“Bisogna disinfettare la nostra mal cicatrizzata memoria per risentirne il ritmo”
Rossana Rossanda
Oltre un paradigma fondativo: una politica oltre il potere
Le riflessioni che seguono scaturiscono dalla lettura dell’“Orda d’oro”, un’analisi del decennio dal ‘68 al ’77 in cui N. Balestrini e P. Moroni ripercorrono la grande stagione creativa, politica ed esistenziale dei movimenti alla luce dell’idea che le trasformazioni produttive e la ristrutturazione post-fordista del sistema della fabbrica abbiano profondamente trasformato i soggetti dell’opposizione di classe. Lettura “datata” ma istruttiva per chi voglia porsi il problema di una sinistra che si faccia soggetto di trasformazione storica reale. Convogliando una mole di testimonianze e di documenti, gli autori offrono delle linee interpretative ancora valide non solo per intendere il valore storico di quella stagione che vide l’emergere di nuove figure della trasformazione sociale, di nuovi progetti, speranze, utopie, ma per affrontare con efficaci strumenti interpretativi quello che appare uno snodo teorico e pratico fondamentale ovvero l’annosa questione del rapporto partito/movimenti. L’attualità della questione è stata posta in risalto dal dibattito recentemente comparso sul “manifesto” circa la proposta di Rifondazione di costituire un partito della Sinistra europea che con i movimenti abbia un rapporto costitutivo e da essi si lasci attraversare.
Le linee discriminanti del nuovo partito, il rifiuto della guerra, l’opposizione alle logiche del neo-liberismo, l’allargamento della condizioni della democrazia partecipata, costringono a riflettere entro l’orizzonte obbligante di un ripensamento della tradizione comunista mettendo in discussione la solidità di certe connessioni che appaiono indissolubili come il nesso fra la politica, il potere, la violenza sul quale si è fondata la teoria e la prassi dei comunisti e a confrontarsi con l’arcipelago complesso di quelle associazioni, movimenti, gruppi di volontariato organizzati e non, che del tema della pace, della costruzione di un altro mondo possibile fondato su uno sviluppo sostenibile, della ricerca sulla praticabilità di un’altra economia, hanno fatto il loro lavoro quotidiano. Equivale ad una vera “rifondazione” operare una rottura con i paradigmi di pensiero che hanno agito nella storia del Novecento – e fra questi “il linguaggio guerrafondaio della sinistra” e “l’armamentario ideologico della Terza Internazionale” (1) – ed è un gesto politicamente sovversivo e gravido di conseguenze evitare di somigliare all’avversario usando le sue stesse armi, la sua stessa logica, il suo stesso linguaggio. Ciò richiama la necessità di scomporre e trasformare le forme e gli strumenti della narrazione e della pratica politica facendone uno spazio di costruzione di senso in cui superare l’atomizzazione e la solitudine e il senso di separazione dallo spazio pubblico che caratterizza il nostro tempo il cui al gruppo e alla comunità si sostituiscono logiche individualizzanti e competitive.
E’ stato appunto uno dei meriti da ascrivere ai movimenti - e principalmente quello femminista - quello di svelare che le forme della politica si radicano nei corpi sessuati, nei bisogni e nei desideri, nel vissuto quotidiano dei soggetti e che la politica è spazio pubblico di elaborazione di regole e di progetti che hanno a che fare con il futuro e con la felicità.
Nella storia recente dei movimenti affiorano le contraddizioni con cui oggi abbiamo da fare i conti: la crisi della forma partito, l’emergere di figure nuove legate ai processi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro.
Alcuni momenti importanti di questa storia non raffigurano soltanto l’eterna vicenda del rapporto tra millenarismo rivoluzionario e praticabilità della trasformazione attraverso le spinte concrete del reale: evocano le possibilità, che in quei movimenti erano contenute, di trasformare le strutture mentali, di modificare le forme di approccio alla politica, di farne l’orizzonte, umano, di espressione dei bisogni, dei desideri, delle passioni piuttosto che ambito di gestione tecnocratica e di controllo amministrativo.
Do you remember revolution?
Più volte l’attualità è stata letta tramite il richiamo al passato e i movimenti contro la guerra e la globalizzazione sono stati accostati a quelli del ’68.
