OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB

NUMERO 1/2002

LE LEZIONI DELL'AFGHANISTAN di Roberto Stocchetti

C'ERA UNA VOLTA L'IMPERO SOVIETICO... dei fratelli Vyšinskij

ETIOPIA, APPUNTI DI VIAGGIO di Maria Vittoria Sbordoni

COMUNISMO, NAZISMO E TOTALITARISMO di Massimo Virgilio

BORDER JOKES - INCHIESTA INTERNAZIONALE di Federico Antilippi

SO DI NON SAPERE di Aldo Torchiaro

LE LEZIONI DELL’AFGHANISTAN 

di Roberto Stocchetti

Attualità

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L’Alleanza del Nord è a Kabul. Con un raid più che con un’avanzata è riuscita a conquistare, prima del Ramadan e dell’inverno, la capitale afgana. Una vittoria certo fulminea, inaspettata, che cambia drasticamente il quadro degli avvenimenti e pone sul tappeto nuovi problemi: vinta la guerra (o meglio la prima battaglia) si dovrà pensare alla pace, dare all’Afghanistan un governo (e già si presentano molti pretendenti), disciplinare i “Signori della guerra” e gli oltre duecento gruppi etnici che compongono la nazione e, non ultimo, pianificare gli appetiti delle potenze regionali (Pakistan in primis). Un compito, quindi, di non semplice esperimento, mentre bin Laden è ancora uccel di bosco. Per l’Occidente la vittoria significa una nuova area da presidiare col fucile al piede, quasi non bastassero quelle già esistenti.

Subito dopo gli eventi dell’ 11 settembre si è parlato di una nuova Pearl Harbor ma il paragone ci sembra improprio: il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccarono una base navale situata a centinaia di chilometri dal territorio metropolitano degli Usa; per tutta la durata della II Guerra Mondiale le potenze dell’Asse non poterono recare nessuna serie operazione offensiva contro gli States. L’undici settembre in un breve volgere, come in un romanzo di Tom Clancy, sono stati colpiti i simboli della potenza americana: il potere economico, simboleggiato dai grattaceli di New York, e quello militare, personificato nel Pentagono. Con tutta probabilità solo l’eroismo di un gruppo di passeggeri di uno degli aerei dirottati ha impedito che venisse colpito anche il simbolo del potere politico, la Casa Bianca. Si è dunque verificato un inedito evento, che sino al giorno precedente poteva essere concepibile, appunto, solo nelle pagine di un romanzo di fantapolitica. 

Sarebbe errato credere che l’attacco provenga solo “dall’esterno”; i responsabili delle lettere all’antrace potrebbero ben trovarsi fra i membri delle cosiddette “milizie”, i gruppi fondamentalisti che si oppongono al governo federale. Ed è bene rammentare che ben individuati settori dell’estrema destra sono in un rapporto sinergico con l’estremismo islamico. 

Oggi l’Occidente può fare conto sulle superiori risorse tecnologiche, mentre gli avversari possono tenere in conto una volontà di sacrificio che accetta la morte. Le opinioni pubbliche dell’Europa e degli Usa non tollerano che i loro figli possano morire in battaglia. Come nella decadenza dell’impero romano sono i barbari a dover difendere i confini dell’impero minacciato, ed anche questo ci deve far riflettere. 

L’undici settembre ci parla, in realtà, del declino dell’impero americano; negli anni a venire gli Usa continueranno, beninteso, ad essere un fondamentale fattore della politica e dell’economia internazionali, ma non potranno godere della centralità avuta sinora. La Cina ha fatto ingresso nel Wto, un gigante politico ed economico in costante espansione. La Russia sta superando la terribile crisi degli anni 90 ed è comunque un gigante che si estende per l’intero continente eurasiatico. L’amministrazione Bush, che aveva cominciato il suo mandato guardando in cagnesco queste due potenze, ha dovuto tornare sui suoi passi ed arrivare ad un accordo per la lotta contro il comune nemico. 

L’Europa affianca gli Usa ma non sembra avere una soggettività politica comune. Da Bruxelles potranno ben arrivare le direttive comunitarie in materia di agricoltura o amministrazione, ma non un segnale di una politica unitaria… Peccato, speriamo che dopo l’introduzione dell’Euro se ne torni a parlare.

