Una Rete Europea di Enti Locali per la Pace in Medioriente
di
Raffaele Porta

Sono ritornato in Palestina dopo un anno e mezzo. Mancavo dai Territori occupati dal gennaio del 2003, da quando riuscimmo a portare a Napoli alcuni bambini cardiopatici che avevano urgenza di essere sottoposti a delicati interventi di alta chirurgia. Questa volta sono partito, in rappresentanza della città di Napoli, come componente di una delegazione europea di enti locali. Si è trattato di una felice novità. Infatti, molte delegazioni di tanti Comuni, Province e Regioni di vari Paesi europei si sono recate in Palestina in questi anni per portare solidarietà e soprattutto per tentare di dare una mano ai pacifisti ed agli uomini ed alle donne di buona volontà di entrambe le parti. Questa volta, invece, lo scopo della missione è stato quello di andare a parlare con i Sindaci, sia israeliani che palestinesi, non come amministratori delle singole nostre città, ma come membri di una “Rete Europea di Enti Locali per la Pace”.

Avevamo lavorato per circa un anno alla creazione di un movimento transnazionale avente il fine di contribuire a promuovere la pace in Medioriente. Rappresentanti di città grandi e piccole - italiane, francesi, belghe, spagnole, greche – si erano riuniti la prima volta a Bruxelles, poi a Napoli ed infine a Parigi per iniziare un percorso comune, per mettere insieme le singole forze, per contare di più nel tentativo di raggiungere quegli obiettivi che a molti appaiono con il passare degli anni sempre più lontani: il ritiro degli israeliani dai territori palestinesi occupati, la fine degli attentati kamikaze e degli omicidi mirati, l’interruzione della costruzione del muro della vergogna ed il suo abbattimento, la creazione di due Stati per due popoli con Gerusalemme capitale di entrambi. Insomma, la pace tra Israele e Palestina.
Tentare di essere sinergici e, come si suol dire, fare massa critica. Non parlare come Napoli, Dunkerque o Barcellona, e neppure come Italia, Francia o Spagna, ma parlare come europei. E non solo agli israeliani ed ai palestinesi, ma parlare da europei al resto dell’Europa, a tante altre città ancora non sufficientemente sensibilizzate al problema. Parlare anche all’Europa come unione di Stati, all’Unione Europea come soggetto politico, per spingerla a fare di più ed a contare di più sullo scenario internazionale. A pretendere che faccia la parte che le spetta e svolgere il ruolo che ha il dovere di svolgere. Le responsabilità di alcuni Paesi europei per ciò che è accaduto e continua ad accadere in Medioriente sono infatti enormi, ed è superfluo ricordarle. E’ necessario invece non dimenticare che la “road map” è stato un percorso avviato e sostenuto dal cosiddetto “quartetto” di forze che oltre l’ONU, gli Stati Uniti e la Russia, contempla la presenza, con pari diritti e doveri, anche dell’Unione Europea.

Nelle riunioni preliminari di costituzione della Rete - che alla fine ha preso il nome di “Rete Europea per la Pace in Medio Oriente” - un ruolo trainante è stato svolto dai Comuni italiani aderenti al Coordinamento degli Enti Locali per la Pace, e dal suo Direttore Flavio Lotti, dalla analoga rete francese con la città di Dunkerque in prima linea, e da alcune città spagnole come Barcellona e Cordoba. Sono proprio queste ultime ad essere state designate come sedi dei due prossimi appuntamenti della Rete. Il primo, quello di Barcellona, di tipo organizzativo interno, sarà rivolto essenzialmente a dare una definitiva struttura operativa alla Rete. Il secondo, quello di Cordoba, avrà il fine di mettere insieme e far dialogare i Sindaci e gli amministratori di tante città grandi e piccole dell’Europa con quelli del maggior numero possibile di città sia israeliane che palestinesi.
Nelle riunioni preliminari di Napoli e Parigi fu espressa anche l’intenzione di organizzare entro luglio 2004 una missione in Medioriente: la prima missione di una delegazione europea, di città di diversi Stati europei, e non solo di un singolo Stato come avvenuto finora. Il tempo per organizzare il viaggio e gli incontri, e per informare e raccogliere le adesioni, era estremamente limitato. Fu lasciato così ai francesi l’onere di organizzare questa prima missione, anche perché era già prevista una visita a Gaza del Sindaco di Dunkerque, Michel Delebarre, in occasione dell’inaugurazione di un parco giochi alla cui costruzione la città di Dunkerque aveva dato un significativo contributo all’interno del progetto “Eurogaza”.
