Gentile
Ernesto,
è la prima notte di luglio, notte di afa e di veglia, notte di
pensieri lenti. Di notte i pensieri fluttuano, e io voglio parlarti di
città imprevista, di città e di usi, abusi, espropri di
funzioni e di significati, di disordine, di movimenti e di interstizi.
Voglio parlarti di abitanti, di persone e di luoghi, appropriazione e
invenzione di luoghi. La città imprevista, così la chiama
Paolo Cottino (La città imprevista. Il dissenso nelluso
dello spazio urbano, Elèuthera 2003) che racconta storie di
abitanti che, ai margini della Milano da bere, si arrangiano,
adattano, recuperano, riciclano luoghi abbandonati, interstizi della metropoli,
attuano pratiche spontanee che producono fenomeni urbani informali e autorganizzati.
Così la forma che quei luoghi prendono appare la forma del disordine,
dove il disordine è resistenza a un ordine che semplifica e irrigidisce,
fuoriuscita da regole che non sanno vedere i bisogni non garantiti, i
bisogni inespressi di chi non ha rappresentanza, i bisogni clandestini
e i desideri senza cittadinanza.
Mi interessa questa questione del disordine, del rapporto con lordine
e le regole, e della continua ridefinizione dei significati partendo dalle
azioni, dalle pratiche sui luoghi. E allora ti racconto qualcosa di Molfetta,
degli interstizi della Molfetta da bere dove, a mettersi gli
occhiali agli infrarossi, si possono vedere quei buchi neri di significato
dove restano invisibili gruppi di persone, pratiche abitative e sociali
non normate, usi ibridi e di fantasia urbanistica.
Dietro Molfetta Vecchia, tra la cortina di case e il mare: è un
posto dove la parietaria cresce tra le pietre dei muri, la ghiaia scivola
verso i massi che bordeggiano lacqua del porticciolo, le gru dei
cantieri edili fanno da scena fissa alle barchette per andare a fare
i polpi. E un posto dove vengo sempre attratta, tra città
e mare, un posto di confine, un bordo dove le linee di separazione si
sfumano e si sfrangiano le giurisdizioni. E un posto sospeso, in
attesa, una specie di off limits che sfugge al controllo e fuoriesce
dalle regole. Negli anni in cui Molfetta è stata fiorente mercato
della droga potevi trovarvi siringhe usate disseminate tra il pietrisco,
escrementi e immondizia come bava di lumaca che in controluce disegna
la mappa del degrado di una città.
Sui massi lungo la riva ho visto un giorno brucare una capra, uno spaesamento
come se fossi stata catapultata in un film, e Vittorio mi ha portato a
conoscere Michele. Michele si è preso uno iuso abbandonato,
ne ha aperto lingresso murato che dà sul mare, lo ha ripulito,
vi ha messo due asini, vicino ha recintato, riciclando gli scarti di una
città che butta la sua immondizia dove non è vista, e ci
ha messo le galline e un coniglio, ha costruito una vasca per i pesci.
Lodore dellaia è forte e si mescola col sale del mare.
Sullaltro lato del porticciolo in estate alcune famiglie dind
a la terr (cioè Molfetta vecchia) allestiscono una specie
di villaggio balneare a proprio uso, con tende per dormire, cucinare,
mangiare, stare allombra, ombrelloni, stuoie, radio e calciobalilla.
Per due mesi quel pezzo di margine tra città e mare diventa loro,
diventa il loro posto delle vacanze. Questanno lì cè
il cantiere edile che costruisce lallungamento della diga frangiflutti,
ma i bagnanti non hanno rinunciato al loro lido e si adattano tra la pesa
dei camion e le ruspe.
Ora quel limite è conteso tra le ruspe e gli abusivi che vi praticano
usi impropri rispetto alle regole scritte e disegnate. Poi stanno i progetti
che lo vogliono recuperare per costruirci un teatro allaperto e
un porticciolo, per assorbirlo alla città visibile e in vista.
In passato vi sono stati allestiti temporanei spazi per lo spettacolo.
Oggi agli abusi che ne fanno un lido balneare o unaia se ne aggiunge
un altro più scontato e invasivo, un abusivo parcheggio di macchine.
Teatro allaperto, porticciolo, lido balneare, parcheggio, fattoria
di animali o zoo? Come vengono decise le destinazioni duso? I progetti
e le pratiche abitative come dialogano?
Altrove a Molfetta è già avvenuto lo scivolamento di vuoti
urbani verso un uso a parcheggio auto, anchesso abusivo, non
normato ma accettato tacitamente anche da chi esercita il controllo delle
regole e da chi amministra, diventato un uso quasi lecito per consuetudine:
penso a largo Amente a Molfetta vecchia, penso a piazza Paradiso. A volte
tale uso nei fatti diventa indicazione per rivedere le destinazioni duso
di quelle aree nei piani urbanistici. Mi chiedo, ti chiedo, perché
in questo caso un uso di fatto viene inteso dagli amministratori come
una indicazione degli abitanti, abitanti che si comportano da aggressivi
consumatori di risorse, la risorsa spazi liberi, la risorsa città,
la risorsa luoghi di socializzazione? Mi chiedo e ti chiedo perché
in questo caso gli abitanti-automobilisti sono letti come portatori di
istanze, di bisogni, di desiderata, veicoli di un modello di utilizzo
della città che così viene riconosciuto come trasversale
e universale? Perché questo modello non può essere messo
sotto osservazione critica e valutato, piuttosto che assunto acriticamente
come naturale? E se lo stesso atteggiamento di sensibilità
a una domanda del mercato o alle pratiche degli utenti
cittadini o dei consumatori abitanti fosse applicato
alle altre forme abusive di uso del territorio, sarebbe altrettanto ragionevole
pensare di fare dietro al duomo una spiaggia pubblica o un allevamento
di capre o un giardino zoologico?
