Nelle città globalizzate
di Menico Copertino

L’economia globale nasce nelle città e utilizza queste come luogo privilegiato per il proprio sviluppo. Scarsamente interessata alle campagne e alle grandi aree industriali, la globalizzazione economica ha come sedi direzionali i centri urbani.
Quando le città si globalizzano, diventano sedi direzionali di flussi di capitali non regolati dai tradizionali sistemi legali e commerciali di controllo e garanzia; esse tendono ad assumere determinati connotati fisico-spaziali e iniziano ad essere attraversate da flussi di idee e da messaggi culturali assimilabili tra di loro a varie latitudini.

Gentrificazione
Da qualche tempo ho la possibilità di osservare questo passaggio a Damasco, capitale della Siria. Una delle dinamiche che interessa questa capitale mediorientale, accomunandola a molte città globalizzate o globalizzande, è la “gentrificazione”: in sintesi, questa consiste nello sviluppo di un interesse, da parte di vari livelli e settori del potere, per i luoghi centrali; su di essi si esercita un’azione motivata da scelte economiche ed estetiche riconoscibili anche in altri luoghi del pianeta.
In vicinanza dei luoghi in cui si svolgono gli affari e si allacciano e slacciano i nodi delle reti attraverso cui fluttuano i capitali, le città riscoprono o inventano le proprie bellezze e le proprie antichità. In questo modo cambiano anche i connotati dello spazio pubblico.

Spazi pubblici
In Siria l’attività politica che non abbia come scopo il sostegno del regime è interdetta da diversi decenni. Gli spazi pubblici non sono dunque sedi del dibattito politico (almeno non del dibattito sulla politica interna), ma della chiacchiera, del gioco, dell’incontro amoroso - nella misura e secondo le regole in cui questo è permesso dalla morale dominante.
Gli spazi pubblici delle città costruite sotto l’influenza della religione musulmana non sono i viali e le piazze (nelle medine non esistono), ma i mercati, le moschee, i bagni e i caffè. Mentre, sotto le spinte della globalizzazione, scema parzialmente l’importanza di questi spazi pubblici, la tradizione inventa - e indirizza il pubblico verso - nuove sedi: il pub, l’internet cafè, il ristorante occidentale, la discoteca. In altri termini, i luoghi pubblici si privatizzano. In altri termini ancora, potremmo dire che in Siria sono visibili le conseguenze del prepotente ingresso dell’Occidente nel Medio Oriente: stato nazionale che aveva eretto delle simboliche barriere contro certi monumenti del mondo occidentale, specialmente le multinazionali statunitensi, la Siria, che da tempo segue la via della liberalizzazione economica, ha da pochissimi anni legalizzato l’uso di internet, del telefonino e dell’antenna parabolica.
Una delle conseguenze è che la gente questo giugno e luglio ha potuto seguire su al Jazira, negli splendidi cortili dei nuovissimi ristoranti “antichi” di Damasco, il campionato europeo di calcio, e veder vincere, con sommo gaudio, una piccola squadra come la Grecia,alla periferia di quello che chiamiamo Medio Oriente.
Un’altra delle conseguenze della liberalizzazione è che nelle pittoresche strade della città antica, fuori dalle porte dei costosi locali, compaiono i primi mendicanti; fino a qualche anno fa questi miserabili erano protetti da un potente sistema statale di garanzie e dall’osservanza di uno dei cinque principi fondamentali, o pilastri, dell’Islam, la carità (zakah), che in un sistema politico ispirato in qualche misura dall’Islam non è delegata al buon cuore del singolo, ma è amministrata dallo stato.
Simili contrasti stridenti sono osservabili in molte delle città globalizzate in cui la polarizzazione sociale si estremizza e le tradizionali classi medie si riducono in povertà. Tali tendenze saltano immediatamente agli occhi osservando spazi urbani in cui passerelle di lusso, create per collegare spazi pubblici privatizzati, attraversano quartieri in cui vive un sottoproletariato affatto privo di familiarità con questi nuovi luoghi pubblici.