Fu così che il 17 luglio scorso ripartii da Fiumicino alla volta di Tel Aviv. Con me, in rappresentanza del Consiglio comunale di Napoli, c’era Nino Funaro, già compagno di viaggio nelle precedenti missioni della nostra città in Medioriente. Chissà se e quanto hanno influito questi viaggi in Palestina sulla decisione di Nino di lasciare Forza Italia e di aderire alla coalizione di centrosinistra. All’aeroporto romano incontrammo anche Alberta Basaglia, figlia del grande psichiatra in rappresentanza del Comune di Venezia, e Edoardo Daneo del coordinamento dei Comuni per la Pace della Provincia di Torini, anche loro compagni di precedenti missioni. Partirono con noi da Fiumicino anche il Sindaco di Agrate, Adriano Poletti, e due amministratori spagnoli (anzi catalani!), Miguel Angel Prieto e Julio Clavijo Ledesma. All’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv trovammo Flavio Lotti ad aspettarci. Flavio era lì già da due settimane insieme alla moglie Randa, una palestinese doc di Ramallah, per trascorrere le vacanze coi familiari di quest’ultima. Nessun problema con le autorità militari israeliane al nostro arrivo. Poche scontate domande da parte loro, poche bugiarde risposte da parte nostra. Occorre sempre evitare di ammettere, infatti, che si intende andare nei Territori palestinesi, siano essi West Bank o striscia di Gaza. Loro te lo chiedono, tu menti, e loro fanno finta di crederti.
Questa volta, in verità, ero un po’ preoccupato perché era la prima volta che sbarcavo in Israele dopo aver vissuto agli inizi del 2003 l’avventura di portare in Italia cinque bambini cardiopatici che salvammo superando gli ostacoli crudeli della guerra e della burocrazia militare israeliana. E soprattutto quella era la prima volta che tornavo in Israele dopo l’avvenuta pubblicazione del mio libro (“Un cuore nuovo”, ed. L’Ancora del Mediterraneo) che di certo, per il suo contenuto, avrebbe potuto bollarmi quantomeno quale soggetto non desiderato dalle autorità israeliane. Nessun problema, comunque, e dopo aver salutato un funzionario dell’Ambasciata italiana a Tel Aviv venuto gentilmente ad accoglierci in aeroporto, ci infilammo in uno dei tanti furgotaxi esistenti in quella terra per dirigerci alla volta di Gerusalemme dove giungemmo dopo poco più di un’ora.
A Gerusalemme per la prima volta non ho alloggiato al-l’Hotel Ambassador. I francesi avevano infatti prenotato per tutti all’Hotel Meridien, sempre a Gerusalemme Est, albergo poco distante dal primo ma meno noto ed intrigante. Il fascino dell’Hotel Ambassador risiede nell’essere un luogo straordinario d’incontri e di scambi di esperienze tra persone di varia provenienza. I palestinesi vanno lì con la scusa di bere qualcosa, consapevoli di imbattersi con stranieri dagli interessi non squisitamente turistici. Questi ultimi sanno che prima o poi saranno avvicinati da qualcuno che, per lavoro o per militanza, si propone di far conoscere loro la reale situazione del popolo palestinese, o almeno il suo punto di vista.
Nella sua accogliente hall si organizzano spedizioni nelle diverse città dei territori palestinesi occupati, anche in quelle dove è vigente il coprifuoco e dove non si sa, quando si parte, se si arriverà e per quale strada. A volte, infatti, per coprire pochi chilometri sono necessarie ore di cammino - in macchina o anche a piedi per certi tratti - per evitare particolari checkpoint resi in quel particolare momento proibitivamente invalicabili. A volte può trattarsi di Jenin, dove ad esempio in nessuno dei miei viaggi sono mai riuscito ad entrare e nella cui periferia, nel 2002, il nostro furgone subì una smitragliata da parte di un soldato israeliano che intese così punire il nostro tentativo di aggirare un posto di blocco. In quello stesso anno riuscimmo invece ad entrare a Ramallah. Anche in quel caso non attraverso il checkpoint, ma per un sentiero che attraversava alcune cave ed alcuni cantieri nei quali erano al lavoro operai che si resero complici della nostra ostinazione di raggiungere la città sede dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Altre volte è la città di Betlemme, che dista soltanto pochi chilometri da Gerusalemme, ad essere resa completamente inaccessibile.