Incominciati nelle università di Berkeley e Columbia, in lotta contro la guerra del Vietnam, i diversi movimenti che esplodono in Europa nel ’68, si manifestano con le sommosse di Berlino per il tentato assassinio di Dutsche e con le manifestazioni della rivolta studentesca a Nanterre, Parigi, Londra, Madrid, Belgrado, Varsavia e Praga, e sembrano costituire il risultato dell’incontro, promosso da una generazione, di diversi movimenti nazionali con radici e tempi distinti. Il maelstrom (vortice) studentesco, come lo chiama E. Morin (2), ha origini, allo stesso tempo, gigantesche e minuscole. E’ stata una gigantesca ribellione che, rimandando a contesti e problematiche diverse, ha avuto un carattere internazionale e unificante nel rifiuto della guerra del Vietnam e la sua origine nel malessere degli studenti i quali opponevano all’arcaismo semifeudale della società insegnante e alla vetustà della struttura universitaria i loro bisogni di sapere e di occupazione.
Nelle sue manifestazioni più eclatanti e nelle sue componenti filosofiche ed ideologiche, il situazionismo, le analisi della scuola di Francoforte, la critica della società dello spettacolo di G. Debord, ha avuto il carattere di contestazione globale di una società artefatta, espresso con il rifiuto di una vita borghese mediocre e oppressiva; l’ansia di cambiamento investì le singole esistenze ed emerse una nuova classe sociale, quella dei giovani, che provò a mutare le forme della comunicazione, della sessualità, del sapere, alla luce di interrogativi radicali circa il senso delle trasformazioni tecnologiche in atto.
I temi dominanti furono la critica dell’autoritarismo e dei contenuti didattici, l’esigenza di spazi di democrazia partecipativa all’interno delle strutture della produzione del sapere che veniva colto nella sua natura di funzione riproduttiva del sistema, assieme alla critica del costume borghese; ma la specificità del ’68 italiano fu nell’incontro fra movimento studentesco e movimento operaio.
La tesi di Balestrini e Moroni sorregge coerentemente l’analisi di un intero decennio di lotte stabilendo una relazione strettissima tra i processi di ristrutturazione capitalistica avviati con il salto tecnologico degli anni ’60, e il mutamento della composizione di classe, conseguenza dellla perdita di centralità, in termini di ruolo e di potere, della figura principale del processo produttivo, l’operaio il cui lavoro aveva un alto contenuto di specializzazione.
Nella fabbrica post-fordista l’operaio massa, giovane proletario immigrato, specie dal Sud, appare completamente diverso dall’operaio professionale; è più acculturato e più giovane rispetto alla precedente generazione, ha, in rapporto all’organizzazione stessa della produzione, un ruolo del tutto differente, perché non specializzato, non professionalizzato, intercambiabile e, rispetto alle lotte degli sudenti, esprime una sensibilità del tutto nuova.
I partiti della sinistra storica - e principalmente il Pci - non seppero elaborare una risposta adeguata alla maturazione dei tempi storici, opponendo alla stagione creativa dei movimenti, espressione di una metamorfosi del processo produttivo, una strategia ancora fondata sulla centralità operaia. Al carico di novità, sul terreno delle esigenze di sviluppo e di organizzazione politica, espresso dalle nuove figure produttive che sarebbero confluite nell’enorme “imbuto” del movimento del 77, “Partito comunista e sindacati contrapposero la più rozza delle analisi che finiva col bollarle come fenomeno di pericolosa irrazionalità di un nuovo sottoproletariato di massa, a cui contrapporre la razionale saldezza democratica di una classe operaia garantita e arroccata nelle grandi cattedrali industriali a coltivare l’illusoria certezza di reggere l’assedio dell’attacco capitalistico”(3). Fra il ‘75 e il ‘76, il Pci avrebbe elaborato il progetto di diventare partito di governo tramite l’alleanza e le trattative con i partiti di centro di cui il compromesso storico sarebbe stato il più rilevante risultato.