Un esempio della creazione di simili passerelle è la città antica di Bari. Recentemente l’amministrazione comunale ha ripreso un progetto iniziato nel ventennio fascista, che mirava alla creazione, nel centro storico, di strade-passerelle che permettessero di passeggiare godendo dei principali monumenti. A quell’epoca furono create alcune piazze e larghe strade attraverso lo sventramento di edifici fatiscenti e il trasferimento degli abitanti in altre zone della città. Inutile sottolineare quanto scarsa fu l’attenzione accordata alle esigenze delle classi subalterne che abitavano il centro storico. I recenti lavori di sistemazione di piazza Ferrarese, piazza Mercantile e delle strade vicine, nonchè l’apertura della passerella di corso Venezia, animati dallo stesso spirito, assolutamente indifferente allo stile di vita degli abitanti del luogo, sono un esempio da manuale di privatizzazione dello spazio pubblico: la gentrificazione di queste aree ha programmaticamente attratto una torma di imprenditori intenzionati a fare affari grazie alla bella posizione dei locali destinati principalmente a pub e ristoranti. Si è così creato un trend di gente estranea, per estrazione sociale e culturale, alla zona, che ha provocato innumerevoli contrasti tra i nuovi e i tradizionali utenti di quegli spazi. Casi del genere mostrano come la gentrificazione sia uno dei metodi con cui si riproducono gerarchie sociali e subalternità.

Stili di vita
Nel centro storico di Damasco, in via di gentrificazione, emergono, accanto a quelli tradizionali, nuovi spazi pubblici, in primo luogo caffè di stile arabo e pub di stile europeo. Tralasciando la questione del recente emergere, in diversi paesi, di istanze identitarie quale motore della scelta di alcuni imprenditori di aprire locali “tradizionali”, da me esposta in un precedente numero di questa rivista, voglio qui sottolineare come la frequentazione di questi luoghi stimoli in molti sensi il cambiamento dello stile di vita.
Per esempio, questi luoghi sono le nuove sedi dell’incontro amoroso. Mentre diminuisce il peso delle decisioni materne e degli accordi familiari per il fidanzamento, i giovani siriani sono sempre più intenzionati a cavarsela da soli nell’incontro con l’altro sesso; i luoghi in cui si può ballare sentendo musica ad alto volume, in atteggiamento segreto favorito dalla luce soffusa e con i freni inibitori allentati per la licenza di bere alcoolici, concessa temporaneamente, affiancano da qualche anno i luoghi, come l’hammam, il bagno turco in cui tradizionalmente le mamme prendono accordi per garantire ai figli il matrimonio.
Un’osservazione che ho sentito di frequente è che questa licenziosità non è concessa a tutti, ma solo a chi può pemettersi economicamente di frequentare questi luoghi. Così è facile assistere al cozzare di stili di vita molto diversi tra di loro: quello emancipato degli avventori dei locali e quello, più condizionato dal peso delle tradizioni e del portafogli, dei ragazzi che lavorano in quei locali, attratti dalla possibilità di entrare facilmente in contatto con l’altro sesso, ma impossibilitati dalle condizioni materiali ad esercitarsi in questa pratica.
Più a monte, si può indagare quali settori e livelli del potere trovano un interesse a gentrificare quartieri antichi in parte degradati. Il governo siriano ha predisposto diversi enti pubblici alla salvaguardia del patrimonio artistico architettonico, dopo che l’UNESCO ha inserito il centro storico nella lista dei beni dell’umanità in quanto centro urbano continuamente abitato da oltre due millenni. Qualsiasi lavoro di restauro intrapreso negli edifici protetti dall’UNESCO deve passare il vaglio di questi enti, i cui impiegati si trovano così a svolgere un incarico delicato e prestigioso, rappresentando uno dei livelli del potere coinvolto nella protezione/gentrificazione. Questi architetti, inoltre, spesso si incaricano in prima persona dei restauri; in questo modo essi curano ora gli interessi del potere politico-amministrativo, ora quelli del potere economico.
