La
recente mobilitazione degli operai della Stata di Melfi ha riportato allattenzione
una realtà, quella del lavoro operaio, che sembra scomparsa assieme
alla fase economico-sociale di cui è stata protagonista; una realtà
che ha subito profonde trasformazioni, ma che non si è ancora estinta
e merita attenzione e lavoro politico.
In questo articolo si tenterà, molto sinteticamente, di prendere
in considerazione le trasformazioni che hanno investito il lavoro operaio.
A tal fine si procederà allindividuazione e alla discussione
di alcuni processi economici tendenziali considerati rilevanti al fine
di ricostruire un quadro generale dei mutamenti verificatisi. Successivamente
mediante i dati relativi a uninchiesta svolta dalla rivista Finesecolo
sui lavoratori della Stata di Melfi si faranno alcune considerazioni relative
alla nuova condizione lavorativa associata al lavoro operaio e ai problemi
in termini di qualità del lavoro e di vita che essa solleva.
I processi economici considerati (il processo di deindustrializzazione,
il processo di ridimensionamento dellimpresa, il processo dautomazione)
prendono avvio tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni
Settanta in risposta alla crisi economica e sociale determinatasi in quegli
anni. Un elemento essenziale di tale risposta è svolto dal progresso
tecnologico connesso allondata di innovazioni dellelettronica
e dellinformatica.
Il processo di deindustrializzazione
Il processo di deindustrializzazione, inteso come processo di riduzione
delloccupazione industriale, può essere colto dallanalisi
dei dati che fotografano la struttura delloccupazione. A partire
dal 1960 e fino al 1980 loccupazione nel settore dellindustria
cresce costantemente, dopo questa data il trend si inverte e comincia
a decrescere in modo lento ma persistente. Il declino del settore dellindustria
è accompagnato dallimpennata occupazionale, soprattutto a
partire dai primi anni Settanta, del terziario privato.
Si tratta di un cambiamento strutturale nella composizione delloccupazione
di grande portata, che per le sue implicazioni, anche in termini di struttura
di classe e di organizzazione sociale del paese, è paragonabile
solo al massiccio esodo agricolo che aveva avuto luogo tra la prima metà
degli anni Cinquanta e la seconda metà degli anni Sessanta.
Nella prima parte del periodo, dal 1960 al 1980, allaumento delloccupazione
industriale corrisponde laffermarsi del modello economico e sociale
di sviluppo fordista: si assiste alla forte crescita economica delle regioni
del triangolo industriale, alla comparsa della grande impresa della produzione
di massa nei settori più avanzati del sistema produttivo italiano,
a una nuova forma di organizzazione del lavoro ispirata ai principi tayloristi
e alle disperate migrazioni dal Mezzogiorno dItalia per fornire
braccia al Nord che si industrializza. E difficile, per
inciso, dire quanto sia legittimo parlare di modello di sviluppo fordista
in Italia anche per quegli anni, dati la persistenza e il notevole peso
della piccola e media impresa, che determinavano così un dualismo
nella struttura industriale italiana(1). Nonostante per lItalia
non si possa parlare di modello produttivo fordista compiuto, o meglio
se ne possa parlare solo con riguardo a determinate aree del paese, la
crescita del settore industriale in questi anni corrisponde a un processo
di crescita numerica e politica della classe operaia e del sindacato di
fabbrica, che riguarda tutti i paesi a capitalismo avanzato.
In Italia le rivendicazioni del movimento operaio, raggiungono il loro
punto di massimo nellautunno del 1969, essenzialmente su iniziativa
dei primi gruppi autonomi di operai e in un atteggiamento di critica rispetto
alla struttura organizzativa e alla linea politica dei sindacati istituzionali.