In questo momento è Nablus la città che viene tenuta in una strettissima maglia di asfissianti controlli. E’ da Nablus, infatti, che sono partiti negli ultimi tempi diversi commando che hanno seminato morte tra i soldati e talvolta anche tra i civili israeliani. Nel centro storico di Nablus esistono viuzze e, dicono, anche sentieri sotterranei nei quali è facile nascondersi e sfuggire alla cattura. E’ per questo che la città viene tenuta sotto costante assedio. Ed è per questo che è stato costruito un attrezzato checkpoint alla sua periferia, invalicabile senza permessi speciali. Ci hanno anche riferito che non di rado è possibile assistere nel centro storico della città a scene nelle quali soldati israeliani, travestiti da civili palestinesi, estraggono improvvisamente le mitragliette nascoste sotto le loro vesti e arrestano qualcuno da loro ricercato o sospettato. E se costui si dà alla fuga, la sparatoria è d’obbligo e l’esito più probabile è la sommaria esecuzione del presunto terrorista.
Fu proprio a Nablus che ci recammo Nino Funaro ed io l’ultimo giorno di questo nuovo viaggio in Palestina, quando la maggior parte dei delegati avevano già fatto ritorno ai loro Paesi di origine. Ci andammo per incontrare il nuovo reggente della città, Hussein Alaraj, dal momento che il vecchio Sindaco era stato di recente “destinato ad altri incarichi”. Avevamo anche appuntamento con Ahmad, uno dei bambini che avevamo portato a Napoli l’anno precedente e che fu sottoposto a trapianto cardiaco. Il nostro taxi fu bloccato al checkpoint all’ingresso della città e fummo pertanto costretti ad aspettare un paio d’ore. Ingannammo il tempo soddisfacendo alcune nostre curiosità attraverso alcuni quesiti che ponemmo al nostro autista che si chiamava Abu Shadi. Colsi l’occasione ad esempio per scoprire il significato del prefisso “Abu” spesso presente nei nomi palestinesi. Basti ricordare i nomi dei due ultimi primi ministri Abu Mazen ed Abu Ala. Abu Shadi fece precedere la sua risposta da due domande. Mi chiese quale fosse il mio cognome e se avessi figli. A quel punto sorridendo mi disse che, se fossi stato palestinese, avrei cambiato al momento della nascita del mio primo figlio il mio nome in Abu Porta. Con quest’esempio mi spiegò che Abu è un suffisso che si aggiunge al proprio nome nel momento in cui si diviene “padri”. Mi parve molto bella questa sottolineatura dell’importanza della paternità. Molto bella ed anche inaspettata.
Mentre discettavamo su questa ed altre amenità, un camioncino rosso dei vigili del fuoco del Comune arrivò per prelevarci e portarci al municipio. Ahmad e suo padre Mohamed Jamal ci attendevano davanti al portone con un grande sorriso stampato sul volto. L’affetto e la gratitudine di Ahmad e dei loro genitori nei confronti della nostra città resta enorme e loro non perdono occasione per esternare l’uno e l’altra. Ci abbracciammo ed entrammo insieme nella stanza del Sindaco dove Hussein Alaraj ci attendeva insieme ad alcuni suoi collaboratori. Dopo aver perfezionato alcuni aspetti di un protocollo di amicizia tra le nostre città, ci recammo all’Università “An-Najah” dove con il Rettore Rami Hamdallah ed il suo Vice Maher Natsheh concordammo la stipula di un gemellaggio con l’Università di Napoli “Federico II” ed una visita a Napoli il prossimo ottobre per siglarlo. Ultima tappa del nostro giro fu una passeggiata fra le macerie del centro storico e la visita a casa di Ahmad dove sua madre Sahera ci attendeva con gli altri tre figli ed il fratello di Mohamed Jamal. Durante tutto il giorno sentimmo esplodere, con una frequenza inquietante, colpi di vario genere: mortai, carriarmati, fucili, bombe. L’esplosione più violenta l’udimmo quando eravamo a casa di Ahmad. In quel momento ero in bagno e vidi tutti gli oggetti davanti a me tremare. Alcuni caddero mentre il lampadario cominciò ad oscillare come un pendolo. Effetto identico ad un terremoto. Più tardi venimmo anche a conoscenza che un’ora dopo aver lasciato il municipio, mentre eravamo a colloquio con il Rettore dell’Università, alcuni uomini armati erano entrati nella casa comunale ed avevano rapito un funzionario in segno di protesta contro l’Anp. Ci dissero poi che l’intervento personale del Presidente Arafat consentì la liberazione dell’ostaggio nella stessa serata.