C’era una volta l’Impero sovietico…

dei fratelli Vyšinskij

LETTERE

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C’era una volta l’Impero sovietico, poi l’Impero sovietico cadde e rimase solo C’era una volta; C’era una volta stava sola soletta in Rai, quando incontrò Limes e per magia diedero vita a un programma chiamato “Dagli Appennini alle Ande”…

 

Ecco, questo titolo non va per niente bene; “Dagli Appennini alle Ande”: si copia quel borghese di De Amicis; non ci piace. “Da Kaliningrad a Vladivostok” sarebbe stato più appropriato, ma in fondo, al popolo, queste sdolcinatezze piacciono. Non hanno ancora capito che il marxismo-leninismo è serietà di intenti e durezza di vita. Questi borghesi occidentali hanno corrotto la nostra rodina (patria, N.d.C.)… che ne è stato delle conquiste dei nostri padri! Che ne è stato della Grande Guerra Patriottica (la seconda guerra mondiale per i russi, N.d.C.)! Ora i capitalisti mangiano di nuovo sulle spalle dei lavoratori.

Ah, quei poveri Azeri di Baku, che, giustamente doppiati in siculo (la lingua degli emigranti italiani sfruttati dall’industria capitalistica!), venivano contrapposti alla signora ingioiellata e decadente che gli intimava di andare al collocamento (ma doveva esser doppiata in milanese!). Ah, quei ricchi e occidentalizzati burocrati che mangiavano caviale, mentre una donna brutalizzata veniva spinta sulle scale da mafiosi prezzolati dagli ambasciatori occidentali. Questo il primo documentario proposto da Baffino nel suo programma.

Il secondo era invece sulla Cecenia, ed è stato giustamente più sfumato. Perché dire che la guerra è colpa del petrolio e degli occidentali va bene, ma dire che è colpa dell’eroico popolo russo è un'altra. Tanto più che la guerra ha portato alla Segreteria generale, pardon, alla Presidenza, un membro del glorioso Kgb. Non un corrotto dall’occidente come El’cin! E corrotto come lui è anche quel funzionario russo che si occupa di petrolio, che biascicava insensatezze, dicendo che la Cecenia non ha greggio e che la guerra non è colpa del petrolio! Lo diceva perché è al servizio degli Occidentali e della Cia e quindi veniva giustamente doppiato con una voce da lascivo mafioso onanista. Ora serve gli americani! Non avrebbe parlato così quando il 40% del petrolio ceceno serviva a far volare i nostri Tupolev (bombardiere pesante sovietico, N.d.C.)! Allora sì che aveva una buona destinazione, non come oggi che è in mano degli americani. Noi, con i nostri bombardieri, volevamo la pace, mentre il petrolio in mano all’Occidente porta solo alla guerra!

Tutte le guerre nascono per il petrolio degli americani! Anche quella del Kosovo c’è stata per colpa del Corridoio 8! Lo ha detto il dottor Pedde (ma del nome non siamo sicuri perché giustamente non vengono proposti i sottotitoli, in modo da mantener segreti nomi che le spie potrebbero carpire!). È inutile che  Lucio Caracciolo neghi! La guerra c’è stata per colpa del Corridoio 8 e per prostrare i Serbi, fraterni amici slavi del popolo russo! Lo conosciamo bene Lucio Caracciolo, che si permetteva già sedici anni fa di ironizzare sulla Sed dei gloriosi operai tedeschi! Altro che “gabbia in cui i comunisti rinchiudono il fratello maggiore socialdemocratico” (da “Alba di Guerra Fredda”, N.d.C.). La Sed era uno strumento di libertà della classe operaia!

Con lo stesso piglio sarcasticamente sprezzante verso la classe operaia si è permesso di dire che la guerra in Afghanistan non è stata organizzata dagli americani, a causa di un oleodotto, già da luglio. Invece già da allora volevano attaccare! E quindi, cosa implicitamente dedotta dalle parole di due ospiti, ma che noi esplicitiamo e chiariamo (Caracciolo ha provato a confondere le idee, ma non c’è riuscito!), sono stati gli americani stessi a buttare gli aerei contro le torri, in una congiura giudaico-pluto-massonica-occidentale-anticomunista-capitalista-borghese-liberale-liberista-e-libertaria. Ah ah, lo ha detto l’ex ministro naïf del Pakistan di nome Naiz-Naif, che un emissario americano stava trattando a luglio con i Talebani, e se questi non avessero fatto i bravi, gli Stati Uniti li avrebbero bombardati! Checché ne dica quello zarista di Caracciolo! Anche precedentemente, quando un esperto russo parlava delle guerre nel Caucaso, affermava che tutte le guerre sono colpa del petrolio. E dietro aveva la carta dell’Afghanistan! C’è bisogno di ulteriori prove della colpevolezza capitalista? Ma noi, che amiamo il diritto e la giustizia, ve le forniamo: gli americani volevano fare un oleodotto e avevano avuto già molti contatti con i Talebani, invitandoli perfino negli Stati Uniti! L’ha detto Brisard, mentre quel Maresca dalle spalline rigide (Elemento della divisa zarista -simbolo di vessazioni e ingiustizie- poi abolito dai bolscevichi, N.d.C.) negava. Diceva anche che l’emissario americano era sì in Afghanistan, ma tre anni prima rispetto al luglio 2001, quando avrebbe minacciato i Talebani. Bugie capitalistiche: come se uno non si può fermare tre anni in un posto! Io sono più di dieci anni che sto a dacia, cioè casa, mia. Lo vedi? Lo vedi che i capitalisti come Maresca mentono sempre? Ma Maresca è stato giustamente interrotto dal conduttore Baffino.