Due furono le principali rivendicazioni del movimento operaio in questi
anni: il controllo sul processo lavorativo e legualitarismo
retributivo. Un ruolo centrale in questa fase viene svolto dal cosiddetto
operaio-massa, generalmente giovane, meridionale, non specializzato, addetto
al lavoro ripetitivo e alienante alla catena di montaggio fordista e,
soprattutto, escluso dal sistema di rappresentanza sindacale. Fu allopera
in questi anni un importante processo di formazione di una nuova
identità collettiva (2) da parte di masse di lavoratori prima
esclusi dal sistema di rappresentanza che diede al movimento operaio una
forza e radicalità tali da provocare una crisi di governabilità
nel sistema delle grandi imprese italiane. In questi termini si esprime
Valerio Castronovo a proposito della situazione in Fiat: Alla
Fiat le tabelle di marcia della produzione serano ridotte a pezzi
di carta senza alcun valore. Non passava quasi giorno che fermate improvvise,
scioperi isolati di piccoli gruppi, dispute sullambiente di lavoro,
sulla mobilità o sugli straordinari, non bloccassero questo o quel
segmento di Mirafiori o di Rivalta, ma anche di Cassino e di altri complessi
decentrati (
) (3).
A questo fattore di instabilità e di crisi per limpresa,
se ne aggiunge un altro: il mutamento della domanda di beni di consumo,
che, a causa della crescita del reddito pro-capite e della saturazione
dei mercati dei principali beni di consumo di massa, si fa più
specializzata, diversificata e instabile. La crisi viene infine aggravata
dallo shock petrolifero del 1973, con la conseguente caduta della domanda
aggregata e il generale clima di incertezza circa i prezzi relativi e
le prospettive di crescita.
La reazione del sistema delle imprese alla crisi segue due direzioni,
entrambe rivolte al risparmio del fattore lavoro: il decentramento produttivo
e lavvio del processo di automazione, rispettivamente il secondo
e il terzo processo considerati in questo articolo.
Il 1980 (lanno della sconfitta degli operai della Fiat), come già
detto, segna linizio del processo di deindustrializzazione, che
passa attraverso la ristrutturazione della prima metà degli anni
Ottanta, la crisi industriale dei primi anni Novanta e le profonde modifiche
nelle caratteristiche quantitative e qualitative delloccupazione
che sono emerse a partire dalla seconda metà degli anni Novanta
(4).
Tale processo ha avuto come esito prevalente la riduzione del lavoro operaio
soprattutto nella grande industria e nei settori economici trainanti del
sistema produttivo fordista. Il conseguente ridimensionamento politico
e sociale della classe operaia si è così realizzato mediante
lerosione della base strutturale su cui si era fondata
la crescita e la forza del movimento operaio.
Secondo lindagine Istat sulle forze di lavoro (5), in Italia, nel
2002, gli operai erano 7.225.000, il 33,2% degli occupati, nel 1979 erano
9.465.000, il 46,7% degli occupati: lentità del cambiamento
è consistente, la marginalità politica e sociale di questi
lavoratori notevolmente maggiore.
Il processo di ridimensionamento dellimpresa
In Italia limportanza delle imprese di grandi dimensioni cresce
fino alla fine degli anni Sessanta per poi decrescere stabilmente; viceversa
limportanza delle imprese minori diminuisce fino alla fine degli
anni Sessanta per poi crescere stabilmente.
Attualmente, in Italia, le piccole imprese occupano almeno il 50% dei
lavoratori dipendenti, una quota che non ha eguali nei paesi a capitalismo
avanzato.
Il ridimensionamento dellimpresa taylor-fordista (la grande impresa
verticalmente integrata della produzione di beni di massa standardizzati
che sfrutta le economie statiche di scala) avviene mediate due fasi: la
prima fase, che possiamo chiamare snellimento organizzativo,
ha avuto come obiettivo la flessibilizzazione organizzativa dellimpresa
fordista; la seconda fase, che possiamo chiamare snellimento tecnologico,
tende al raggiungimento della flessibilità tecnologica attraverso
una profonda trasformazione della struttura dimpresa e del processo
produttivo. Entrambi questi processi realizzano una flessibilità
crescente del sistema produttivo e nelluso del fattore lavoro.
Lo snellimento organizzativo ha avuto luogo allincirca nel decennio
che va dal 1975 al 1985 e ha interessato esclusivamente le grandi imprese
fordiste del triangolo industriale. È stato attuato mediante un
processo di decentramento produttivo consistente in una rilevante esternalizzazione
di attività per lo più secondarie del processo di produzione.
