Un
tiepido pomeriggio di primavera fui, mio malgrado, invitato a danzare
per un finto spettacolo tragico e grottesco che le forze di reazione ordinariamente
servono come piatto prelibato alle urla delle macchine desideranti.
Fui indotto al dolore in virtù della colpa.
Pena e condanna per desiderio anelato: era questa la mia colpa, era un
semplice interdetto d’azione, soprattutto perché frutto di
libera scelta o semplicemente determinata dal piacere.
La mancanza del tempo induceva all’esitazione le mie pulsioni. Rumorosamente
urlavano i silenzi di Steve Reich e lì come né altrove né
prima raccolsi la miseria dell’esistenza. A pochi passi di lì
udii il trillo delle chiavi: mai come allora suonò così
angosciante e ridondante.
Era l’assurdità della morale della sofferenza che inscenava
la propria capacità di limare e inibire la forze creative dei soggetti
e che relegava la libertà di scelta ad un regime di clandestinità.
Quella clandestinità poi ritorse il mio principio autonomo e creativo
dell’agire a mediocre condizione di reazione: derubricò la
mia azione a rancore e innescò l’effimero processo del desiderio
di vendetta, ma quest’ultima recitava con troppa vanagloria, a tal
punto da ritenerla eccessivamente banale.
Così in me prese forma pratica l’illuminante osservazione
di Nietzsche per il quale la vita è l’affermazione dell’esistenza
della molteplicità e della coesistenza di forze. Mi chiesi dove
poter individuare un punto d’origine delle stesse: tempo dopo alcune
pagine del filosofo tedesco mi suggerirono di cercarle nel senso affermativo
di chi soffre di sovrabbondanza della vita e mi indicarono che in fin
dei conti tutto l’agire umano nel tempo è stato il trionfo
delle forze reattive(1).
La numerosità delle forze mi fece pensare ai millepiani
dell’essere in virtù delle sue pieghe e dalla sua costitutiva
molteplicità che mi suggerirono la natura differenziale dell’essere
contro la visione dialettica e cristiana della realtà(2).
L’idea dell’esistenza perpetrata dalla tradizione ci consegna
la vita come originariamente colpevole e bisognosa del dolore per riscattare
la sua condizione di deficienza originaria. Questa concezione rifiuta
l’esistenza in quanto divenire e in quanto percorso ed espressione
delle forze che lo costituiscono ed esige un dispositivo di repressione
che induce l’ottundimento delle sinfonie del divenire.
Nella lettura che Deleuze dà di Nietzsche l’essere è
molteplice e mutevole ed è animato dalla coesistenza di forze che
non hanno bisogno di giustificare la loro esistenza né nel riscatto
dal peccato né dalla colpa. L’esistenza è l’insieme
dei concatenamenti delle macchine desideranti, è il brulicare
delle pulsioni, è l’apertura ai millepiani possibili.
Il brulicare delle pulsioni delle forze è la potenza delle istanze,
è il potere creativo e desiderante inconscio: ogni desiderio è
immediatamente concatenazione, ovvero è concatenamento macchinico
operato dall’investimento pulsionale, processo che afferma l’essere
in quanto divenire. L’essere molteplice vive nella pluralità
delle forze e delle moltitudini che lo animano e ne determinano la sua
condizione di giustizia. La repressione antidesiderante mette in moto
un circuito di adeguamento alla repressione che istituisce un regime di
reazione che è vissuto sotto le spoglie di resistenza, cioè
si instaura un sistema di attività desiderante che agisce secondo
una dinamica passiva e che ha ceduto la sua autonoma capacità propositiva.
L’esistenza scevra di limitazioni alla sua volontà danzante
e creatrice è piano del divenire, è l’affermarsi delle
forze in quanto investimento pulsionale e desiderante delle micropolitiche
individuali. Se a tale regime di autogoverno delle pulsioni si sostituisce
una volontà di dovere, se si afferma l’agire come agire eteronomo
si innesca un processo di elaborazione delle pulsioni che è solo
reattivo.
Le forze reattive separano la forza attiva da ciò che è
in suo potere(3), la repressione innesca un meccanismo che assume
la macchina desiderante come un’articolazione di ingranaggi: elabora
il concetto di soggetto e ad esso pospone l’oggetto desiderato. Istituita
questa separazione le forze reattive sono nella condizione di fantasmare
il desiderio e creare l’oggetto desiderato(4) per poi cingerlo di
interdetti.
Il dispiegamento pratico della volontà libera si afferma prescindendo
dall’oggetto, poiché essa non è rappresentazione dell’oggetto,
essa è l’affermazione del principio della sintesi delle forze.
E’ la condizione di coesistenza di forza e volontà, che è
altresì la condizione in cui le forze attive sono tutt’uno
con ciò che è in loro potere.
Le forze reattive s’inventano un soggetto neutro con libero arbitrio
e negano alla volontà la capacità di soppesare la terra
e alla forza la capacità di interpretare l’esistenza.(5) In
queste condizioni il divenire è ridotto a regime delle forze reattive
in cui l’essere e l’esistenza sono spoglie delle loro possibilità
propositive, per aspirare alle quali è necessaria un’altra
sensibilità.
E’ necessaria un’affettività(6) che sia regime di composizione
di corpi ed affetti in cui la volontà di potenza si affermi in
quanto creatrice e dominante, che sia la virtù che dona, che affermi
l’essere in quanto divenire(7), perché ”è allora
che il vostro corpo si solleva e risorge; con la sua gioia sprona lo spirito
a farsi creatore ed estimatore e amante e benefattore”(8).
1 F. Nietzsche,
Genealogia della Morale, Opere vol.VI, tomo II, Adelphi, Milano
1968.
2 G. Deleuze & F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi?,
Milano 1967, pp.190-201
3 Cfr G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano
1992, p.85.
4 Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino
1975, p.29.
5 Cfr G. Deleuze, ivi, pp. 35-6.
6 Cfr. ivi, p. 93 e nota.
7 Cfr. ivi, p. 127.
8 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mursia, Milano
1965, p. 72.
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settembre - dicembre 2004 |