L’analisi dell’Orda d’oro mette in evidenza che, nonostante la caducità, la parzialità e la genericità delle proposte alternative espresse dai “movimenti”, nel corso di quel conflitto iniziato nel ’68 fu elaborata, con sforzi enormi, una concezione alternativa della modernità che si opponeva in profondità al modello capitalistico del dopoguerra e in definitiva all’intrinseca e formidabile efficienza del modello gerarchico fordista- taylorista. La dinamica del conflitto opponeva una vasta spinta sociale (operai, studenti, lavoratori, intellettuali), protesa alla ricerca di nuovi equilibri e poteri dentro la società, ad un assetto istituzionale (partiti storici, industriali, istituzioni dello stato) del tutto incapace di affrontare i problemi posti da questa grande spinta di massa. Gli effetti dell’espansione sociale della protesta ebbero un impatto dissolutivo nei confronti delle istituzioni storiche della tradizione marxista: partiti e sindacati.
Da quella stagione, espressione della maturità raggiunta dal conflitto capitale – lavoro, “L’assetto politico-economico italiano è uscito sconvolto in maniera irreversibile e la decadenza del sistema dei partiti (compresi quelli di sinistra) verificatasi alla fine degli anni ’80 non è che l’onda lunga di quel conflitto”.(4) La “controrivoluzione” che fu avviata quando, in seguito agli Anni di Piombo, si verificò un processo di restaurazione autoritaria fondato sulla condanna che accomunava i movimenti alla lotta armata, si protrasse nel decennio successivo attraverso varie fasi – il craxismo e la riforma del sistema politico in seguito al crollo dei regimi dell’Est. Si accompagnò all’affermazione delle trasformazioni introdotte, nel sistema produttivo, dalle tecnologie elettroniche, dal decentramento e dalla flessibilità dei processi lavorativi, dal nuovo ruolo assunto dal sapere e dalla comunicazione; anche il sapere ed il pensiero furono utilizzati per spegnere la conflittualità sociale. Le elaborazioni del neoliberismo e del pensiero unico trassero il loro “lievito” dall’idea della sconfitta dei movimenti, minaccia al corpo sociale, e dalla fine del comunismo nei paesi del blocco sovietico.
Vista in questa chiave di storiografia critica la stagione dei movimenti costituisce il futuro alle spalle – per usare una bella espressione di Hanna Arendt – il ricordo di quelle che potrebbero essere le lotte prossime venture.
La rottura del centralismo: dall’esperienza del “manifesto” ai gruppi extraparlamentari.
Il primo atto della crisi della concezione centralistica del partito fu la critica mossa al Pci da un gruppo di giovani intellettuali, Pintor, Magri, Rossanda, ed altri, che denunciavano l’autoritarismo e la burocratizzazione e rivendicavano la libertà di avviare un libero dibattito al suo interno. Dalla ribellione al partito-padre nacque - dopo una stagione di pressioni da parte del Pci che accusava il gruppo di “frazionismo” in un momento assai delicato per la sinistra - il progetto di una rivista “capace di offrire, anche al livello della teoria, una risposta adeguata al livello di scontro di classe maturato in Occidente e nel mondo alla fine degli anni ’60.”
E’ la stessa R. Rossanda ad offrire una prospettiva di analisi sul mutamento del rapporto classe-partito intendendo il “sociale” come il terreno su cui raccogliere le istanze di cambiamento, abbattendo l’idea leninista che l’avanguardia organizzata fosse la punta avanzata del movimento rivoluzionario. Ritornare all’umanesimo del pensiero marxista, esigenza diffusa nel dibattito degli intellettuali, significava denunciare l’interpretazione economicistica del pensiero di Marx che riduce il concetto di classe nei termini della relazione di sfruttamento capitale/lavoro. Proprio là dove ci si vuole richiamare ad una presunta “ortodossia marxista” c’è maggiormente il rischio di “realizzare un discorso che vuole solo verificare se l’avanguardia ha le carte in regola con la teoria ma non se è all’altezza del movimento, se lo precorre o lo subisce”.(5) Il mutamento dei rapporti reali chiedeva al partito di essere all’altezza del movimento. Le osservazioni della Rossanda hanno ancora oggi valore interpretativo: se “la sola teoria di un qualche senso è quella che spinge all’interno di una prassi, di un farsi della storia, “ nessuna soluzione” del problema del rapporto classe/partito è possibile se non si riparte da un’attenta analisi delle diverse contraddizioni di classe nella società avanzata, dalle concrete forme di lotta, dai bisogni che oggi la crisi del capitalismo prefigura (6). La tensione che si avverte e che preme sulle istituzioni storiche della classe, partiti e sindacati, non viene soltanto da un loro limite soggettivo: “Viene dal crescere di una dimensione politica sempre più legata all’essere sociale, sempre più gelosamente interna alla sua presa di coscienza, sempre meno delegabile”(7).