La sua funzione è stata prevalentemente antisindacale, in risposta
alle rivendicazioni e alla forza del movimento operaio. La flessibilità
organizzativa viene ottenuta in due modi. Da un lato, limpresa fordista
può concentrarsi sulle attività a maggior valore aggiunto
e scaricare sui suoi fornitori (e sui loro lavoratori) i costi della flessibilità:
quando la domanda è alta il fornitore viene attivato, quando essa
si contrae è il fornitore a subire una drastica riduzione delle
sue attività. Daltro lato limpresa fordista può
beneficiare della riduzione della massa di lavoratori che avevano costituito
il contropotere operaio e delle loro resistenze,
conseguendo, in più, una notevole riduzione dei costi dimpiego
della forza lavoro, grazie alle condizioni di lavoro contrassegnate da
maggiore cooperazione, minore conflittualità e minori salari delle
unità produttive di dimensioni minori.
Nella prima parte di questa fase, allincirca fino alla fine degli
anni Settanta, il ruolo della piccola impresa cresce in ragione dei processi
di esternalizzazione, ma proprio per la loro origine, le piccole dimensioni
assumono in genere caratteristiche di dipendenza dalle dimensioni maggiori:
sono in gran maggioranza unità produttive dellimpresa verticalmente
integrata fordista, formalmente autonome per raccogliere i vantaggi della
decongestione sociale.
A partire dai primi anni Ottanta e fino al biennio 1985-86, le grandi
imprese fordiste avviano la ristrutturazione tecnologica con lintroduzione
nel processo produttivo delle tecnologie elettroniche e informatiche.
In questi anni, parte della piccola impresa, in un contesto di ripiegamento
e di ristrutturazione della grande impresa, assume un ruolo economicamente
più rilevante e si organizza, in alcune aree del paese, nei distretti
industriali, assumendo caratteristiche simili a quelle del modello
di specializzazione flessibile (6).
Lo snellimento tecnologico prende avvio nella seconda metà degli
anni Ottanta, come esito della ristrutturazione dei primi anni Ottanta,
e realizza un profondo processo di trasformazione dellassetto complessivo
della grande impresa, che tende ad organizzarsi secondo una struttura
a rete, in genere considerevolmente diffusa nello spazio produttivo globale.
Mentre il decentramento della prima fase aveva ridotto massicciamente
il grado di integrazione verticale dellimpresa fordista ma aveva
lasciato sostanzialmente intatto il metodo e la tecnologia produttiva
tayloristi, adesso risulta possibile, proprio in quanto mutano le tecnologie
adottate nella produzione, un vero e proprio smembramento del processo
produttivo di un dato bene in un sistema di imprese medio-piccole e fra
loro molto differenziate, che fanno riferimento, a diversi livelli, a
una casa madre di dimensioni tendenzialmente grandi, a seconda del settore.
Questo importante mutamento della struttura produttiva dimpresa
di nuovo modifica il rapporto tra grande e piccola dimensione tendendo
a ridurre i margini di autonomia delle piccole imprese e a ristabilire
la vecchia gerarchia fordista.
Anche le conseguenze sul lavoro risultano di grande portata: si riduce
fortemente il numero di lavoratori direttamente alle dipendenze della
grande impresa e larga parte della gestione e dellorganizzazione
della forza-lavoro è demandata alle imprese, di dimensioni variabili,
facenti parte della filiera produttiva. Queste sono obbligate, nei confronti
dellimpresa madre, a un dato risultato produttivo, in un dato periodo
di tempo, e per ottenerlo possono avvalersi delle forme di lavoro più
diversificate: dal lavoro nelle cooperative al lavoro nero, dai lavoratori
autonomi di seconda generazione alle diverse forme di contratti
atipici, in un contesto di crescente espansione della contrattazione individuale.
Il processo dautomazione
Da quando è cominciato lo sviluppo industriale moderno,
ossia da due secoli, abbiamo avuto periodi di poco più di mezzo
secolo dominati, ciascuno, da una, due, al massimo tre grandi innovazioni
(7) scrive Paolo Sylos Labini, e attualmente staremmo vivendo la
quarta rivoluzione industriale, trainata dal grappolo di innovazioni rappresentato
dalle tecnologie elettroniche e informatiche. Come già accennato,
in Italia tali tecnologie vengono applicate al processo produttivo delle
imprese taylor-fordiste durante la ristrutturazione dei primi anni Ottanta,
in conseguenza dei grandi mutamenti avvenuti nel sistema economico, sociale
e politico durante gli anni Settanta.
