pur poderose forze aeree e navali occidentali potranno efficacemente colpire le basi dei terroristi islamici, profondamente annidiati in un impervio ed inospitale territorio posto nel cuore del blocco continentale euroasiatico.
Le due guerre di fine secolo hanno creato, a nostro parere, il pericoloso pregiudizio che la sola, debordante, potenza tecnologica dell'Occidente possa essere bastevole a vincere qualsiasi confronto. Si crede di poter sostenere conflitti a costo zero, condotti da aerei che sganciano da 5000 metri di quota missili da crociera e bombe a guida laser. Le odierne devastazioni sono un duro morso, e non solo per gli Usa, ma altrettanto duro sarà il constatare che non tutti i conflitti si vincono in tal modo (Cecenia docet). Lo scudo stellare potrà servire a promuovere il fatturato dell'industria militare statunitense ma non a difendere da un nemico che avrà pur lo spirito del maramaldo, ma anche non comuni doti di freddezza e determinazione.
Infine si potrebbe sperare che qualche uomo di buona volontà sussurrasse al presidente Bush le parole scritte dalla giornalista del "New Yorker" Mary Ann Weaver: "Questa impresa panislamica, i cui combattenti furono finanziati, armati e addestrati dalla Cia finì col portare 25mila uomini provenienti da oltre 50 Paesi a lottare contro l'occupazione sovietica dell'Afghanistan. In questo modo gli usa avevano lanciato la prima Jihad panislamica, o guerra santa, dopo otto secoli".
In altre parole andrebbe ricordato al presidente Bush, e non solo a lui, che non poche volte i problemi su cui gli Usa chiedono solidarietà sono stati suscitati da loro stessi.
di Aldo Torchiaro
11 SETTEMBRE |
L’attacco agli Stati Uniti d’America, l’attacco alla Nato, al mondo occidentale, non si può che delineare come la devianza armata di un prodotto politico: quello dell’estremismo islamico che ogni giorno prende forma, con diversi nomi, nelle diverse aree in cui si manifesta.
Si deve ricordare che il fenomeno dell’integralismo, nato nei paesi arabi dalla fine degli anni Ottanta, ha una diffusione vasta e radicata. Non esiste paese mussulmano in cui non sia presente, in misura diversa, una componente fondamentalista. La quale si alimenta di sempre nuove adesioni, sempre nuovo denaro e quindi armi.
Gli attentati del 11 settembre sono la prova di forza di questo esercito, la milizia senza bandiere che combatte perché “Il paradiso è all’ombra delle spade”. Gli apparati che hanno organizzato il complesso sistema terrorista non possono essere estranei alla struttura di uno Stato, ma possono anche richiamarsi a più di uno Stato.
Dobbiamo sapere di non essere davanti ad un tipo di “conflitto nazionale” cui la storia ci ha abituati. I terroristi stessi, in nome della follia che li anima, si richiamano ad un concetto di panarabismo islamico, di Islam-nazione, di Allah come luogo geografico da abitare.
Per questo il lavoro di intelligence deve essere più che mai raffinato e sensibile. Nessuna diplomazia, dal momento delle stragi, ha smesso per un istante di piangere. Tutti i leader del mondo arabo hanno condannato subito il terrorismo, dai Talebani a Saddam Hussein, passando per Arafat. Questo non significa che siano tutti innocenti. Credo nel contrario: che ci siano responsabilità oggettive, anche se diverse, da parte di ciascuno di loro.
In attesa che le indagini si compiano, e che le nazionalità dei primi terroristi arrestati ne chiariscano la provenienza, dobbiamo rifarci, per onestà intellettuale, ai dati acquisiti nel recente passato.
Il panorama geopolitico del mondo arabo si può suddividere in tre aree di conflitto.
Quella del Medio Oriente, lungamente scosso dal conflitto verso Israele, è la più evidente per il risalto mediatico che le si attribuisce, e perché condita da un patos particolare, che i palestinesi hanno magistralmente saputo istruire.
Quella del Mediterraneo, con uno strisciante, continuo stillicidio di intelligenze soggettive non allineate alla barbarie; eserciti di disperati che prendono forma dal nulla della polvere del deserto algerino, e che hanno sgozzato in pochi anni ventimila civili inermi.
Quella, infine, dell’Estremo Oriente, con le polveriere dell’Iraq, dell’Afghanistan e del Pakistan, che hanno realizzato negli ultimi dieci anni una vera corsa agli armamenti, e dove dittatori irascibili o talebani deliranti sistemano missili a testate nucleari quà e là sul territorio.
Su queste tre regioni del mondo arabo regna la stessa convinzione: soverchiare l’ordine mondiale è possibile, ribaltare le sorti della storia e della geopolitica è il compito supremo cui Allah chiama le giovani generazioni.
Sappiamo in quali condizioni contestuali ha potuto prendere vita la giornata del 11 novembre. L’Anp ha aperto da mesi le porte delle sue prigioni per consentire la fuga di alcuni tra i più pericolosi terroristi arabi arrestati. Fuga verso la libertà di riorganizzarsi, di raggiungere le basi di addestramento per tornare in forza.