Le ragioni espresse dalla Rossanda spiegano perché i concetti di partito e di organizzazione così come erano stati ereditati dal comunismo ortodosso e da quello della sinistra dei Consigli operai non contenessero in sé la capacità di rappresentare la complessità del conflitto in una società a capitalismo maturo. D’altra parte la crisi del regime assembleare, nelle università occupate, già verso la fine del ‘68, poneva il problema di creare strutture “verticalizzate”: si avvertiva nel movimento l’esigenza diffusa di salvarsi da una frammentazione internamente distruttiva per non “morire di se stessi”, e ciò corrispose alla fine dell’ “ideologia della festa” che aveva manifestato il suo fallimento col festival di Parco Lambro, mentre incominciava lo schock provocato dall’ondata repressiva, emergevano trame di stato e cominciava a manifestarsi la “strategia della tensione”; si delineò allora la “frattura” tra l’anima creativa e contro-culturale e quella politica del movimento.
Nel passaggio storico - dopo il 69 e l’Autunno caldo - dal movimento ai gruppi extraparlamentari come Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio ed altri, assunsero importanza la questione della linea e dell’organizzazione - la solita discriminante fra il partito e il movimentismo per tutti gli anni ’70 - che assicuravano trasmissione, continuità, efficacia, ma ponevano fine alla sovranità del regime dell’assemblea con cui il movimento aveva sperimentato processi dispersivi e disperdenti. In questa fase si espresse il rifiuto della mediazione, “ritenuta nefanda” sia dai gruppi che dal movimento; “alla mediazione i gruppi opposero la linea rivoluzionaria che finirà con l’essere patrimonio di pochi e, nei gruppi armati, di pochi clandestini”.
Nel superamento dello spontaneismo si sviluppò la consapevolezza della complessità sociale e la percezione della forza dei poteri dell’avversario e allora la specificità dei movimenti dovette apparire un limite: mentre “la società fuori dagli atenei, si presentava come grande campo di intervento, un universo che aveva in sé, ancora dormiente, il germe maturo della sua trasformazione”(..) Molto presto alcuni gruppi avrebbero vissuto la contraddizione, niente affatto dialettica, tra la finezza di certe analisi del potere e la povertà delle parole d’ordine che ne derivavano”(8).
All’origine, dice Rossanda, non ci fu uno dei gruppi della sinistra che non avvertisse quanto fosse riduttiva quella organizzazione che pareva necessaria per non disperdere le energie; l’aderenza al movimento da cui erano nati fu la garanzia della vitalità dei gruppi dovendo salvarli dall’ossificazione e dalla burocratizzazione.
Ricostruendo la storia dei gruppi tramite fonti e testimonianze, gli autori dell’Orda d’oro non ne danno un giudizio completamente negativo; fatte salve le necessarie differenze che riguardavano lo stile di lavoro e i rapporti con il movimento reale: “La loro stagione migliore, che coincise con la solidarietà di base tra gruppi ideologicamente divergenti, si concluse abbastanza rapidamente sotto la spinta della conflittualità operaia e per l’incapacità, intrinseca nel modello organizzativo adottato, di dare una risposta alla scissione fra attività politica e vita privata”(9). Si vollero diversi e lo furono, soprattutto su un punto fondamentale: neppure immaginarono una separatezza possibile del “politico”, la politica come professione o come tecnica.
La crisi della militanza e la rimozione del ’77.
Sarà il movimento del ‘77 - nel quale confluiscono umori, idee, componenti della contestazione degli anni ’60 - ad esprimere compiutamente una critica dissacratoria degli stereotipi e dei modelli, dei rituali e dei miti della tradizione della sinistra storica - si pensi all’invenzione del nuovo linguaggio degli indiani metropolitani o all’attenzione posta dal movimento femminista al tema il privato è politico. I nuovi temi, dal rifiuto dell’organizzazione gerarchica e del volontariato rivoluzionario alienante al tema del vissuto personale colto nella sua dimensione politica, diedero il colpo di grazia definitivo alle organizzazioni extraparlamentari.