Il processo di ristrutturazione, consistente, dal punto di vista strettamente
tecnologico, nella sostituzione di componenti e parti a tecnologia meccanica
e elettromeccanica con componenti a tecnologia elettronica, ha modificato
profondamente il processo produttivo di tutte le attività industriali
consentendo lautomazione di ampie fasi del processo produttivo (automazione
flessibile) e la conseguente riduzione delle unità di lavoro
richieste per la produzione delle stesse quantità di beni.
È opportuno ora prendere in considerazione, seppur sinteticamente,
le trasformazioni che il processo dautomazione ha prodotto sul processo
produttivo, sullorganizzazione del lavoro e sulle forme del comando
e controllo sul lavoro.
La produzione è tendenzialmente organizzata come un flusso
che procede, a partire da un punto iniziale, per operazioni incrementali
successive su ciascun pezzo (flusso monopezzo). Il flusso monopezzo è
il risultato dellazzeramento delle scorte interoperazionali, per
cui esso riduce sia il costo delle giacenze sia il tempo di produzione
di ciascun prodotto (tempo di attraversamento), dovuto allannullamento
degli spostamenti dei semilavorati da un luogo allaltro della fabbrica
(8).
Nel flusso, la linea ha un movimento prefissato, la cui velocità
viene normalmente concordata con il sindacato, ma la quantità di
pezzi che entrano sulla linea è variabile e dipende dalle chiamate
della cellula produttiva successiva, secondo il principio organizzativo
del just-in-time.
Sulle linee del flusso monopezzo sono distribuiti i lavoratori, organizzati
secondo una nuova modalità, in generale sconosciuta alla fabbrica
taylorista: il team di lavoro. Ogni team costituisce una cellula produttiva
che ha come compito rifornire just-in-time (esattamente al
tempo designato) la cellula a valle del processo produttivo dei
componenti richiesti. Il kanban rappresenta lo strumento operativo di
realizzazione del just-in-time. Kanban significa letteralmente
cartellino ed è linsieme delle informazioni su
cosa e quanto produrre che ogni cellula produttiva fa pervenire alla cellula
posta subito a monte nel processo produttivo. Interessante è quanto
rileva Laura Fiocco a proposito del sistema kanban: la
sua applicazione produce un effetto di occultamento del potere, per cui
funziona da dispositivo normalizzante e quindi da forza regolatrice dei
rapporti sociali (9).
Leffetto occultante sarebbe dato dal fatto che il sistema kanban
veicola un ordine della direzione senza che questo appaia come tale, perché
occultato nella forma di un ordine produttivo oggettivo e neutrale. Infatti,
è vero che la produzione effettiva dipende da quanto tirano
le cellule a valle, ma è la direzione che calcola il potenziale
massimo possibile di produzione dato dalla produttività teorica
degli operai effettivamente presenti in un turno, e su questa base viene
fatta la programmazione operativa, per ogni turno, della quantità
e del mix prodotto e vengono impartiti, ai vari livelli, gli ordini conseguenti.
Questi ordini, tuttavia, appaiono ai lavoratori nella forma di fatto
oggettivo, di necessità della cellula produttiva
collocata a valle del processo produttivo e, in ultima analisi, di ordine
dacquisto del cliente finale, come se il piano della produzione
fosse fornito da questultimo. Il risultato è che limposizione
dei ritmi di lavoro appare agli stessi lavoratori come un imperativo del
flusso e non una decisione e un ordine della direzione aziendale.
Il nuovo modello produttivo, qui sinteticamente descritto, configura una
forma diversa di controllo e di comando sul lavoro.
La scienza del lavoro di Taylor era stato un potente strumento
di controllo della forza-lavoro: con essa si era spogliato il lavoratore
del potere che poteva avere sul processo produttivo in quanto detentore
di professionalità e lo si era forzato a erogare lavoro grezzo,
semplice energia lavorativa, sotto il comando del nastro della catena
di montaggio fordista che imponeva in ogni momento il gesto da compiere
e il ritmo al quale eseguirlo. Loperaio era diventato lappendice
umana della macchina, il suo lavoro poteva essere svolto da uno scimpanzé
ammaestrato.