In altre parole, essi rappresentano, oltre che un livello del potere, un punto di contatto e interazione tra questi due settori del potere, politico-amministrativo ed economico. Perchè la gentrificazione attragga il potere economico-imprenditoriale è presto detto: per i manager la gentrificazione comporta la possibilità di fare affari attraverso locali, ristoranti, alberghi, negozi di oggetti di lusso e di beni e servizi tecnologici e attraverso l’indotto creato da questi esercizi.
A un altro livello del potere economico ci sono i proprietari delle grandi case del centro storico. Costoro appartengono spesso alle ricche e potenti famiglie di politici e mercanti che, fino alla fine dell’Ottocento, costruirono quelle case sontuose per la propria abitazione. Sin dai primi decenni del Novecento costoro trovarono utile abbandonare queste abitazioni, a causa del degrado e del sovrapopolamento del centro storico, per andare a vivere in altre zone, per lo più in periferia. Si seguì un andazzo che accomuna Damasco a quel mondo che dal Settecento il colonialismo europeo ha letteralmente ricreato, secondo Mike Davis “Olocausti tardovittoriani”, come terzo mondo. Così oggi a Damasco, come in quasi tutte le grandi città mediorientali, esistono quartieri periferici in cui le case costano milioni di euro, in cui è facile vedere la gente spostarsi in costosissime automobili occidentali, confinanti con quartieri ghetto e bidonville di baracche in mattoni e lamiere, dove mancano i principali servizi e le condizioni igienico-sanitarie sono precarie.

Nei campi profughi
Tra questi quartieri-ghetto ci sono i campi profughi palestinesi e irakeni. L’immigrazione irakena, favorita dal governo siriano durante e subito dopo l’ultima guerra, è stata drasticamente ridimensionata, ultimamente, allo scopo di allontanare i sospetti internazionali di ospitalità accordata ai terroristi provenienti dall’Iraq. Decisioni del genere, unitamente a quelle di costringere numerosi movimenti palestinesi siriani a sciogliersi, e di disinteressarsi ostentatamente della causa degli Hezbollah in Libano, prese dal governo per allontanare accuse e minacce degli Stati Uniti, rischiano di disaffezionare la popolazione alla politica del partito di governo: il nazionalismo arabo e la comune causa degli stati arabi contro Israele e gli interessi internazionali che esso rappresenta sono infatti da decenni il cuore della propaganda ba’thista, ampiamente condivisa dai Siriani.
I campi irakeni e diversi campi palestinesi sono accomunanti dalle triste condizione di bidonville invivibili, in cui l’opera volontaria di ong internazionali e movimenti religiosi riesce a malapena a garantire a questa gente di non morire di fame o di malattie infettive.
La situazione è sensibilmente migliore nei campi palestinesi più grandi, come Yarmuk, dove sono presenti tutti i principali servizi e i Palestinesi non vivono isolati dagli altri Siriani. Negozi frequentati da damasceni provenienti da altri quartieri, un passeggio che si protrae fino a tarda sera, una grande moschea eretta da pochi anni, vivacizzano le due strade principali (via Filastin e via Yarmuk) di questo quartiere alla periferia meridionale di Damasco, al quale si accede attraversando un arco sul quale campeggiano il volto dell’ex presidente siriano, Hafez al-Asad, e la sua promessa di combattere per la causa palestinese.
Camminare per altre periferie significa aggirarsi tra case in mattoni grigi, non intonacate, spuntate un pò a casaccio intorno a stradine strette e non asfaltate; quartieri del genere, non solo palestinesi, sono comunemente definiti “illegali”, e il potere provvede saltuariamente a condonare la presenza di questi edifici costruiti senza alcuna autorizzazione pubblica.