La svolta furono le elezioni politiche anticipate del 1976 con le quali la DC aveva recuperato rispetto alle sconfitte dei due anni precedenti, quella del referendum sul divorzio e quella delle elezioni amministrative del ’75. Il Pci, che aveva già conquistato nelle amministrative numerosi enti locali, crebbe sino a sfiorare il sorpasso con la DC e a quel punto concentrò tutta la sua tensione alle manovre di trattativa e di alleanza con gli altri partiti e pose la sua candidatura a partito di governo. Secondo gli autori, i presupposti culturali di questa strategia consistevano nell’assumersi il ruolo di garante della crescente conflittualità sociale e nel cercare un confronto con i ceti industriali per promuovere la fuoriuscita dalla crisi produttiva; la posta in gioco era la costruzione di un’immagine di credibilità democratica sulla quale si doveva fondare la legittimità a governare. Banco di prova e condizione per la cooptazione del Pci nel governo di centrosinistra fu il consenso dato, assieme a tutte le forze dell’arco parlamentare, a quel progetto di ordine pubblico che passerà alla storia come “legislazione di emergenza”, i decreti sull’ordine pubblico che inaspriscono in senso illiberale la già reazionaria legge Reale, base dell’accordo fra i partiti dell’arco costituzionale , nel ’77, ed elemento fondamentale di un processo di restaurazione autoritaria.
Nel frattempo la crisi della militanza esplose, fra il ’75 e il ’76, all’interno dei gruppi extra parlamentari, e fu uno “sciogliersi dentro al movimento”, come ben rappresentano alcune affermazioni tratte dal documento del Gruppo Gramsci già nel ’73: “La nostra proposta ha due punti fondamentali su cui si basa: la centralità dell’autonomia operaia e il problema della sua organizzazione[…]. Organizzazione dell’autonomia operaia significa identificare e creare lo spazio perché emergano e si generalizzino a politicizzazione sempre più di massa gli elementi del rifiuto del lavoro capitalistico e i contenuti dell’estraneità. Significa organizzarli in una proposta di pratica politica a partire dalla fabbrica, ma non confinata ad essa”(10).
La “classe” si allarga e gli specifici luoghi della famiglia, della differenza sessuale, della condizione giovanile, della marginalità di chi non è “normale” vengono considerati i luoghi della concretezza quotidiana dove si manifesta la schiavitù imposta da un sistema che nega i bisogni e determina alienazione non solo nella dimensione della fabbrica. I nuovi soggetti sociali esprimevano, anche attraverso il rifiuto del lavoro, la consapevolezza che la ristrutturazione capitalistica in corso passava attraverso la dissoluzione dell’omogeneità politica e materiale della condizione dell’operaio–massa da cui questi aveva tratto in passato i presupposti del suo potere nella fabbrica e dal diffondersi delle forme del lavoro precario e della disoccupazione. Si moltiplicano le analisi sul mutamento della composizione di classe (11) che appare l’effetto della metamorfosi del processo produttivo in cui si configura la contrazione del tradizionale lavoro manuale a vantaggio della crescita del lavoro intellettuale massificato; “essa comportava altresì la creazione di nuove figure precarie e non garantite che avevano comunque, direttamente o indirettamente, una funzione produttiva, e la loro natura era operaia, in quanto da esse si traeva plusvalore”.(12) Emergeva dalla elaborazione dei circoli proletari giovanili a cui partecipavano studenti, operai, lavoratori precari, e dai giovani che occupavano università e scuole, l’idea che il nuovo modo di fare politica fosse legato alla creazione di organismi autonomi che, nella fabbrica e nella scuola, dovevano esprimere una politicizzazione di massa inserendo nelle pratiche e nei luoghi di elaborazione politica i nuovi soggetti sociali rispettando la loro autonomia e le loro pratiche sui loro specifici bisogni .
Veniva intaccata dalla critica l’intera società civile e soprattutto le strutture primarie della formazione dell’identità giovanile: la famiglia e la scuola.