Tutti sappiamo chi ha dato l’ordine di coprire la fuga dei terroristi. La stessa persona che consente, a Gaza, l’organizzazione di una scuola per kamikaze. La quale, operativa da più di un anno, recluta pubblicamente nuovi martiri in tutta la Palestina, e non solo. Sono centinaia, si presentano per farsi imbottire di tritolo e farsi saltare in aria quando saranno circondati da civili inermi, in Israele. E non solo lì. Ovunque nel mondo ci sia da lottare contro il nemico, quale che sia.
Risultavano ridicole, al limite del fastidio, le lacrimevoli dichiarazioni di dolore di Arafat, l’11 settembre, mentre dietro le sue finestre impazzava la gioia popolare, esplodevano fuochi d’artificio e la folla invadeva, cantando, le piazze. Le bugie hanno le gambe corte. Non si può lavorare alacremente per il terrorismo e dichiararsi ogni volta estranei ai fatti. Perché se non è stato Arafat a coordinare il piano terroristico, come credo, non può che essere, invece, tra gli ispiratori indiretti, tra i protettori, tra i fiancheggiatori dei terroristi.
Gli Stati Uniti hanno pesato sulla scena mediorientale stringendo con Israele una alleanza fortissima, e sono tornati ad essere, nella visione degli integralisti, l’incarnazione di Satana. Il nemico numero uno. La porta da abbattere per raggiungere il Paradiso.
Non so se la scuola di Gaza impartisce ai suoi allievi martiri lezioni con queste parole, ma l’esame finale consiste proprio nell’immolarsi in nome di Allah, contro ogni rispetto della vita umana. Questo basta per esprimere più di una condanna, una risoluzione fattiva, adesso che si pone la drammatica esigenza di reagire.
La Lega Araba non può non essere almeno in parte chiamata ad un esame di coscienza. Ricordo che solo dieci giorni fa, la Lega Araba nel suo complesso, rappresentata dall’ex ministro degli Esteri egiziano, Moussa, ha chiesto alle Nazioni Unite, riunite a Durban per un’analisi del razzismo, di condannare Israele. Alla reazione sdegnata degli Stati Uniti, in quella sede, possiamo far risalire la data della condanna integralista: la decisione finale di mettere in atto un piano pronto da tempo, e sul quale hanno potuto convergere le peggiori espressioni dell’Islam malato.
In un clima plumbeo e aggressivo si è aperta la conferenza di Durban.
In questo clima si sono ritirati Israele e Stati Uniti, davanti a quindici paesi arabi che chiedevano in maniera delirante la “cacciata” degli israeliani da quel consesso, in cui prendevano forma diplomatica le tesi che altri diffondono con le bombe, o i kamikaze...
Suona tardiva e stonata la rammaricata dichiarazione di solidarietà della Lega Araba agli Stati Uniti. Arriva insieme alla nuova chiusura di Arafat a negoziati di pace, spalleggiato da questo organismo. Che considera, per sua risoluzione, l’Anp come uno Stato indipendente ed Israele come un comune nemico.
Da mesi la recrudescenza del conflitto tra palestinesi e Israele aveva reso incandescente lo scacchiere mondiale: se nessun allarme attentato è stato lanciato il tragico giorno, è però anche vero che ci si aspettava da molto tempo qualcosa.
Gli osservatori Israeliani hanno registrato su internet una frenetica, crescente attività da parte dell’insieme dei navigatori nel cyberspazio arabo. I siti antisionisti sono migliaia, soltanto pochi nei territori dell’Anp. Sempre più numerose le pagine web antisemite, i documenti inneggianti ad un folle nuovo sterminio di ebrei, israeliani ed americani, e quanti li proteggono. Anche in Italia i seguaci di organizzazioni islamiche hanno lanciato sul web una delirante offensiva antisemita e anti-israeliana.
Ma la mina mediorientale non basta a rappresentare la funesta unità d’intenti che conduce alla tragedia del 11 settembre. E’ stata semmai la goccia d’odio che ha fatto tracimare il vaso.
Il Medio Oriente offre basi operative, sappiamo quante ce ne siano in Siria e Giordania, ma anche quelle di Gaza e probabilmente in Arabia Saudita. La quale contribuisce, malgrado un governo filo-occidentale, in solido attraverso il finanziamento da parte degli sceicchi più ricchi del pianeta.
Il Maghreb ha eserciti integralisti addestrati e folti, soprattutto in Algeria ma non solo. Gli egiziani sono tanti e tra i più espliciti: con i primi arresti a Boston, sono fermati tre egiziani.
In Afghanistan ed in Pakistan i governi e gli estremisti si sfumano in un’area grigia, senza distinzione; sono paesi che in una vasta azione terroristica possono impiegare strumenti complessi, fondi illimitati, coperture diplomatiche.
Siamo nel campo delle ipotesi e della fantapolitica, ma con quanto più realismo si può.