Si era così ottenuta una produttività del lavoro che non
aveva precedenti e si era riacquistato a pieno il controllo del processo
produttivo e della forza-lavoro, sconfiggendo la resistenza degli operai
al comando dimpresa e la loro lentezza sistematica.
Le vicende degli anni successivi, la graduale presa di coscienza delloperaio,
lorganizzazione e le rivendicazioni del movimento operaio, rendono
la scienza del lavoro sempre più inadeguata: il lavoro sfugge al
comando della catena di montaggio, con gli scioperi, la lentezza
sistematica, lassenteismo e non obbedisce più ai capi,
la direzione aziendale perde il controllo sul processo produttivo e sulla
forza-lavoro.
La fabbrica integrata invece cambia realmente la forma del comando e del
controllo sul lavoro. Lerogazione di energia lavorativa sotto il
comando e al ritmo della catena di montaggio viene sostituita dal sistema
just-in-time: è la necessità di rifornire just-in-time
la cellula a valle che impone alla cellula produttiva le quantità
da produrre e i tempi di produzione.
La prestazione lavorativa adesso non si esaurisce più nella ripetizione
di un gesto elementare e sempre uguale, ma affianca attività esecutive
ad attività di controllo, richiede alloperaio di essere polivalente
(viene meno il principio taylorista un uomo, una mansione),
di lavorare su più macchine e, soprattutto, di autoattivarsi
(di partecipare attivamente allo svolgimento della prestazione lavorativa,
controllando che tutto proceda come previsto, risolvendo i problemi che
possono presentarsi durante la produzione, recuperando leventuale
scarto tra la produzione richiesta e quella effettiva).
Il nuovo modello produttivo muta anche lorganizzazione gerarchica
della fabbrica, diminuendo il numero di livelli gerarchici, e il sistema
di gestione del personale. Il primo aspetto la riduzione del numero
di livelli gerarchici e la conseguente diminuzione del numero di capi
in generale non ha comportato una riduzione della sorveglianza
sui lavoratori: nella fabbrica snella la sorveglianza, per così
dire visibile, dei capi fordisti può essere sostituita
dalla strumentazione elettronica di sorveglianza e controllo sul lavoro
che consente la monitorizzazione continua di tutto il processo produttivo.
Il controllo della direzione, lungi dal diminuire, si fa più efficace
e pervasivo, perché induce i lavoratori monitorati via computer
a interiorizzare le norme di comportamento, imposte come se fossero normali
regole di esistenza.
Relativamente al secondo aspetto, invece, abbiamo già visto come
lorganizzazione in gruppi di lavoro sia uno degli aspetti più
importanti del nuovo modello produttivo. Questo tipo di organizzazione
ha delle conseguenze rilevanti, in termini di controllo sul lavoro: nella
fabbrica integrata la cellula produttiva (gruppo di lavoro) costituisce
la nuova dimensione del rapporto tra i lavoratori esecutivi e i loro capi.
In questo contesto, di dimensioni variabili ma tendenzialmente modeste,
il capo della cellula produttiva intrattiene con i lavoratori rapporti
di tipo personale, invece che gerarchico-militare e gestisce le tensioni
e le resistenze che possono nascere nella forma di relazioni apparentemente
discorsive e interpersonali. Tutta la logica di gestione
delle tensioni è tesa a scongiurare il conflitto aperto, e ad escludere
il sindacato dalla negoziazione(10). La conseguenza è
che i lavoratori negoziano individualmente le esigenze e i bisogni che
emergono quotidianamente sul lavoro.
La richiesta di autoattivazione fatta alloperaio è in realtà
la richiesta che questi condivida e faccia propri i fini dellimpresa
in cui lavora, si faccia coinvolgere dalle difficoltà dellazienda
e interiorizzi un problema che invece risultava estraneo alloperaio
fordista: il problema della competitività e della profittabilità
dellimpresa. E così condotto alle estreme
conseguenze il principio della riduzione assoluta dei tempi di vita della
forza-lavoro a tempi produttivi, che aveva costituito il reale obiettivo
dello scientific management. E che aveva orientato la ricerca di Taylor
(11).
La fabbrica integrata usa il senso di appartenenza allimpresa come
la fabbrica taylorista usava la costrizione; aspira allegemonia,
ad acquisire la fedeltà e la disponibilità del lavoro, come
quella si fondava sul dispotismo. Si tratta cioè di sussumere
al capitale la dimensione esistenziale stessa della forza lavoro. Di identificare
la soggettività del lavoro con la soggettività del capitale.