A poche ore dal nostro arrivo a Gerusalemme, nel giardino dell’Hotel Meridien incontrammo il resto della delegazione. Cioè i francesi. Capo dell’intera delegazione era Bernard Stasi, un amabile settantenne, già Ministro e Difensore civico di Francia, oggi Presidente dell’Associazione “Citès Unies France” (l’associazione dei Comuni francesi corrispondente della nostra ANCI). La rappresentanza più significativa della delegazione era composta dal Vicepresidente Georges Morin, dal Consigliere della Comunità urbana di Dunkerque Claude Nicolet, dal Direttore dell’Ufficio Relazioni Internazionali della stessa città, il poliglotta Bruno Cooren, e da Delphine Crevola, segretaria di “Citès Unies France” e responsabile organizzativa della missione. Il Sindaco di Dunkerque Delebarre ci raggiunse il giorno dopo. Alcuni di noi già si conoscevano, altri si conobbero in quell’occasione. La lingua francese divenne quella ufficiale durante la missione, sia per il numero alto di francesi che facevano parte della delegazione sia anche (mia personalissima opinione!) per quel sentimento di “grandeur” che, nonostante le più nobili intenzioni, stenta ancora in una parte dei francesi a dissolversi in un sentimento unitario europeo. Il poliglotta Bruno Cooren, a onor del vero, si cimentò in veri e propri salti mortali linguistici per attenuare il disagio di qualcuno. Purtroppo, l’amara considerazione resta che di veramente unica in Europa, per il momento, resta ancora solo….la moneta!
Durante il corso di questa prima riunione della delegazione la specificità della componente francese apparve subito evidente. Il governo francese era stato tacciato recentemente dal primo ministro Sharon di antisemitismo, e pertanto più volte fu espresso il concetto che sarebbe stato necessario che la delegazione, per evitare di apparire eccessivamente filopalestinese, mostrasse grande fiducia nella volontà di pace che i nostri interlocutori israeliani certamente avrebbero espresso negli incontri che avremmo avuto.
In verità, durante i molteplici colloqui avuti con le autorità politiche ed amministrative israeliane, non mancarono momenti di tensione - anche se abilmente controllata - a seguito di affermazioni alquanto discutibili di alcuni nostri interlocutori. Come ad esempio quando Meir Nitzan - Sindaco da una vita della città israeliana di Rishon LeZion e recentemente nominato presidente di un comitato di città israeliane per la pace – che, dopo aver stigmatizzato l’operato del Presidente Arafat ed aver definito quest’ultimo un “criminale”, si dichiarò contrario alla costruzione del muro esclusivamente per ragioni “militari”. Egli sostenne infatti che, se si era in guerra - ed Israele lo era - non andavano costruiti muri difensivi e che la guerra si poteva e si doveva vincere attaccando il nemico sul suo territorio. Queste affermazioni, in verità, fecero sobbalzare dalle sedie non solo i componenti francesi ma tutti i componenti della delegazione presenti all’incontro. Non contento il Sindaco Nitzan, alla domanda su cosa ne pensasse degli “Accordi di Ginevra”, liquidò la questione con la seguente laconica sentenza: “accordi raggiunti da chi non ha titolo per trattare non meritano di essere presi in considerazione”.
Io mi ero già imbattuto con il potente Sindaco israeliano nel corso del mio ultimo viaggio in Palestina, tanto che dedicai all’incontro avuto con lui un intero capitolo del mio libro. Lui mi riconobbe in quest’occasione e, guardandomi negli occhi, esordi’ con un minaccioso “noi ci siamo già conosciuti…io ho buona memoria!”. In quel momento ebbi netta la sensazione che avesse letto il mio libro e quindi mi limitai a rispondergli con un timido “si...l’anno scorso”.