L’11 settembre non è sceso in campo un Paese ma una parte malata del mondo arabo. Una sinergia tra organizzazioni di paesi diversi, con supporti pubblici ad alto livello e sostegni finanziari privati di elevata consistenza. Dobbiamo riconoscerlo: in passato non è stato mai risolto il nodo dei grandi dittatori arabi; Hussein, i Talebani, la Siria... i terroristi palestinesi, quelli giordani... Sono tutti rimasti sempre al loro posto. Troppo a lungo, forse.
Il mondo occidentale è sul punto di intervenire. Dove ? Contro chi ?
La reazione a questa parte deviata dell’Islam non può essere quella che loro aspettano: quella semplicemente bellica, quella che fa loro conquistare davvero il martirio. L’Occidente ha il compito alto e nobile di analizzare anche tragedie così eclatanti a 360 gradi, con globalità e ponderazione. Dobbiamo rispondere senza fare della rappresaglia il nostro unico gesto. Far capire che i valori che devono vincere sono, al contrario, quelli della convivenza, del rispetto, dell’integrazione. Dire che il mondo è la casa di tutti e fare il possibile perché il benessere, il sapere, la democrazia vincano ovunque, nel pianeta.
Impegnare ognuno dei nostri Paesi, delle nostre organizzazioni sovranazionali per esportare non più armi ed odio, non più frustrazioni e invidie, ma strutture scolastiche e sanitarie, nuove tecnologie, la potenzialità di costruire un benessere stabile e diffuso.
Questa, in ultima analisi, sarà l’arma vera contro ogni terrorismo integralista. E se perché ciò possa attuarsi dobbiamo poter deporre i dittatori che offuscano la mente di tanti arabi, facciamolo. Mettiamo sotto scacco non uno ma tutti i terribili dittatori che fiancheggiano il terrorismo, come ha chiesto Peres. Arrestiamo Bin Laden, Arafat, Saddam Hussein ma non solo; incoraggiamo al loro posto la formazione di democrazie vere, mettiamo gli uomini liberi di quei paesi in condizioni di dare ai loro popoli un futuro migliore.
Un futuro di pace, per tutti.
L’attacco è al cuore
dell’impero e a tutti coloro che credono di vivere in isole felici, ove
l’orrore del mondo non può arrivare.
(Comunicato del "Volontariato
Internazionale per lo Sviluppo")
di Maria Vittoria Sbordoni
11 SETTEMBRE |
Diciamo no alla violenza per far valere le proprie ragioni.
La violenza porta solo violenza, e poco o nulla si può costruire sulle macerie fisiche e spirituali da essa prodotta, perché spesso l’odio si tramanda di generazione in generazione.
Esprimiamo piena solidarietà alle migliaia di vittime che su opposti fronti pagano di persona l’incapacità di tutti nel cercare i motivi profondi che generano questa follia.
L’attacco è al cuore dell’impero e a tutti coloro che credono di vivere in isole felici, ove l’orrore del mondo non può arrivare.
Gli ultimi incontri internazionali di Genova e Durban hanno mostrato una volta di più la complicità della politica nell’assecondare le scelte economiche, piuttosto che comprendere la necessità e l’urgenza di un’azione comune per la costruzione di una società mondiale giusta in grado di difendere i diritti umani ovunque questi siano minacciati.
Constatiamo con orrore dove ci sta portando questa divaricazione tra stati che hanno ogni potere di decidere e popoli che sono costretti a subire senza scegliere il loro futuro: siamo tutti seduti sopra una polveriera e non è difficile presagire scenari simili a quelli di oggi che potrebbero interessare tante altre nazioni
La situazione di progressivo sottosviluppo dei due terzi dell’umanità porta alla disperazione e a soluzioni irrazionali: «Muoia Sansone con tutti i Filistei!». Persa la speranza di una vita dignitosa per sé e per i propri figli, la lotta si sostituisce al dialogo e, se la vita non ti può dare nessuno sbocco perché il potere è nelle mani di chi ti schiavizza, meglio morire lottando e trascinando altri nella distruzione.
No alla guerra e alle sue cause.
Perché di guerra si tratta, tra due mondi, tra due culture.
Non possiamo ridurre questa aggressione alla decisione di alcuni folli o di una organizzazione di esaltati: è invece il gesto esecrabile e disumano, che va punito, di chi ha creduto di interpretare l’esasperazione e quel senso di indignazione profonda che fa gonfiare il cuore di rabbia verso i potenti della terra, verso gli artefici dell’ingiustizia che rende poveri la gran parte degli uomini, verso tutti coloro che non capiscono che la globalizzazione deve diventare un impegno di giustizia e sviluppo per tutti.
Noi, abbiamo fame e sete di giustizia, ci fidiamo di Dio e vogliamo essere suoi figli. Con questa profonda speranza continueremo ad impegnarci perché ogni persona possa decidere il suo futuro e veder rispettata la sua dignità e la sua diversità culturale.