Anzi di fare dellappartenenza allImpresa lunica
soggettività possibile (12). La nuova forma di controllo
sul lavoro passa, o dovrebbe passare, per una ideologia di questo tipo
e si realizza attraverso i meccanismi descritti, ma, come suggerisce Laura
Fiocco, ha dei forti fondamenti materiali, che, io credo, siano strettamente
connessi allassetto assunto complessivamente dal mercato del lavoro.
Il risultato dei processi economici presi in considerazione nelle righe
precedenti può essere individuato nella destrutturazione della
figura operaia tipica dellorganizzazione della produzione e del
lavoro fordista loperaio della grande impresa a tecnologia
meccanica regolata secondo i principi dellorganizzazione scientifica
del lavoro e, contemporaneamente, nella strutturazione di una nuova
forza lavoro operaia.
Questa si presenta di dimensioni molto minori (13), dispersa in unità
produttive di dimensioni variabili, ma tendenzialmente ridotte e molto
diversificate quanto a livello tecnologico e organizzazione della produzione
e del lavoro, inserita in un contesto di automazione crescente, seppure
quasi mai compiutamente realizzato, e sottoposta a forme contrattuali
differenziate, spesso precarie.
Il caso
Melfi
Nel 1996 e nel 1998 la rivista Finesecolo ha realizzato uninchiesta
tra gli operai della Stata di Melfi: un punto di vista importante, seppure
necessariamente parziale, al fine di cogliere i diversi aspetti della
condizione lavorativa e i problemi in termini di qualità del
lavoro che essa solleva.
Linchiesta, come elaborata in due contributi di Vittorio Rieser
(14) a cui si rimanda, analizza la condizione di lavoro, sulla base
di cinque dimensioni (rotazione tra mansioni, ritmi e tempi di lavoro,
orario e straordinario, nocività e infortuni, salario), e i rapporti
sociali aziendali (rapporti gerarchici, rapporti tra operai, sistema
di premi e punizioni).
Dalle parole degli intervistati emerge una condizione di lavoro, che,
da un lato, risente in modo pesante del nuovo modello organizzativo
a flusso teso (turni di lavoro con la cosiddetta doppia
battuta, fortissima pressione temporale in termini di ritmi di
lavoro e sovraccarico di compiti, cui sono associati stress, incidenti
di lavoro, situazioni di tensione tra i lavoratori) e, dallaltro,
si scontra ancora con situazioni tradizionali (come la noia
e la fatica del lavoro, i salari bassi e un sistema sociale aziendale,
in cui lesigenza di controllo sociale diretto prevale
su quelle di integrazione e incentivazione) che trovano alimento, oggi
come ieri, nella diffusa disoccupazione dellarea (il cosiddetto
effetto prato verde).
Contrariamente a quanto previsto dal nuovo modello produttivo, non emergono
segnali di identificazione dei lavoratori con lazienda. Questa,
in genere, viene percepita come un posto da cui, se possibile, scappare
o come un posto in cui si è costretti a rimanere. Questo elemento
può essere ricondotto alla natura contraddittoria e non
assestata dello stabilimento di Melfi e in particolare al sistema
di controllo sociale di tipo gerarchico-repressivo, denunciato dagli
operai di Melfi durante la loro recente mobilitazione. Il terreno dellidentificazione
viene allora spostato fuori dallattività lavorativa, essendo
venuta meno la speranza di controllarla e gestirla, mentre
linsoddisfazione rispetto al proprio lavoro è in generale
alta e si accompagna a sentimenti di marginalità sociale e di
insicurezza, legati al timore di licenziamento (e alle scarse prospettive
occupazionali alternative) o di terziarizzazione e allassenza
di protezione sindacale e di rappresentanza politica.
I problemi in termini di qualità del lavoro che emergono da questa
realtà sono assolutamente importanti. Possiamo considerare, secondo
lanalisi di Luciano Gallino (15), la qualità del lavoro,
sulla base di quattro dimensioni: ergonomica, della complessità,
dellautonomia e del controllo.