“Per questi motivi risulta allora comprensibile come, al movimento del ’77, tutta la tradizione del movimento operaio storico, impiantata sull’ideologia del lavoro, non poteva che apparire, oltre che profondamente estranea, anche oggettivamente nemica (…) del proprio bisogno (…) di liberare la vita dalla schiavitù del ricatto del lavoro comandato. E lo scontro fu inevitabile, e fu duro” (13).
La rimozione operata ai danni della memoria storica per cui del movimento del ’77 non si parla più - repertorio archeologico dell’espressione del dissenso - è basata sulla sua radicale alternatività; fu questa la premessa del suo azzeramento perpetrato per molti versi dai suoi stessi protagonisti.
Non è facile celebrare un anno in cui entrarono in crisi tutte le regole di relazione e di organizzazione sociale basate sul sistema industriale, comprese le strutture istituzionali e storiche del movimento operaio. Il mutamento gigantesco delle tecnologie comunicative ha contribuito poi a questa enorme rimozione, dalla memoria sociale, di un movimento che ebbe l’intuizione di vivere un passaggio ed una trasformazione epocale verso la società oscura ed indecifrabile del post-industriale. E’ superfluo sottolineare quanto abbia contribuito a questo processo il giudizio della sinistra storica che, mantenendo fermo il concetto della centralità operaia, declassava le richieste di piena autonomia dagli istituti storici del movimento operaio a espressione della marginalità e del parassitismo corporativo che poteva assai facilmente cadere preda di stumentalizzazioni ad opera delle forze reazionarie e conservatrici.
La modernità liquida e i movimenti
E adesso?
Caduto il muro, finito il bipolarismo, scomparse le barriere fra gli individui, le merci e i capitali, abbattuti i confini degli stati nazione, col trionfo del libero mercato e del pensiero unico, è sufficiente un cambiamento delle forme della politica che si limiti alla “geografia” dei partiti e alla loro denominazione? Che esista, nel rapporto di indifferenza quando non di aperta antipatia nei confronti dei movimenti, una specie di sintomo di ritorno del rimosso?
Al di là della falsa alternativa tra riformismo ed alternativismo, da cui forse non si esce con l’assalto al centro e la costruzione di percentuali elettorali, c’è da interpretare un malessere diffuso e l’esigenza di aprire uno spazio pubblico di dibattito che rimetta in gioco i bisogni - e i sogni - di futuro circa un altro mondo possibile. La condizione del lavoro immateriale e lo scenario mondiale della globalizzazione, agendo sui nostri sistemi di rappresentazione dello spazio e del tempo, hanno accorciato enormemente le distanze e ridotto il tempo alla dimensione di un presente–ora immediatamente fruibile-consumabile, da cui l’immagine del futuro è assente. La complessità ha approfondito il divario fra i soggetti e i luoghi nevralgici delle decisioni. Il rifluire degli individui nella cura del proprio privato e nella difesa gelosa del proprio interesse è la condizione umana che corrisponde alla modernità liquida, metafora (14) che esprime bene come tutte le forme tradizionali di organizzazione si siano dissolte, nell’impatto con le tecnologie informatiche e digitali, tramite l’accelerazione dei processi di trasformazione che coinvolgono tutto, dalle relazioni produttive ai rapporti umani, in cambiamenti velocissimi ed imprevedibili che si sottraggono ad ogni pretesa di controllo e i cui effetti manifesti, la precarizzazione e la flessibilità legate alla struttura immateriale del lavoro, rappresentano soprattutto l’estensione di un potere sempre più pervasivo. A fronte di una dinamica che si esprime come biopotere, le armi tradizionali della politica si spuntano e rivelano il loro limite di proiezione speculare, interna alla logica del dominio microfisico delle relazioni sociali, economiche, produttive alienanti, specialmente quando la partita si gioca esclusivamente come conquista di consensi elettorali e spartizione di potere.