Per molti palestinesi i campi rappresentano un passaggio obbligato ma temporaneo nella capitale siriana. L’obiettivo di molti, infatti, è di trasferirsi nel centro gentrificato della città. Si tratta probabilmente dell’esigenza di uscire dal ghetto; questa scelta, tuttavia, non sembra motivata dal desiderio di rendersi invisibili in quanto popolazione: l’appartenenza al popolo palestinese è infatti motivo d’orgoglio per tutti quelli che ho conosciuto. Qualsiasi prova difficile questi si trovino ad affrontare, a chi chiede se ce la faranno rispondono: “Sono palestinese!”, intendendo “cosa vuoi che sia questa prova per un palestinese, abituato a resistere a ben altro”.

Fuori dal ghetto
Hamir ha un negozio di souvenir “orientali” in una delle passerelle del centro storico, Qemarieh, alle spalle della moschea degli Omayyadi, il terzo centro religioso dei Sunniti dopo le moschee della Mecca e Gerusalemme. I turisti soddisfano il proprio gusto dell’esotico comprando tappeti, arazzi, foulard, gioielli dal suo negozio. Hamir è uno di quei Palestinesi che sono riusciti a uscire dal ghetto: lavora e abita in pieno centro, parla diverse lingue, tra cui l’italiano (molto bene e con accento romanesco, avendo vissuto a lungo a Roma, dove ha lavorato come cuoco), ha un aspetto europeo nel modo di vestire, nel taglio di capelli, negli atteggiamenti; passa le serate con gli stranieri che per turismo o lavoro si trovano a Damasco. La sua storia familiare è un susseguirsi di viaggi e trasferimenti: alla nascita di Israele la sua famiglia andò ad abitare nel Jolan, la regione montuosa nel sud della Siria, importantissima per la ricchezza d’acqua (vi nascono ben 172 fiumi), che divide il paese da Israele. Nella “guerra dei sei giorni”, nel 1967, Israele conquistò il Jolan e parte della famiglia di Hamir seguì la sorte di numerose famiglie siriane, palestinesi e di altre nazionalità che abbandonarono la regione per trasferirsi in zone più sicure della Siria: da allora i genitori di Hamir vivono a Damasco, dove lui è nato, impossibilitati a tornare nel luogo del loro primo trasferimento in Siria. Infatti le alture del Jolan sono a tutt’oggi occupate militarmente da Israele, che rifiuta da quarant’anni di ritirarsi, rendendo impossibile il normalizzarsi dei rapporti con la Siria.
La questione del Jolan è il primo punto di contenzioso tra i due stati, ufficialmente ancora in stato di guerra dal 1967. A settembre dello scorso anno Israele ha invitato la Siria al tavolo delle trattative, non senza prima aver bombardato un villaggio vicino a Damasco; a queste condizioni, il governo siriano non ha potuto che rifiutare le trattative, viziate sin dalla loro vigilia dalla prova di forza israeliana, offrendo così il pretesto per le accuse di mancata collaborazione per la stabilizzazione della situazione politica in Medio Oriente.
Dal Jolan proviene anche la squadra di muratori, capeggiata da Mohammad Nimr (Tigre) Mustafà, che si occupa dei lavori di restauro della casa di un architetto francese dell’UNESCO. Costui ha recentemente comprato questa casa settecentesca, in degrado, affidandone il progetto di recupero a un architetto italiano, anche lui dell’UNESCO, che a sua volta si è rivolto a Mustafà per l’organizzazione materiale del lavoro. L’interesse per le aree antiche come sede per l’abitazione da parte di impiegati di organismi internazionali, gente abituata a uno stile di vita deterritorializzato, è uno dei fenomeni di maggior rilievo tra quelli che fanno di una città una città globale. I vicini di casa dell’architetto francese sono un influente diplomatico libanese e la sua famiglia, che da pochi anni hanno restaurato l’enorme casa in cui abitano. A pochi passi, Mustafà sta restaurando un’altra casa, che diverrà un hotel di lusso, di proprietà di un ministro siriano. Pochi anni fa questa gente importante non avrebbe neppure preso in considerazione l’idea di abitare o avere esercizi nella città antica; ora essi sono stimolati dalla (e contribuiscono alla) gentrificazione dell’area. Accanto a loro, una serie di politici, artisti, uomini d’affari e di cultura provenienti da diverse parti del mondo, per i quali globalizzazione significa la necessità di considerare propria casa e luogo di lavoro il pianeta, comprano e prendono in fitto case, vi abitano, le trasformano in atelier, gallerie d’arte, teatri, caffè, ristoranti, pub e alberghi.