Ah, quel conduttore Baffino, come è bravo. Giustamente ha detto che usare i dittatori per controllare Stati pericolosi è orrendo! Noi sì che liberavamo i popoli di tutto il mondo dalla dittatura capitalista, e grazie a leader non solo amati dal popolo proletario, ma anche nostri amici, portavamo loro la luce del progresso! Quel Baffino che mostra i risultati del capitalismo a Baku, con quei poveri bambini abbandonati nelle mani di amorevoli cure degli ottimi orfanotrofi sovietici, pardon, ex-sovietici! Morte e ingiustizie! Povertà e fame! Questo è il frutto del liberismo! Ma lui, bel Baffino, lo ha rivelato.

Lui è il conduttore del programma, e presto Lucio Caracciolo verrà espulso da dietro quella orrenda scrivania! Verrà cacciato, lui e le sue risposte precise ma sprezzanti nei confronti del popolo, e poi sarà mandato a contare gli alberi (Vecchio detto russo: al tempo degli zar, l’unica cosa da fare in Siberia era contare gli alberi… N.d.C.)! Perché il marxismo-leninismo vincerà, non ci sono dubbi! E Baffino rimarrà da solo a condurre la trasmissione, senza l’inutile suppellettile di Limes!

 

firmato

I fratelli Vyšinskij

(che siamo noi)

  

…così Limes e il suo direttore furono sconfitti. Baffino diede al suo regno una nuova era di pace e abbondanza: tutti erano felici e leggevano i libri della Klein. Baffino senza Caracciolo e senza Limes poté finalmente sposare Baffone e comunicare a tutto il mondo il suo amore per lui. Ebbero tanti bambini e vissero tutti felici e contenti.

Fine

Etiopia, appunti di viaggio

di Maria Vittoria Sbordoni

africa

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Paese unico, dai forti contrasti, l’Etiopia vanta alcuni importanti primati. Detiene il prestigioso titolo di culla dell’umanità, poiché conserva i resti fossili di Lucy, il primo  ominide della storia vecchio di oltre tre milioni di anni. Conserva l’Arca dell’alleanza, che la tradizione ortodossa etiope vuole custodita nella città santa di Aksum in mezzo alle stele, i grandi monoliti di pietra, simbolo del potere e dell’autorità di uno dei regni più potenti dell’antichità.

La sua particolare posizione geografica come punto di raccordo tra le principali rotte commerciali, se da una parte ha favorito l’incontro di popoli, lingue, religioni e culture diverse e la nascita di straordinarie civiltà, è responsabile delle alterne vicende di questa terra contesa.

L’Etiopia è un mosaico di etnie e lingue diverse. I suoi 60 milioni di abitanti sono suddivisi in 90 etnie. Gli amara e i tigrini rappresentano il 32 per cento della popolazione, e gli oromo il 40 per cento.

La religione ortodossa si è radicata qui fin dal V secolo d.C. nonostante la diffusione dell’islamismo, dando origine alle straordinarie chiese rupestri di Lalibela dove si svolgono tuttora fastosi riti e liturgie; oggi è praticata dal 40 per cento della popolazione.

La lingua ufficiale è l’amarico ma nel paese si parlano 83 lingue e fino a 200 dialetti.

La complessità etnica è alla radice del conflitto interno tra il governo del primo ministro Meles Zenawi, tigrino, e i suoi oppositori politici rappresentativi delle minoranze. Agli scontri di piazza nell’aprile 2001 tra dimostranti e polizia con oltre 50 morti, sono seguite repressioni e rappresaglie; la presenza di militari e i continui controlli fanno tutt’oggi percepire un’atmosfera tesa.