Gli altri incontri con gli israeliani furono in verità meno tesi, alcuni molto formali altri più sinceri e produttivi. Tra i primi, quello di Tel Aviv con il Vicepresidente dell’ULAI (Associazione delle città israeliane) Eli Levy ed il suo Vicedirettore generale Avi Rabinovitch brillò per la lampante e provocatoria falsità espressa negli interventi di entrambi gli esponenti della destra israeliana. Essi affermarono di condividere a pieno la nostra iniziativa, e quasi ci sfidarono a provare di coinvolgere i Sindaci palestinesi e l’APLA (Associazione delle città palestinesi) in accordi concreti di collaborazione con loro, mostrandosi entrambi pieni di buona volontà ma più che scettici sulla reale capacità dei palestinesi di ricercare la pace. Come si può, pensai tra me e me, volere veramente la pace essendo convinti fino in fondo che l’altro non la vuole? Del resto il carattere formale dell’incontro con i due esponenti dell’ULAI si era rivelato tale già prima di entrare nella sala riunioni, quando fummo invitati a consumare il caffè e le bibite, che ci avevano gentilmente offerto, fuori dalla sala per evitare di sporcare le poltrone recentemente rittappezzate.
Tra gli incontri non formali, invece, estremamente interessante fu il confronto con la parte israeliana dei negoziatori di Ginevra, tra cui Yossi Beilin, e quello con la figlia del mitico generale Moshè Dayan, Yael. Vicesindaco di Tel Aviv, Yael Dayan ci è apparsa donna capace di comunicare con grande intensità sia la sua passione politica che la sua preoccupazione e la sua sofferenza per lo scenario di guerra infinita in cui è costretta ad agire. Beilin - come fece in seguito il suo partner palestinese di Ginevra Yasser Rabbo che incontrammo due giorni dopo a Ramallah - ci descrisse le iniziative in corso e quelle future del gruppo israeliano che aveva siglato i ben noti accordi. Il parallelismo delle azioni previste dalle due parti fanno immaginare che siano state anch’esse discusse e concordate attentamente a Ginevra e che esse stesse siano parte integrante degli accordi. Emerse con chiarezza da entrambi gli incontri che l’aspetto più importante di quanto accaduto a Ginevra risiede nella dimostrazione che un accordo di pace tra gli israeliani ed i palestinesi è ancora possibile. Possibile, innanzitutto, se a trattare sono personalità di prestigio e limpide: israeliani e palestinesi che vogliono sinceramente la pace, che sono disponibili a cedere qualcosa, che hanno il coraggio di fare passi indietro, che sono capaci cioè veramente di mediare. E’ vero - lapalissiano direi e non c’era bisogno di apprenderlo dalla voce del Sindaco Nitzan – che i mediatori di Ginevra non hanno ricevuto alcun mandato dai governi di Israele e dell’Anp. Ma è altrettanto indiscutibile che lo spirito di Ginevra è quello giusto per il raggiungimento di una pace possibile. E’ fuor di dubbio che quello spirito e quelle modalità di trattare rappresentano per le autorità sia israeliane che palestinesi un esempio da imitare. Più presto lo faranno e meglio sarà per tutti, innanzitutto per le popolazioni che rappresentano, che da troppo tempo vivono nel terrore e nel lutto. Per questa ragione Beilin, Rabbo, e le loro squadre girano per tutto il Medioriente, vanno negli USA ed in Europa, allo scopo di illustrare non tanto i singoli articoli dell’accordo raggiunto, ma piuttosto le modalità con le quali lo hanno ricercato e conseguito.