Sulla base di quanto emerso dallinchiesta è possibile affermare
che mentre la dimensione ergonomica presenta una situazione molto critica,
a causa dei turni e dei ritmi di lavoro insostenibili imposti, le dimensioni
dellautonomia e del controllo restano, oggi più di ieri,
completamente fuori dalla portata di questi lavoratori. Probabilmente,
invece, la dimensione della complessità ha subito una qualche
positiva evoluzione, anche se questa sembra essersi espressa piuttosto
in un aumento relativo di figure più qualificate in fabbrica
che in un aumento generalizzato del livello di qualificazione della
forza-lavoro.
Infine, come hanno mostrato le mobilitazioni degli operai di Melfi e
nonostante tali mobilitazioni, resta lineludibile problema dei
bassi salari e la più generale questione salariale, che si presenta
sotto certi aspetti in termini nuovi e molto più complessi che
in passato.
Si tratta, come sottolinea Vittorio Rieser, di ricostruire con la realtà
del lavoro, considerata nella sua totalità e complessità,
un nuovo rapporto conoscitivo e organizzativo, con uno sforzo sia in
termini di analisi sia in termini di elaborazione rivendicativa e di
proposte organizzative, di cui un bilancio autocritico da parte delle
organizzazioni sindacali è la necessaria premessa (16).
La capacità del sindacato di costruire le condizioni contrattuali
per accrescere il controllo dei lavoratori sulla prestazione lavorativa
passa per la capacità di dare ascolto alle nuove esigenze del
lavoro, ricostruendo un tessuto di rappresentanza sulla prestazione/condizione
di lavoro e coinvolgendo i lavoratori giovani, facendo loro vedere la
rappresentanza sindacale come uno strumento che funziona sui loro problemi
concreti. Tanto più che nelle realtà dove il sindacato
è riuscito a muoversi in questa direzione, i risultati sembrano
essere stati positivi. Uno sforzo difficile e da svolgere su più
fronti che abbisogna di tutto il sostegno e il lavoro delle forze politiche
e sociali, perché è anche da questo che dipende la forza
dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali.
1. E. Pugliese,
E. Rebeggiani, Occupazione e disoccupazione in Italia (1945-1995),
Edizioni Lavoro, Roma, 1997
2. A. Pizzorno, E. Reyneri, M. Regini, I. Regalia, Lotte operaie e
sindacato. Il ciclo 1968-1972 in Italia, Il Mulino, Bologna, 1978
3. V. Castronovo, Fiat 1899-1999 un secolo di storia italiana,
Rizzoli, Milano, 1999
4. A partire dal 1996, in Italia e negli altri paesi Europei, loccupazione
cresce costantemente, ma tale aumento presenta caratteristiche di forte
discontinuità rispetto al passato sia perché riguarda in
modo massiccio le donne sia perché vede un importante mutamento
delle forme del rapporto di lavoro: lemergere e il consolidarsi
di rapporti di lavoro cosiddetti atipici, che nel 2002 riguardavano ben
il 22,7% degli occupati.
5. Istat, Forze di lavoro, 2003
6. F. Barca, M. Magnani, Lindustria tra capitale e lavoro,
Il Mulino, Bologna, 1989
7. P. Sylos Labini, Nuove tecnologie e disoccupazione, Laterza,
Bari, 1989
8. L. Fiocco, Innovazione tecnologica e innovazione sociale, Rubbettino,
Catanzaro, 1998
9. Ibidem
10. Ibidem
11. M. Revelli, Introduzione a T. Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi,
Torino, 1993
12. Ibidem
13. Questa considerazione è relativa allItalia, come tutto
il ragionamento svolto fino a questo momento. Lo stesso può dirsi
per tutti i paesi cosiddetti a capitalismo avanzato, ma non per i paesi
in via di sviluppo, dove, al contrario, il lavoro operaio cresce in conseguenza
dei vasti processi di delocalizzazione produttiva dei paesi occidentali.
14. V. Rieser, La fabbrica integrata realizzata, Finesecolo,
1996 e I lavoratori della fabbrica integrata continuità e mutamenti,
Finesecolo, 1998
15. L. Gallino, Lavoro, Sociologia del, Dizionario di sociologia,
Utet, Torino, 1993
16. V. Rieser, Nuovi lavori, nuovo sindacato, La rivista del manifesto,
n. 20, 2001
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settembre - dicembre 2004 |