Altrettanto complesse le ragioni del conflitto con l’Eritrea, nonostante la comune origine tigrina delle leadership dei due paesi. La situazione permane instabile, nonostante l’accordo di pace firmato ad Algeri nel dicembre 2000, che dovrebbe porre fine al sanguinoso conflitto esploso il 1 maggio 1998 al culmine di una disputa sulla linea di frontiera. A garanzia dell’accordo le Nazioni Unite (Unmee) hanno dislocato proprie forze lungo la Temporary security zone (Tsz), ma non lascia ben presagire – a evidenziare che ben altri sono i motivi del conflitto -  il fatto che i due governi non abbiano ancora siglato un compromesso sulla definizione geografica dei confini della stessa Tsz.

La guerra ha ostacolato lo sviluppo e impedito l’attuazione delle strategie governative per la riduzione della povertà, programmate anche con il sostegno di fondi internazionali, con la conseguenza di rendere l’Etiopia uno dei paesi più poveri del mondo, con un reddito annuo pro capite di 167 dollari e un’aspettativa di vita alla nascita di 46 anni.

 

Nella periferia di Addis Abeba

Addis Abeba è caotica: pecore, capre e asini si aggirano nel traffico e nelle strade polverose con assoluta noncuranza. Le donne sono avvolte nei natala, i bianchi scialli con  bordature colorate, molte trasportano sulle loro spalle enormi fascine di legna. La gente vende frutta e verdura, a dimostrare come il modello di vita sia tuttora agropastorale. La città, dispersa su un’area di oltre cinquanta chilometri quadrati, sembra un’immensa periferia o piuttosto un insieme di villaggi, senza un centro vero e proprio. 

Alcuni degli edifici più moderni dominano la zona detta Piazza, che conserva un’atmosfera vagamente italiana a ricordare la nostra breve occupazione, come il palazzo di Hailé Selassié che fu residenza del viceré Graziani e ospita oggi il museo etnografico.

I pesanti bombardamenti lungo la linea di confine hanno costretto la gente ad abbandonare cittadine e villaggi e la presenza di campi minati ne impedisce il rientro. Gli sfollati si aggiungono alle migliaia di cittadini etiopici deportati dall’Eritrea, che si ammassano nelle fatiscenti baraccopoli di fango e paglia che circondano Addis Abeba.

Le condizioni sociali e sanitarie sono pessime e in un contesto così degradato l’Aids è dilagante; forte è la riprovazione sociale nei confronti della malattia: molti malati dicono di avere la tbc per sfuggire all’isolamento.

Insieme alla guerra, l’Aids sta producendo milioni di orfani. E’ una vera e propria emergenza sociale resa visibile dalla presenza di bambini che affollano le strade di Addis Abeba, abbandonati a se stessi. Moltissimi di loro sono sieropositivi: secondo dati delle organizzazioni umanitarie, oltre ottocentomila bambini in Etiopia sono sieropositivi. Visitiamo un centro che ne accoglie 200, dai pochi mesi ai quattro anni d’età,  gestito dalle suore di Madre Teresa di Calcutta.

Ai bambini di strada di Addis Abeba sarà rivolto un nuovo intervento del VIS con i contributi della Cooperazione italiana, a integrazione degli interventi delle istituzioni, delle Ong locali e degli Organismi internazionali (Unicef).

 

Da Addis Abeba a Makallé

Sotto una pioggia battente e una visibilità limitata a poche centinaia di metri, il nostro aereo atterra – non senza esitazioni da parte del pilota - sulla striscia d’asfalto che rappresenta tutto l’aeroporto di Makallé. La cittadina, capoluogo del Tigray, è situata tra le ambe, le montagne piatte caratteristiche dell’acrocoro etiopico. La pioggia e la nebbia ci accompagnano per tutto il tempo della nostra permanenza in questa regione, creandoci non pochi problemi per gli spostamenti. Ci dicono che le piogge siano eccezionali rispetto agli scorsi anni.

La scuola tecnica, che fa parte della prima opera aperta dai Salesiani in Etiopia nel 1975,  sorge nella parte meridionale della cittadina, non lontano dalla principale arteria che collega il Tigray all’Eritrea; ora la frontiera è chiusa.

Nella scuola si sta realizzando un corso mensile di riqualificazione per insegnanti tecnici, nel quadro di un progetto del VIS e con i contributi della Cooperazione italiana. Si tratta di insegnanti provenienti da tutti gli istituti tecnici professionali pubblici e privati della regione (due di sesso femminile), cui esperti italiani stanno dando elementi per una didattica aggiornata nei settori della saldatura, della motoristica, dell’informatica, del disegno tecnico e della meccanica. Molto proficue si rivelano le visite ad alcune realtà industriali dell’area, dove i partecipanti possono vedere applicati gli insegnamenti impartiti durante le lezioni.  L’atmosfera è serena e collaborativa, nonostante l’innata ritrosia degli etiopici verso i ferengi, gli stranieri.