Esperienza illuminante dell’attuale situazione di profondo conflitto interno tra le differenti fazioni palestinesi è stata la trasferta della delegazione a Gaza. Fummo bloccati per circa cinque ore dai militari israeliani al valico di Eretz per una presunta mancata trasmissione delle autorizzazioni per Bernard Stasi e per il sottoscritto. Alla fine ci permisero di entrare in quello che sempre più sta divenendo un inferno per oltre un milionetrecentomila palestinesi che vivono concentrati in un territorio di soli 360 km2 in condizioni di estrema indigenza. Ma ormai si era fatta sera ed i due furgoni che ci trasportavano furono presi in consegna, una volta entrati nella striscia di Gaza, da due camionette zeppe di militari armati dell’Anp che ci scortarono nel buio pesto fino all’Hotel Commodore di Gaza City. Ogni volta che i furgoni erano costretti per qualche motivo a fermarsi o a rallentare, tutti i soldati scendevano dalle camionette e ci circondavano con i fucili puntati ad altezza d’uomo. Temevano evidentemente un attacco da parte di gruppi armati della Jiadh islamica, di Hamas, delle brigate Al-Aqsa o di chissà quale altro gruppo dissidente. I soldati erano molto nervosi ed il loro comportamento, palesemente preoccupato ed agitato, era naturalmente per noi tutt’altro che rassicurante. Noi tutti ricordavamo infatti che pochi giorni prima, a Gaza, alcuni francesi erano stati rapiti in segno di protesta a seguito della nomina di un parente di Arafat a capo della polizia di Gaza. Il gruppo armato aveva voluto così manifestare contro il nepotismo e la crescente corruzione di alcuni componenti del gruppo dirigente dell’Anp. Gli ostaggi furono poi rilasciati pare in seguito ad un diretto intervento dello stesso Presidente Arafat.
Identici momenti di tensione vivemmo l’indomani mattina quando, nel corso dell’incontro in municipio con i Sindaci delle città della striscia e con il Presidente ed il Direttore dell’APLA, sentimmo esplodere numerosi colpi di fucile all’esterno, certi che uomini armati stessero entrando all’interno della sala con finalità a dir poco ostili. Interrotta la riunione e usciti all’esterno, assistemmo al passaggio davanti al municipio di un corteo di uomini incappucciati ed armati fino ai denti che sparavano minacciosamente continui colpi di fucile in aria. Una parte di loro sfilava a piedi, altri erano all’interno di un camion che attraverso un megafono urlava slogan sia contro Israele sia contro i corrotti del gruppo dirigente palestinese. Era chiaramente una dimostrazione di forza ma anche di impunità perché, sebbene armati ed incappucciati, non assistemmo a nessun intervento dei soldati dell’autorità palestinese che si limitarono soltanto a vigilare che i dimostranti non andassero oltre. La verità sta forse in quanto riferitoci sottovoce da alcuni dirigenti, e che cioè in questo momento la stragrande maggioranza dei palestinesi di Gaza sta con Hamas ed i gruppi più estremistici, e non con l’Anp. Questione di consenso popolare, quindi. Consenso con il quale non è possibile scherzare oggi, in un momento in cui la politica del premier Sharon, che intende ritirarsi unilateralmente da Gaza, apre prospettive di lotta aperta e dura per la conquista del potere in quella striscia infernale. Il calcolo di Sharon, che prevede di dividere il campo avversario confidando forse anche in una possibile guerra civile, non può essere avulso dalla sua decisione di rinunciare agli insediamenti israeliani a Gaza.

Il Presidente Arafat lo incontrammo a Ramallah, in una grande sala, nuova, da poco ristrutturata ed adibita per l’occasione a stanza da pranzo. Ho notato - rispetto all’anno passato quando fui ricevuto nell’unica sala riunioni allora disponibile - che un pezzo considerevole della Muqata, precedentemente andato distrutto per i bombardamenti israeliani, è stato nel frattempo riattato. Abbiamo pranzato con lui, con i suoi più stretti collaboratori e con i Sindaci delle più importanti città palestinesi. Arafat sta abbastanza bene. A distanza di un anno e mezzo non ho notato peggioramenti nelle sue condizioni di salute. Anzi, mi è apparso più rilassato di quando lo incontrai alla vigilia dello scoppio della guerra in Iraq. Ha mangiato con le mani una bella coscia di pollo sorseggiando, ahimè, una cocacola originale. E’ stato felicissimo del cornetto rosso con la faccia di Pulcinella che gli ho regalato come portafortuna. Gli dissi che se dovesse di qui a poco scoppiare la pace in Medioriente, in onore del suo autore, lo scultore napoletano Lello Esposito, avremmo eretto a Napoli un Pulcinella d’oro.