L’ambiente urbano diventa internazionale; come altrove in Medio Oriente l’economia globale, facendo il suo ingresso, va di pari passo col decadere delle grandi industrie, con lo scemare dell’importanza della produzione agricola nel prodotto interno lordo, e con la propaganda sull’economia “leggera”.

Economia immateriale e mobilità
La retorica della leggerezza, dell’immaterialità della nuova economia, accompagna il proliferare del settore ipertecnologico, fatto relativamente nuovo in Siria, e viaggia attraverso le fibre ottiche di recente installazione nelle città più grandi, gli schermi dei computer negli internet cafè, le televisioni connesse tramite satellite col mondo intero (quasi ogni edificio ha sul tetto numerose antenne paraboliche), i cartelloni pubblicitari nelle strade, le vetrine dei negozi di computer e telefoni. Saskia Sassen (Whose is city? Globalization and the formation of new claims, in Public Culture, 8) riflette su come questa retorica serva a nascondere una realtà fatta di pesantezza, sangue e sudore, quella dei lavoratori dell’industria dell’hardware, di quelli che spaccano e rimontano le strade per inserirvi i pesanti cavi di fibre ottiche, quelli che costruiscono gli splendenti palazzi in cui hanno sede le compagnie di servizi e ne curano la manutenzione, quelli che gentrificano i luoghi in cui vanno ad abitare i ricchi appassionati dell’antichità.
Mohammed Nimr Mustafà ha 45 anni; è capace di smontare e rimontare una antica casa araba dalle fondamenta al tetto. Nei mesi in cui lavora molto guadagna fino a 500 euro, che sono pochi anche in un paese economico come la Siria, se devi mantenere moglie e cinque figli. Guadagna comunque molto di più dei 160 euro che spettano a un impiegato pubblico di livello medio, come gli architetti e i tecnici del Comitato per il recupero dell’antica Damasco. È uno specialista del restauro delle case antiche, ed è uno dei massimi esperti di Damasco del fango, fieno e legno che costituiscono i muri delle case, muri che nelle case povere restano spogli e miseri, malamente intonacati, mentre in quelle ricche vengono rivestiti di sontuosi mosaici di pietre, specchi, madreperla, legni intarsiati. È uno di quelli che si sporcano le mani e rischiano in un lavoro insicuro, privo di assicurazione sugli infortuni, senza previdenza sociale (questa non è prevista che per il pubblico impiego), per abbellire le case dei quartieri da gentrificare.
È passato anche lui attraverso la trafila del lavoro a cottimo, che è ancora l’unica fonte di sostentamento per centinaia di lavoratori a giornata che la mattina presto affollano le strade di Damasco in attesa di una proposta. Ha imparato il mestiere del muratore viaggiando in Marocco, Libia e Grecia. Vorrebbe lavorare in Europa per qualche anno e mettere da parte i soldi che gli consentano di tornare in Siria, comprare un taxi e vivere una serena vecchiaia.