Fuori della scuola si svolge una vita semplice: il fabbro batte il ferro con cui realizza reti metalliche, i bambini giocano nelle pozzanghere create dalla pioggia interrompendosi solo per  affollarcisi intorno ogni volta che attraversiamo la strada che separa la scuola dalla nostra residenza. Al tramonto mandrie di buoi pezzati dalle lunghe corna rientrano dal pascolo; frotte di asini stracarichi, gli insostituibili compagni di lavoro introdotti in Etiopia dai nostri Alpini, passano frettolosi, incitati da ragazzini vocianti.

Dietro l’angolo le donne vendono grandi cesti di fichi d’india, altra eredità italiana ed unica risorsa alimentare fino al prossimo raccolto, oltre ai sacchi di cereali distribuiti dalle agenzie umanitarie.

Il grande monumento alla liberazione dal regime di Menghistu domina MakaIlé, creando un incredibile stridore tra l’ambiente rurale che caratterizza la città e il quartiere moderno con il compound universitario.

 

La strada degli italiani

Ci passiamo vicino per iniziare il viaggio che ci porterà ad Adua, percorrendo la strada, a tratti sterrata, fatta dai nostri connazionali  alla metà degli anni ’30 durante la campagna militare per l’Africa Orientale Italiana.

Sorprende la validità e la modernità di quest’opera; alcuni tratti di montagna sono interamente scavati nella roccia, con terrapieni e audaci muri di contenimento su vertiginosi strapiombi. 

I villaggi che attraversiamo hanno ancora in piedi alcune case coloniche di stampo italiano, con scritte fasciste sbiadite dal tempo.

Percorriamo ampie e verdissime vallate punteggiate da boschi di euforbie e ricche di animali al pascolo; risaliamo  i costoni delle ambe fino a passi che toccano i tremila metri tra panorami di struggente bellezza, dove l’aria si fa rarefatta e il fiato resta sospeso a guardare le gole e i canyon che si aprono sotto di noi. La pioggia incessante ci costringe, dopo Enticciò, a una sosta: la strada è stata portata via dal torrente di fango. Aspettiamo  che le acque si plachino e poi tentiamo il guado, fortunatamente senza danno.

Man mano che ci avviciniamo alla frontiera con l’Eritrea, si fanno più numerosi i campi profughi allestiti dalle organizzazioni umanitarie, affollati di gente malmessa. Le già precarie condizioni di vita sono rese ancora più difficili dal fango e dalla pioggia. Dai posti di  distribuzione dei cereali la gente porta via i sacchi come può; i più fortunati li caricano sugli asini o sui cammelli.

Caccia militari sorvolano continuamente la zona, rendendo l’atmosfera più pesante.

Verso Adua, in lontananza ci indicano il massiccio dell’Amba Alagi dove il primo marzo  1896 l’esercito italiano – oltre seimila soldati – fu annientato dalle schiere dell’imperatore Menelik II. Un piccolo cippo all’inizio di Adua, posto dagli italiani a cento anni dalla battaglia, commemora i nostri caduti. 

Il Don Bosco Center di Adua è costruito su un poggio; le montagne si susseguono tutt’intorno formando incantevoli quinte. Centinaia di bambini e ragazzi lo frequentano ogni giorno, trovandovi spazi per giocare e per studiare, in alternativa alle loro abitazioni malmesse; i più grandi seguono i corsi di formazione professionale (saldatura, falegnameria, informatica). Con i contributi dell’Unione Europea il VIS ha ampliato le apparecchiature per i corsi professionali della scuola.

A metà giornata ci attende sempre un buon caffè. L’Etiopia ha uno dei caffè migliori del mondo, originario della regione di Kaffa. La cerimonia quotidiana ci permette di degustare questa bevanda con tutti i sensi: si inizia spargendo erbe profumate in terra, mentre  i semi sono messi a tostare su un piccolo braciere e intorno se ne diffonde il fumo e l’aroma. Su un altro braciere scoppiettano i pop corn per ingannare l’attesa. I semi pestati sono messi qualche minuto a macerare in una brocca sul fuoco, da cui poi viene filtrato il caffè: sono previste tre tazzine a testa, ed è scorretto non accettare.

 

Roma, 24 gennaio 2002

 

Maria Vittoria Sbordoni fa parte del Settore Progetti - Ong VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), Via Appia Antica, 126 - Roma

 


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