Fummo ricevuti da Arafat poche ore dopo aver incontrato nella sua abitazione ad Abu Dis il Primo ministro Abu Ala. In questo quartiere della periferia di Gerusalemme esplorammo anche uno dei pezzi più mostruosi del muro che lì attraversa e separa i palazzi e le famiglie che li abitano, e che divide i cittadini dai loro luoghi di lavori e gli studenti dalle loro scuole. Decidemmo di farci fotografare davanti a questo obbrobrio esponendo sia la bandiera dell’Europa sia quella arcobaleno simbolo della pace. Abu Ala ci apparve sereno, sicuro, nonostante il giorno prima avesse annunciato le proprie dimissioni. In quelle ore si stava consumando l’ennesima crisi tra il Presidente Arafat ed uno dei tanti Premier palestinesi. Crisi sempre derivanti dalla mancata cessione di poteri reali concernenti soprattutto la sicurezza ed il controllo delle forze dell’ordine deputate a garantirla. Soltanto la sera prima Abu Ala aveva anticipato l’ora del nostro appuntamento, precedentemente programmato per il pomeriggio, alle otto di mattina. Ci comunicò, quando ci ricevette, che il cambiamento d’orario era dovuto ad un’improvvisa sua convocazione a Ramallah da parte del Presidente Arafat, proprio in relazione al problema delle sue dimissioni. Ci limitammo ad augurare anche a lui buona fortuna.
Il problema della cessione reale dei poteri è anche il tema al centro delle prossime elezioni dirette dei Sindaci da parte dei cittadini, previste nel 2005. E’ noto che i Sindaci palestinesi, sia quelli che hanno bene amministrato sia quelli che hanno pessime reputazioni, sono stati sempre nominati dall’Anp e quindi sono tutti privi di legittimità popolare. Questo è stato sempre motivo di contestazione sia all’interno che all’estero. Sulla questione la nostra delegazione ha mostrato particolare interesse e ha comunicato la piena disponibilità alla collaborazione mettendo a disposizione l’esperienza dei nostri enti locali. A questo proposito l’incontro avuto dalla delegazione con il Ministro competente Jamal Shobaki, è stato particolarmente fruttuoso. E’ possibile pertanto che una delle attività che la Rete svolgerà nei prossimi mesi possa essere correlata ad una nostra partecipazione all’organizzazione e allo svolgimento delle prime elezioni democratiche dei Sindaci palestinesi. E se nella striscia di Gaza, a Rafah o a Khan Younis, venissero democraticamente eletti nel 2005 Sindaci espressione dei gruppi più oltranzisti? Cos’accadrebbe? Sarebbe un bene o un male in questo caso l’esercizio primario della democrazia? Domande provocatorie che è meglio lasciare per ora senza risposte.

Lasciare Tel Aviv preoccupa sempre per i controlli accuratissimi a cui si viene sottoposti in aeroporto. Il ritorno a casa di tutti i delegati questa volta avvenne senza particolari problemi. Fu senza problema il ritorno di tutti eccetto quello di Flavio Lotti. Flavio fu oggetto, insieme alla sua famiglia, di eccessive “attenzioni” da parte degli israeliani prima della sua partenza dall’aeroporto Ben Gurion. Alla fine gli fu consentito di non perdere il volo, ma gli fu sequestrato il PC che gli dissero che avrebbero spedito a Fiumicino dopo aver effettuato ulteriori e più specialistiche analisi del suo contenuto.
Avvertimento? Intimidazione? Punizione? Rivolti specificamente a Flavio o messaggio in codice per tutta la delegazione? Difficile dirlo. Come sempre, è difficile decifrare le ragioni degli improvvisi allentamenti, o viceversa degli inasprimenti, dei controlli e dei divieti israeliani. Come inspiegabili molto spesso appaiono le contraddizioni in molti comportamenti degli addetti a queste attività. Vengono rilasciati ad esempio permessi per raggiungere Nablus, o per entrare nella striscia di Gaza, e poi nessuno fa una piega quando tu neghi, all’arrivo in aeroporto, che andrai nei Territori palestinesi o, quando stai lasciando il paese, che ci sei andato. E’ noto che gli israeliani hanno i servizi forse più efficaci esistenti al mondo. Per cui non è credibile che, a dispetto dei lunghi interrogatori a cui si è sottoposti all’ingresso e all’uscita dal Paese, non siano loro perfettamente noti passato e presente di ciascuno straniero che passa la frontiera. Ma il gioco è questo, anche se poco comprensibile e difficilmente interpretabile, e bisogna adeguarsi alle sue regole.

settembre - dicembre 2004