Il paese dove nascono i bambini
di Sebastiano Sallustio

Anch’io sono apparso al mondo con questi occhietti,
che ancora non vedono, ma percepiscono la realtà…
Cosa deve rappresentare una nascita, non solo quella di un bambino ma quella di ogni giorno nuovo,
di ogni nuova forma della realtà?
Ermanno Olmi


Ho sempre pensato a Terlizzi come al paese dove nascono i bambini. Non ho mai capito perché molfettesi, giovinazzesi, ruvesi, bitontini, biscegliesi, coratini portassero a nascere i loro figli a Terlizzi, pur avendo in alcuni casi un ospedale nel proprio paese.

Terlizzi è un piccolo paese a 191 m.s.l.m, nell’entroterra a nord di Bari in Puglia a sud d’Italia. Conta circa 28.000 abitanti.
Una piazza e due torri il Carro Trionfale i fiori la Madonna di Sovereto il tornio e l’argilla.
Il mare visto da Terlizzi si mostra nella sua rotondità, complessità. Sembra un ventre materno.

Una corsa sfrenata in bicicletta, di due ragazzi…
Percorrono le strade del paese, uno dietro l’altro. Meta da raggiungere il mare. Un percorso a ritroso per continuare a cercarsi e a rinascere dal mare–liquido amniotico.
Sulla strada pioviggina, i due corrono uno davanti all’altro, senza ostacolarsi, proteggendosi. Non c’è gara né competizione fra i due. E’ semplicemente un tratto di strada percorso insieme per raggiungere una meta comune. Il mare per bagnarsi completamente. Terlizzi diventa il posto giusto per prendere il giusto slancio e tuffarsi…
E’ estate, fa molto caldo.

Incontro Marta, Lucrezia, Donatella, ad un bar in piazza, prendiamo patatine e birra. Sono giovani attiviste nella battaglia dell’ospedale “Sarcone”. Mi raccontano con orgoglio e ancora incredule di quanto accaduto negli ultimi mesi nel loro paese. Mi raccontano che il Comitato delle Donne per l’Ospedale è nato da un gruppo di ragazze che, volendo impedire lo smantellamento delle attrezzature ospedaliere, avevano organizzato un presidio davanti al Sarcone dove inaspettatamente si sono ritrovate centinaia di persone. Il presidio è così diventato permanente, è nata una battaglia politica, ma soprattutto civile per la difesa del diritto alla salute come bene collettivo, pubblico.
Una battaglia con la partecipazione spontanea di centinaia di donne di diverse generazioni, figlie, mamme con prole a seguito e nonne. Hanno presidiato per oltre due mesi l’ospedale, permanentemente, notte e giorno, scambiandosi in turni. Hanno organizzato incontri con altri cittadini per coinvolgerli nella lotta, facendo leva su energie che mai avrebbero pensato di possedere, si sono incatenate ai cancelli, hanno innalzato barricate, affrontato la celere, sono salite su palchi per tenere comizi gridando la loro rabbia. Lo testimoniano anche le molte immagini dei tg nazionali e quelle girate amatorialmente.
Dall’altra parte, chi, dall’alto della propria carica istituzionale, convinto che il “popolo” sia solo l’espressione, prona, di un dato elettorale, numerico, emana i suoi dictat: “l’ospedale Sarcone deve chiudere! I reparti verranno trasferiti a Corato”. “Chirurgia generale: soppressa. Ortopedia: soppressa. Ostetricia e ginecologia: soppressa. Pediatria: soppressa. Anestesia e rianimazione: soppressa. Chirurgia plastica: soppressa. Oftalmologia: soppressa. Servizio immunotrasfusionale: soppresso.” Quello che stava partendo“era il furgone che avrebbe portato via i primi gioielli del “Sarcone”: tre delle dieci incubatrici del reparto di Neonatologia.” (La Repubblica di Bari, 5.11.03). Ho incontrato quelle donne ad una riunione del comitato, quello stesso “popolo” che, invece, è voce critica con reali capacità di autodeterminarsi, con un reale senso civico, portatore di valori estranei a chi, convinto o semplicemente fascinato, persegue modelli neoliberisti e pianifica il territorio secondo logiche di vassallaggio e di spartizione.
Malgrado la determinazione a difendere un bene comune come quello dell’ospedale, su cui il paese aveva investito 40 anni di storia cittadina che hanno “prodotto” nel reparto di Neonatologia più di 1000 nati all’anno, malgrado questo, la battaglia delle Donne di Terlizzi contro la Regione Puglia nella persona del suo governatore Raffaele Fitto è stata persa! Ha prevalso l’arroganza acuta, premeditata, calcolata di chi, dovendo far quadrare i conti, non esita a indebolire una sanità pubblica già carente nei servizi e nelle infrastrutture, sfrondando i posti letto disponibili per ospedale, avviando di fatto la privatizzazione del sistema sanitario regionale, determinando un’ulteriore concentrazione di privilegi.
Malgrado la sconfitta, quelle donne hanno maturato una nuova consapevolezza, si riconoscono come forza attiva e capace di immaginarsi l’ambiente in cui vogliono vivere, vogliono incidere direttamente sulle scelte per Terlizzi e il proprio futuro. Si stanno riorganizzando per riprendere e far crescere questo percorso di partecipazione diretta.
Le Donne di Terlizzi hanno fede, sono volitive e coraggiose, si fanno carico delle sofferenze della madre partoriente, portano con sé, intimamente, il valore della perdita del Figlio, della nascita, del parto, quel dolore a cui danno sfogo pubblicamente solo una volta l’anno battendo i pugni contro il portone della Cattedrale, per entrare e correre piangendo e urlando verso l’effige della Madonna di Sovereto, la loro patrona, per confortarla, ringraziarla, a riconoscerle il dono del conforto.