E invece, prova a ripensare a Michele e ai bagnanti del lido libero sullo
sfondo del duomo: le loro pratiche restano fuori dallattenzione
degli amministratori e dei progettisti, sono semplicisticamente ridotte
a deviazioni insignificanti, espressioni di marginalità e abuso,
produttrici di degrado ambientale. In quel caso il progetto canonico non
si pone domande su quelle forme di esproprio, lordine non dialoga
col disordine, normalizzarlo vuol dire banalmente eliminalo. Eppure le
forme di quel disordine potrebbero essere una occasione per spingerci
a scandagliare significati per ciò che è escluso, sfasato,
non appartenente, per risignificare dove i linguaggi si impastano,
sfumano, diventano balbuzie e si aprono a nuove possibilità, sui
margini della città, ai margini della comunità dei cittadini,
tra le comunità di abitanti, tra regole e non regole, tra individui,
tra spazi di vita, bisogni e desideri. Non indicatori di funzioni duso
ma segnali di problemi di coesistenza e di diritti negati a settori della
comunità insediata su cui mettere attenzione per costruire progetti
di qualità della vita per tutti. E non solo questo, quelle pratiche
spontanee possono far riflettere su stili alternativi a quelli della nostra
modernità arrogante, costruita nel modello del progresso
e del dominio della tecnologia, delle monocolture della mente
(è il titolo del libro di Vandana Shiva, Bollati Boringhieri, 1995)
che distruggono le diversità per una globalizzazione della scala
dei privilegi.
Ho incontrato
Michele laltro giorno, lì dietro al duomo: non ha più
gli animali che con qualche ordinanza gli hanno ingiunto di portare
via. Mi ha detto che i vigili gli spiegavano il divieto di tenere in
città animali che non fossero per compagnia, cani
gatti etc., e lui si chiedeva perché quel etc. non
potessero essere asini capre e galline che pure a lui facevano molta
compagnia. Insomma, ora Michele ha chissà quale altra
occupazione in chissà quale altro posto dimenticato dalla città,
ancora a barcamenarsi, inventando modi per resistere creativamente alla
disoccupazione, alla città dei ghetti.
E solo ora mi ricordo, Michele era venuto a una riunione del Coordinamento
di Quartiere di Molfetta Vecchia a dire che gli avevano mandato lingiunzione
di andarsene, e noi eravamo senza risposte per lui, non siamo riusciti
a distrarci dagli altri temi che stavamo affrontando. Invece quello
era un posto giusto dove portare domande, dove venire a raccontare storie,
le tante storie individuali in cerca di ascolto, dove lascolto
reciproco ci rende capaci di disegnare il territorio che abitiamo anche
nei suoi tratti più nascosti, meno rappresentati o senza rappresentanza,
di disegnarne la complessità e la conflittualità, con
il disagio di chi è clandestino e quello di chi è precario,
di chi è disoccupato e di chi cerca una casa e deve sbattere
la testa contro i prezzi degli affitti che a Molfetta sono stratosferici,
di chi è straniero e di chi vede limmigrato come suo concorrente
, di chi vorrebbe un giardinetto per fare giocare i propri figli al
riparo dalle automobili e di chi chiede il vigile di quartiere per arginare
larroganza dei più forti.
Sai, Ernesto,
siamo immersi in una realtà complessa, molteplice e in continuo
rapido cambiamento, e penso che abbiamo necessità di guardare
le cose con attenzione e liberati dai pregiudizi, e intuisco che possiamo
trovare indizi di direzioni là dove le strade si perdono. Chi
è obbligato al cambiamento ha necessità di riorganizzare
tutto il proprio mondo e di inventarsi soluzioni spesso non collaudate
e perciò creative. Ci sono nelle nostre città molti invisibili
laboratori di pratiche di questo tipo. E chi ancora non
si sente costretto al cambiamento, ma comunque deve già fare
i conti con questo, sui margini della propria quotidianità, della
propria normalità, può usare quel disagio
latente come spinta a guardare con interesse a quei laboratori, a organizzarsi
in gruppi di lavoro, per partecipare, per uscire dallisolamento
e ritrovare la dimensione collettiva dei propri bisogni.
Ciao Ernesto, siamo in cambiamento, con il mal di mare di quando si
lasciano i porti sicuri, e con la necessità vitale di immaginare
gli approdi dove vogliamo andare a mettere le tende, forse portare le
capre e magari andare a fare i bagni di mare tra il cielo e la
terr.
Angela
|
settembre - dicembre 2004 |