Guayaquil, tra prove di modernità ed esclusione sociale
di Francesco Ciari

L’enorme distesa urbana, quasi piatta si estende sulla riva sinistra del rio Guayas. Uniche interruzioni in questa marea di asfalto e cemento sono una manciata di grattacieli scintillanti nel centro, e un paio di colline, che sembrano finite lì per caso a spezzare la monotonia del paesaggio. Con i suoi 2 milioni di abitanti Guayaquil è la città più popolosa dell’Ecuador.
Sconosciuta ai più in Europa, è generalmente considerata dai turisti che visitano il paese poco più che uno stop sulla strada delle località della costa. Il clima soffocante ed il contendersi con la capitale il poco invidiabile primato di città più pericolosa dell’Ecuador, non sono certo il migliore dei biglietti da visita per trattenere i viaggiatori più di una notte. Oltretutto Guayaquil non può competere con Quito per la quantità o la bellezza dei suoi siti e monumenti storici.
In compenso non mancano i “business man” locali e stranieri; vengono a discutere i loro affari nella capitale economica e finanziaria del paese, riempiendone i numerosi alberghi cinque stelle. Le due ultime amministrazioni comunali hanno investito molto nel migliorare la reputazione della città. Renderla più bella, più vivibile e più sicura. E anche per cercare di attrarre quel turismo internazionale che è pur sempre una delle principali voci in ingresso nel bilancio dello Stato, anche se concentrato soprattutto alle Galapagos ed in un pugno di altre località.
Fulcro di questa operazione di rilancio è stato il faraonico “Malecon 2000”; questo è il nome del progetto che comprende una serie di interventi di riabilitazione urbana che hanno interessato il centro della città. Malecon significa molo, ed è il nome con il quale da sempre viene chiamato il lungofiume della città, la cui riabilitazione è il principale degli interventi pensati per ridare lustro all’immagine cittadina. Il tutto è accompagnato da un’imponente servizio di securizzazione del nuovo “salotto buono” della città. Gli oltre 100 milioni di dollari spesi dal comune in questo progetto rappresentano una cifra enorme per un’amministrazione locale, soprattutto in un paese povero come l’Ecuador.
Passeggiando per i vialetti di Malecon, due sono i pensieri che ronzano continuamente nel cervello.
Il primo è rivolto alla bellezza dell’opera ed alla perfezione nella sua realizzazione. Raramente in un paese in via di sviluppo capita di ammirare qualcosa di così grande senza che si riesca a trovare almeno un difetto, se non altro a livello stilistico; il nostro gusto raffinato di europei tende a trovare un po’ kitsch molte espressioni dell’architettura e dell’arte di questi paesi. Il prendere generalmente gli “States” a modello da parte della classe dirigente del paese non poteva che aumentare il rischio. Perfettamente scongiurato.
Il secondo pensiero torna più pragmaticamente alla cifra spesa, e si concretizza in poche semplici domande. Serve veramente tutto questo? Era il modo migliore di spendere questi soldi?
Trovare argomenti contro la realizzazione di un’opera tanto dispendiosa in un paese come l’Ecuador è fin troppo ovvio, di fronte ad una povertà diffusa nella popolazione: perché non investire nel sociale, nell’istruzione o nella sanità per esempio? A questo proposito è anche utile ricordare che l’istruzione, in particolare quella superiore ed universitaria, è a pagamento in Ecuador. Chi è povero difficilmente può accedervi, e quindi è probabilmente destinato a mantenere la sua condizione. Anche il sistema di sanità pubblica non copre la maggior parte delle necessità della popolazione; potersi curare per problemi che vanno al di là dei più banali malanni è un lusso che molti non si possono permettere.
Ovviamente spesso questi sono anche gli stessi che ne avrebbero più bisogno: per loro c’è lo sciamano! “Sono i populisti, come il vicino Chavez, che ragionano così, che cercano semplicemente di accaparrarsi i voti delle classi più povere”. Questo è il tono di molte risposte a certe obiezioni.