Il sole sta tramontando. Due vecchietti, Nicola e Michele, scambiano due chiacchiere passeggiando per le strade del borgo vecchio. Passano dalla Piazza dove incrociano altri uomini disposti casualmente a gruppi di quattro, cinque, a passare il tempo o ad accogliere la promessa di lavoro di giovani studenti o, per la maggior parte, di extracomunitari desiderosi di lavorare nelle serre a far nascere rose o gerbere o ranuncoli o violacciocche o crisantemi. L’importante è che vengano assunti al più presto per poter rinnovare il permesso di soggiorno.
Si conoscono più o meno tutti fra loro nel paese. Facendo cenno con la testa, Nicola e Michele abbozzano un saluto con chi incrociano. Continuano la loro passeggiata. Parlano dei preparativi della festa del Carro Trionfale, dell’ennesima asta fra i vari gruppi di timonieri per aggiudicarsi la guida del Carro.
Parlano nostalgicamente di come la festa, nel corso degli anni, si sia snaturata del suo senso originario, di cosa rappresentasse per loro da giovani, e ricordano le parole di Don Tonino che un anno salì sulla pedana della cassa armonica, tra un’esecuzione bandistica e l’altra, inveendo contro i fedeli, chiamandoli “pagani”, per la Madonna portata in processione fra i fumi della carne arrostita, per una festa diventata affaristica. La modernità che travolge anche la religiosità e la festa. Nicola e Michele da giovani vivevano quella festa come riposo dal lavoro, ma era occasione anche per cercare, per chi era scapolo, una moglie. Cosa difficile per “i cafoni” - così chiamavano i contadini - perché snobbati dalle famiglie di quelle ragazze che speravano nell’emancipazione sociale con dei mariti operai.
Nicola racconta a Michele che, da quando è andato in pensione, dopo aver lavorato per anni alle Officine Calabresi, e dopo la cassa integrazione, ora passa la maggior parte del tempo in campagna a coltivare il proprio orticello per la famiglia e per ritrovare un po’ di tranquillità.
Tutti e due in silenzio continuano la loro passeggiata.
Questo tempo, con la visione delle immagini di repertorio della Festa del Carro del 1930 (Giornale Luce), diventa tempo del ricordo, memoria collettiva che sfuma, successivamente, nelle immagini colorate e assordanti della festa così come la vediamo oggi.

Giustina grida. Ha cominciato il travaglio già da un’ora. I medici la tranquillizzano che tutto andrà per il meglio, ma dovrà avere pazienza e essere forte. Suo figlio ha bisogno del suo tempo per nascere. Intanto suo marito Corrado nella sala d’attesa fuma sporgendosi da una finestra.
Giustina è una delle Donne del Comitato per l’Ospedale, ha 26 anni ed è bellissima. Ha lunghi capelli neri che porta raccolti con la coda, gli occhi neri e profondi le labbra sottili.
Ho incontrato Giustina al comitato. Come le altre, malgrado sia più giovane, mostra nei suoi discorsi una forte determinazione. Trovandosi all’ottavo mese di gravidanza avrebbe potuto fregarsene di tutto, ma ha continuato a partecipare alle riunioni per cercare insieme alle altre una nuova via, un nuovo percorso da intraprendere.
Continua a gridare, sono passate altre due ore è sudata, stanca, ma decisa a non mollare, a resistere.
Ci siamo, alterna a brevi momenti di pausa, in cui raccoglie il respiro e le forze e spinge spinge, grida grida. La testa del suo bambino si vede chiaramente, adesso il piccolo è pronto. Giustina spinge con tutte le sue forze.
I medici e le infermiere che l’assistono la incoraggiano, una delle infermiere le asciuga la fronte poi l’accarezza. L’adrenalina scorre, i loro volti sono tesi le pupille dilatate.
Singhiozza, sgrana gli occhi, sente di avercela fatta, il bambino è fuori. Continua a singhiozzare, lascia scivolare la testa sul cuscino, respira con affanno, la vista è annebbiata, guarda il soffitto chiude gli occhi li riapre e cerca suo figlio.