Viaggiare verso il mondo occidentale, tuttavia, non è facile per un mediorientale che non appartenga alle élites. Normalmente la gente viaggia di più tra i paesi mediorientali, e le ultime statistiche dell’Onu attestano che la massima parte dell’emigrazione da quei paesi ha come meta paesi confinanti. Molta letteratura di viaggio contemporanea racconta le storie dei difficili esodi di questa gente (Amitav Ghosh, Lo schiavo del manoscritto; Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole) tra un paese arabo e l’altro, e si tratta sempre di viaggi verso un paese leggermente più ricco (dalla Siria al Kuwait, dall’Egitto all’Iraq, dai Territori Palestinesi ai paesi in cui opera l’UNRWA) e verso la speranza.
Le ambasciate straniere a Damasco sono quotidianamente affollate da decine di Siriani che sperano di ottenere un visto. Pochi al giorno ci riescono: gli accordi internazionali non consentono alla gente comune di recarsi all’estero, specie in Europa, Nord America, Australia e Giappone. Haula e le sue sorelle e fratelli, palestinesi, di famiglia contadina ma con una cultura vastissima e abili nel parlare diverse lingue, hanno avuto la fortuna di sposarsi con Europei. Il matrimonio, permettendo di assumere la nazionalità del coniuge, è la via più veloce per poter viaggiare, esigenza vitale per questi ragazzi e ragazze dalla mentalità internazionale. Sono nati e cresciuti nel campo palestinese di Yarmuk, e alcuni di essi vi abitano ancora col padre, un Palestinese proveniente dalla Cisgiordania, che si è risposato dopo aver divorziato dalla madre di Haula. Altri di loro si sono trasferiti in quartieri più centrali e meno etnicizzati, dove hanno la possibilità di andare in giro senza velo e di ospitare amici in casa senza provocare l’eccessivo risentimento di vicini conservatori.
Il rigore dell’etica tradizionale è una delle variabili di cui gli imprenditori che investono nell’antico devono tener conto. Quando otto anni fa Beit Jabri, il primo caffè “tradizionale” nel centro storico di Damasco ha aperto i battenti, il proprietario, Raid Jabri, è stato bersaglio delle rimostranze dei vicini che si aspettavano che in un luogo del genere la gente si ubriacasse e si dedicasse al sesso libero: così Raid ha organizzato diverse cene con gli abitanti del vicinato, che hanno così constatato coi propri occhi che il suo locale, per quanto ospitasse entrambi i sessi senza esigere il certificato matrimoniale, non era un lupanare.
Ad avere il sopravvento, in questa circostanza, sul potere della tradizione religiosa e comportamentale, è stato il potere economico: Raid Jabri appartiene infatti a una ricca famiglia che tra le molte proprietà conta l’enorme e splendida casa dove ora sorge il caffè.

Panarabismo
Alleato del potere economico-imprenditoriale, in questo caso come in molti casi simili, è il potere politico siriano. Questo infatti ha tra i suoi principi fondanti il panarabismo, che è stato l’ideale su cui maggiormente il partito Ba’th ha puntato nella sua ascesa al potere per unificare una regione, come la Siria, in cui convivevano e convivono molteplici appartenenze etniche, religiose e culturali. Il senso di appartenenza alla grande famiglia di lingua araba accomuna Sunniti, Sciiti, Drusi, Alawiti, Cristiani cattolici greci, armeni, siriaci e maroniti, Cristiani ortodossi orientali; Siriani, Palestinesi, Beduini, Kurdi; gente dei villaggi, delle città e del deserto; contadini, operai, professionisti, nomadi. Uno dei veicoli più forti che il potere sa sfruttare per la propaganda identitaria è l’immagine della città: il senso di appartenenza al mondo arabo si crea anche permettendo (o imponendo) alla gente di camminare attraverso architetture “arabe” e luoghi in cui si propone gastronomia tipica e musica tradizionale.
La gentrificazione è dunque uno dei metodi con cui il potere utilizza le tradizioni urbanistiche e dell’abitare per la riproduzione della subalternità e per il controllo sociale.

settembre - dicembre 2004