Altrettanto facile è sentir dire che certe critiche dimenticano una volta di più che sono proprio grandi opere come queste che portano per tutti sviluppo e benessere, e poi è una cosa bella fatta per tutti. Creare un luogo di aggregazione, di socializzazione e di divertimento, ed anche di cultura - ci sono oltre ai cinema anche alcune librerie ed uno spazio espositivo - fa indubbiamente parte del ruolo di una amministrazione comunale.
Non si può poi negare che l’opera ha sicuramente creato molti nuovi posti di lavoro, un centro commerciale, alcune zone per la ristorazione, vari bar, un paio di cinema, persino un galeone dei pirati che porta avanti e indietro i turisti per il lungo fiume. Non è facile quantificare l’occupazione creata, ma si tratta sicuramente di qualche centinaio di persone.
L’enorme servizio di pulizia, che si estende anche ad alcune zone del centro, dà l’impressione che ogni addetto non debba occuparsi di più di dieci mattonelle tanto è capillare e numeroso. Credo che in tutto l’Ecuador sia impossibile trovare spazi urbani tanto puliti e ben tenuti come nella “T” costituita dal “Malecon” lungo il fiume e dall’Avenida 9 de Octubre, che si allunga perpendicolarmente verso l’interno fino a sconfinare in zone meno frequentabili della città.
Il servizio di sicurezza è assolutamente imponente, ed onnipresente. Si può passeggiare per il lungo fiume con inusitata tranquillità rispetto a qualsiasi grande città ecuadoriana; tranquillo scorre al lato anche il fiume Guayas nonostante le acque cariche di sedimenti non gli diano un aspetto molto rassicurante, e tranquilla sembra la gente che si gode questa grande opera costruita per i cittadini, questo enorme regalo che un Sindaco illuminato ha voluto confezionare per il popolo della sua città. La serie di aiuole e piccoli parchi, in cui si riproduce su piccola scala la stupefacente biodiversità del paese, i laghetti con pesci e tartarughe, le lunghissime file di giochi per bambini inframezzate da punti di ristoro e bar: in effetti ci sono tutti i presupposti perché la gente possa veramente godere di questo bellissimo luogo. Dopo un po’ che si passeggia, incrociando tanta gente soddisfatta e orgogliosa delle propria città si è quasi disposti a dare credito alla bontà del progetto. E poi parlando con la gente tanti dicono: Guayaquil è cambiata, il sindaco di adesso è uno in gamba, adesso è veramente più bella e più sicura.
Ma c’è sempre qualcosa che non convince fino in fondo.
Facendo più attenzione si nota che, tra tutta la gente che si sta godendo il Malecon, pochissimi sono gli indios e i neri, che però nel paese costituiscono, sommati tra loro, il 45% della popolazione. Difficile darsi una spiegazione: i neri e gli indios appartengono in massima parte agli strati sociali più bassi, e non hanno certo soldi da spendere per i divertimenti. Molti bar e ristoranti, hanno effettivamente prezzi esorbitanti per gli standard ecuadoriani, né ci si aspetterebbe di vederli sul galeone, ma il parco è ad ingresso libero, perché non approfittarne? La logica vorrebbe che proprio i più poveri fossero i primi a sfuggire alla bruttura dei loro quartieri, affollando le rive del fiume.
L’enigma è presto risolto, un piccolo cartello rivela una grande ingiustizia. Molto sobriamente, ricorda che: “La direzione dell’ente Malecon 2000 si riserva di selezionare le persone in ingresso”: il gioco è fatto! Il bene di tutti, non è poi così di tutti. Il suo godimento è perlomeno discrezionale, se non proprio inaccessibile per molti, forse per i più.
Ma questo ancora non è tutto. Percorrendo verso nord il Malecon, fino ad uscirne, si arriva ad ammirare un’altro riuscito intervento di riabilitazione urbana, quello del quartiere storico di Las Penas. Il quartiere è abbarbicato su due colline, ed è la parte più antica di Guayaquil. Luogo storico, con un certo potenziale turistico. Purtroppo pare che fino a tempi recenti fosse piuttosto improbabile entrarci senza uscirne alleggerito dei propri averi. Quello che può essere considerato l’ingresso principale del quartiere è una lunga scalinata, sui cui lati si allineano casette di due tre piani, stile coloniale, colori pastello. Incantevole.