La terra è umida per la pioggia del giorno prima. Sull’erba e sulle foglie d’ulivo soffia una leggera brezza. E’ l’alba e in campagna l’aria è fresca. Fra gli ulivi intravediamo il sole che sorge. Il suono di una bicicletta in lontananza che si avvicina percorrendo una strada sterrata. E’ uno dei due ragazzi che correvano verso il mare. E’ Amik l’albanese, a Terlizzi da cinque anni, che inizia la sua giornata lavorativa nelle serre dove coltiva fiori…

Un giorno ideale d’estate, dall’alba a quella del giorno dopo per raccontare Terlizzi e una battaglia, non per cronaca ma portando lo sguardo all’interno di quel laboratorio di partecipazione dal basso, che diventa racconto universale di nascite e di incontri.
L’intenzione è quella di ascoltare ciò che la gente ha da dirsi, ascoltare le loro storie, raccogliere le loro emozioni e le loro esperienze di tutti i giorni.
La macchina da presa segue i personaggi durante il loro lavoro e le diverse esperienze quotidiane e segue gli avvenimenti in divenire per poter cogliere dei fatti la loro reale essenza.
L’osservazione partecipante come metodo di lavoro, come punto di partenza per cogliere le molte verità di cui ogni quotidiano è portatore. Associazioni attrattive, pensieri collegati anche nella casualità dell’incontro e nella sua magia, che si fa storia da raccontare mentre si racconta.


Venni in questo universo, il perché non sapendo,
né il donde, com’acqua che scorre volente o nolente,
e da esso uscirò come vento del deserto
che soffia volente o nolente, non so verso dove.
Omar Khayyam


L’idea di affrontare il tema della partecipazione diretta intorno ai fatti dell’ospedale di Terlizzi e del comitato delle donne nato in sua difesa spinge l’autore a cercare una condivisione del progetto che parte da chi è stato direttamente coinvolto nella battaglia dell’ospedale Sarcone e va al di là dei canali necessari per la realizzazione di un film documentario: addetti ai lavori, producers e maestranze da una parte ed enti ed istituzioni dall’altra.
In questa linea, la rivista si fa promotrice del progetto nel tentativo di allargare il tiro e la partecipazione.
Questo progetto non prescinde da una gestione economica dello stesso. In parole povere non può essere realizzato senza soldi, considerato che il mercato del cinema documentario in Italia è quasi inesistente quindi no-profit. Normalmente la realizzazione di un progetto come questo può fare affidamento quasi esclusivamente sull’interesse a finanziarlo da parte di un ente pubblico, magari quella stessa Regione che con Fitto ha “razionalizzato” il servizio sanitario e chiuso reparti a Terlizzi come in tutta la Puglia.
Quello che chiediamo ai lettori è un’opinione sull’eventualità di portare avanti “Il paese dove nascono i bambini”, per svilupparlo e realizzalo. Occorrono, quindi, idee e suggerimenti sul come praticare non solo la critica al sistema attraverso le idee ma anche l’esercizio stesso della critica, e decidere di produrre un documentario è già pratica fantasiosa e alternativa.
Come ed in che termini questa partecipazione allargata alla realizzazione del documentario possa concretizzarsi è ancora oscuro e nebuloso. Invece ciò che è chiaro è l’idea del film, il tema, il racconto.
Sallustio racconta di nascite, e di nascita di una realtà possibile, di un nuovo modo di far politica. Racconta di una storia di democrazia diretta, di gente che torna a sentirsi comunità, che partecipa attivamente e consapevolmente alla costruzione del proprio futuro.
Ci rivolgiamo a quelle minoranze sensibili che vorranno far proprio idealmente e moralmente questo progetto e vorranno dedicarvi un po’ del loro tempo.
Buona lettura!

La Redazione

settembre - dicembre 2004