Gli spezzoni del movimento, con la fluidità delle loro relazioni, la molteplicità dei linguaggi e l’ampiezza delle comunicazioni in rete, rese possibili dalle relazioni mediatiche e dalla mondializzazione della comunicazione, definiscono una molteplicità di soggetti, che attraverso geografie imprevedibili costituiscono, nello spazio di un lavoro che va dalle relazioni economiche alternative della banca etica al volontariato dei medici in Africa, dai movimenti no-global agli ecologisti, per citarne solo alcuni, una rete di esperienze in cui ci si riappropria di conoscenze e di pratiche che si oppongono alla struttura invisibile del biopotere, rappresentando spazi di costruzione di senso, di socialità, di consapevolezza. Questa realtà politica nuova emersa dai fatti di Seattle, di Genova, di Porto Alegre, dal Forum di Firenze, e da Cançun, è stata definita la seconda grande potenza dopo l’America. Le sue componenti hanno inteso che la costruzione di un altro mondo possibile passa attraverso il rifiuto di una logica di guerra, non soltanto quella che si combatte in Iraq o in altre zone del mondo ma quella che procura la morte di migliaia di civili, donne e bambini, in Africa; quella che un pugno di multinazionali ingaggiano quotidianamente contro chi ha un vitale bisogno di difendersi dall’Aids e da altre piaghe, o quella che, negli stati nazionali dell’opulento occidente, viene combattuta contro le fasce sociali più deboli o non garantite, a colpi di riforme della previdenza, della sanità, e della scuola, che distruggono a poco a poco pezzi dello stato sociale, o quella forma di “guerra” che alcuni partiti di governo intendono combattere contro i migranti dal Sud e dall’Est del mondo in nome di un’idea di progresso che presuppone che un quinto della popolazione mondiale consumi l’80% delle risorse. La radice violenta di queste logiche è ravvisabile persino nella normalità delle quotidiane relazioni, nella microrealtà delle nostre esistenze, dove si riflette l’etica del produttivismo nelle forme del mito del “vincente” che si misura in termini di successo e di capacità di reddito e, quindi, di consumo.
Probabilmente ha ragione Ottaviano quando dice che la vera novità di questo momento storico è rappresentata dall’incontro di movimenti presenti già da tempo e da nuove soggettività: non sono ancora stati esplorati i nessi che uniscono tra loro esperienze e ceti sociali così diversi e le loro implicazioni sul piano della ridefinizione di una nuova idea di sinistra.(15) Gli spunti emersi dai movimenti, dalla pace ai diritti, dal lavoro alla partecipazione democratica, dalla critica al liberismo alla riforma e alla trasparenza della vita pubblica, rappresentano una sinistra “inedita” nei suoi confini culturali e politici che si colloca oltre i paradigmi fondativi che hanno contraddistinto la sua storia e che, se da un lato ha la necessità di dialogare con i partiti, dall’altro si sottrae ad ogni nuova pretesa di egemonia.
1) Mi riferisco agli articoli sull’argomento comparsi sul “manifesto” fra gennaio e Marzo 2004 ed in particolare agli interventi di R. Rossanda e di I. Mortellaro ( la Rivista del “manifesto”, n.48 marzo 2004).
2) Edgar Morin, “ La commune étudiante”, in E. Morin, C. Lefort, J. M. Coudray, May 1968: la brèche, Premierès rèflexions sur les événements, Fayard,1968, p.13 –14.
3) N. Balestrini e P. Moroni, L’Orda d’oro. 1968 -1977 Feltrinelli, Milano 1997, p.530.
4) Ivi., p.7
5) R. Rossanda, Classe e partito, cit. in N. Balestrini e P. Moroni,, op. cit., p. 355.
6) Ibidem
7) Ibidem.
8) R. Rossanda, Dal movimento ai gruppi, supplemento al “manifesto” 1986, cit. in N. Balestrini e P. Moroni, L’Orda d’oro.1968 –1977, p. 368.
9) Op. cit., p.356.
10) “Rosso”, Milano, dicembre 1973, cit. in l’Orda d’oro, op.cit., p. 507.
11) Si vedano sull’argomento le analisi contenute nel volume collettaneo, a cura di A. Strati, Lavoro produttivo,composizione di classe, egemonia, Bertani, Verona 1978.
12) L’Orda d’oro.1968 –1977, op. cit., p .530
13) Ivi., p. 532.
14) Zygmunt Bauman, Modernità liquida , Laterza, Bari 2003.
15) Cfr. Ottaviano, Una “rivoluzione” senza aggettivi, il “manifesto”, 14 agosto 2004. |
settembre - dicembre 2004 |