Facendo qualche passo indietro ci si accorge però di un fatto abbastanza sorprendente: il restauro ha riguardato solo una metà circa della prima collina, tutto il resto del quartiere versa nelle stesse pietose condizioni di prima, tetti di lamiera che coprono vecchie mura decrepite e cadenti, di cui ormai solo con difficoltà si riesce ad indovinare che avevano lo stesso stile delle altre. Le strade non sono asfaltate, le fogne inesistenti, la spazzatura ovunque.
Le due zone sono confinanti.
Cominciando a salire la scalinata, gli addetti alla sicurezza ti ricordano che si deve obbligatoriamente tenere la destra; cerco tra i miei ricordi qualcosa di simile in Europa ma non ci riesco. Sulle facciate delle casette perfettamente restaurate, accanto alla porta una foto ricorda le condizioni (pietose naturalmente) in cui versava l’abitazione prima dell’intervento. Certo, chi si è ritrovato la casa qua in mezzo, adesso sta facendo buoni affari. Chi invece se l’è trovata giusto accanto naviga nella stessa miseria di prima. Purtroppo i secondi sono la maggioranza, ed è difficile immaginare che il modello venga esteso a tutto il quartiere e poi a tutta la città.
Comunque qui solo facce contente. Si allineano tanti piccoli ristoranti, negozi di souvenir, venditori di bibite e generi alimentari in un dedalo di stradine, piazzette e strette scalinate che si snoda tra deliziose casette colorate. La poesia è però bruscamente interrotta; basta guardare un po’ meglio e si nota che il confine tra la “Disneyland” e la “bidonville” non è solo marcato dal colore delle case, ma da portali ad arco con tanto di cancellata in metallo prudentemente socchiusa, non si sa mai chi potrebbe entrare! E se poi qualcuno dall’altra parte del muro avesse strane idee, in corrispondenza di ogni portale c’è un’agente, non accanto però, così il messaggio sarebbe troppo evidente, basta dare un’occhiata da una certa distanza, senza che tutto sembri troppo una gabbia, sarebbe poco attraente. I poveri e i disperati ci sono ancora, ma non c’è pericolo che nuocciano, sono tenuti a debita distanza, e anzi non si vedono neanche, quindi no, non ci sono più.
Se rimanevano ancora dubbi sui beneficiari del nuovo corso della città, adesso sono definitivamente fugati. La verità è che i destinatari non sono tutti gli abitanti di Guayaquil, e tutto sommato neanche i turisti, ma semplicemente la borghesia della città. Non è neanche per i veri ricchi, quelli se ne stanno nelle loro megaville, con guardie armate fino ai denti a proteggerli. E decidono quello che deve succedere. Perché questo è il loro “cadeau” per fare contento il ceto medio. Gettare un po’ di fumo negli occhi, creando questo grande cambiamento che alla fine non cambia proprio niente. Solo un po’ di cera perché tutto brilli, e la polvere sotto il tappeto.
Ma l’entusiasmo e l’orgoglio per una città più bella può indirizzare i voti nella giusta direzione. Garantirsi che la nuova Guayaquil sia come la vecchia. Tanta ricchezza in poche mani. Tante mani vuote.
Con la sera che scende si attenua il caldo, e i turisti che già nel pomeriggio percorrevano su e giù le scalinate di Las Penas sono adesso accompagnati da una folla di Guayaquilenos. I ristorantini sono tutti pieni. Ecuadoriani ben vestiti e con il cellulare li affollano.
Anche lungo il fiume la gente che passeggia è molto più numerosa. Bar e ristoranti pieni, un karaoke che canta “La cucaracha”. A passeggio famiglie intere, dai nonni fino ai nipotini. Coppie di fidanzatini in cerca di un angolo un po’ più nascosto.
Bambini che corrono.
Corrono verso il futuro, verso la modernità, verso un Ecuador nuovo e migliore, un Ecuador che qui un po’ esiste già. Ma non è per tutti.

settembre - dicembre 2004