Martedi, 16 dicembre 2003, in aereo fino a Luanda.
Insieme a Vito Pisani, sono diretto in Angola, con bagagli colmi di medicinali e di altre cose utili della solidarietà molfettese, valige trascinate negli aeroporti di Palese, Orly, fino a Luanda.
L’Angola è uno dei paesi del continente africano in cui i dati epidemiologici indicano tassi di mortalità molto superiori a quelli del resto del mondo. Con noi sono, compagni di viaggio, medici e famigliari di medici del “Cuamm”, che esercitano la loro azione umanitaria e professionale nella difficile provincia di Uige, presso gli ospedali di Uige, Negage, Songo e Damba.
Atterriamo all’aeroporto “4 febbraio” di Luanda: qualcuno ci dice che questa è la data in cui ebbe inizio negli anni ’60 la guerra di indipendenza antiportoghese, portata avanti con la lotta armata dal movimento unito per la liberazione dell’Angola.
Mercoledì, 17 dicembre, nella casa del Cuamm a Luanda.
A Luanda, capitale dell’Angola – a 9° di latitudine nell’emisfero australe - le operazioni di ingresso sono lunghissime, le code interminabili, in particolare quella per il ritiro dei bagagli, estenuante. Lungo e attento è il controllo del certificato di vaccinazione obbligatoria contro la febbre gialla. Ma, d’ora in poi, in Angola, ai ritardi non dovremo più far caso.
Poi, finalmente, raggiungiamo Enzo Pisani, medico molfettese del Cuamm – letteralmente ”Collegio universitario di aspiranti medici missionari” – che è in attesa fuori, e poi anche Manuel, padre “passionista”, un portoghese molto attivo, e con loro carichiamo i nostri numerosi bagagli sulla land cruiser Toyota, il fuoristrada che sarà fondamentale nei nostri spostamenti lungo strade impossibili, impercorribili con i mezzi usuali. C’è anche Adelaide, una giovane angolana, logista farmaceutica del Cuamm/Medici con l’Africa, che verrà con noi al nostro ritorno in Italia, per studiare e formarsi in medicina, e abiterà a Molfetta, a casa di parenti di Enzo.
L’impatto con la città di Luanda, fuori dell’aeroporto, è con una povertà attiva: tanta gente per strada che prova a guadagnare qualcosa per sopravvivere, vendendo di tutto, in un vero supermercato all’aperto che insiste sugli automobilisti incolonnati nel traffico. Provo uno smarrimento alla vista di una giovane, senza piedi, che si muove agilmente sulle ginocchia e nella polvere, per elemosinare qualcosa dai passanti.
Il traffico, confuso ma silenzioso, si svolge tra macerie e rifiuti urbani. Anche la vendita di merci è fatta con dignità, senza fastidiose insistenze. Passiamo per la piazza 1° Maggio, dov’è la statua di Agostinho Neto, il primo presidente della Repubblica di Angola - mi sembra di ricordare - dopo il 1975. Fu l’anno della raggiunta indipendenza del paese dal Portogallo, resa possibile dopo che, il vintecinco de Abril del 1974, la “rivoluzione dei garofani rossi” aveva abbattuto la dittatura di Salazar e mandato in frantumi quel che ancora restava dell’impero coloniale. Mi dicono che Neto fu presidente amato dal popolo, ma morì qualche anno dopo, nel settembre 1979, in un ospedale di Mosca, durante un’operazione, ammalato, sembra, al pancreas. Forse “ucciso dai russi”, secondo il convinto ricordo di Manuel.
Dopo aver girato intorno ad un’altra piazza, dedicata a Jinga, regina angolana, giungiamo alla casa del Cuamm, il centro logistico direzionale dell’attività dell’ong a Luanda, posto in un modesto quartiere di benestanti, il bairro “Volodia”, dal nome di un generale portoghese. A Luanda si trova di tutto e, nonostante le condizioni del paese, si sopravvive abbastanza bene. Non tutti, naturalmente. Ma la rapida urbanizzazione successiva alla guerra sta concentrando in città la gran parte dei traffici dell’area.
Scaricati i bagagli, un “motorista” del Cuamm ci conduce in macchina all’Ambasciata italiana, dove risolviamo, con calma e senza fretta, qualche problema di passaporti. Senza fretta, nel caldo assolato e afoso della costa atlantica, mi esercito alle pazienti attese, nel ritmo lento del tempo. Aspettare che arrivi l’acqua, utilizzare la luce elettrica finchè c’è, attendere l’arrivo di un ospite, viaggiare quando lo permette la strada infangata e dissestata dalle piogge stagionali: è questa una lezione di vita per gli ansiosi, stressanti ritmi del mondo frenetico occidentale.
A pranzo siamo in tanti, ospiti, medici, logisti, motoristi, volontari, in una lunga tavolata imbandita in maniera informale e provvisoria nel cortile della casa del Cuamm, con la collaborazione attiva di tutti, com’è nello stile di questa o.n.g. Conosciamo Maria e Barbara - abiteremo nella loro casa a Uige - medici che lavorano nei reparti di pediatria e tisiologia. Sono in partenza per l’Italia, per una breve pausa dal lavoro. Conosciamo anche Dolores e suo marito Silla, una coppia di veneti di Rovigo, che sono da alcuni anni a Luanda e vi rimarranno per tre anni ancora, lavorando al progetto di cura e prevenzione della tubercolosi, un progetto internazionale di cooperazione cofinanziato dall’Unione Europea, in partnership con il governo angolano. Dolores mi parla dell’attività che viene svolta nei numerosi centri, aperti negli ultimi anni in Luanda, dediti all’informazione e prima cura degli ammalati di tubercolosi e aids.
Partecipo alla loro felicità quando Rinaldo Bonadio, coordinatore medico, porta la notizia che nella provincia di Treviso è stata raccolta la somma di 75 mila euro, con un minimo prelievo sulle tasse comunali: è una bella prova di solidarietà italiana, chissà, mi chiedo, se riproponibile anche in provincia di Bari. Dopo pranzo, andiamo a disfare le valige nella casa dove stanotte dormiremo, ospiti di altri due medici italiani, che attualmente sono in Italia per una pausa dal lavoro. La casa, a pochi passi dal mare, è sull’Ilha de Luanda, e per raggiungerla scendiamo in auto sul lungomare, dove sono la baia, il porto e una bianca spiaggia sabbiosa proprio sull’oceano Atlantico. Di fronte sono, ma lontane e invisibili, le isole di Ascensione e Sant’Elena.
Dopo un bagno ristoratore sulla spiaggia atlantica, utilissimo prima di affrontare domani le difficoltà del lungo viaggio verso l’interno e il nord dell’Angola, riattraversiamo il centro di Luanda senza avvertire la presenza del suo fiume, il Bengo, mi dicono, e ritorniamo al centro logistico del Cuamm, dove restiamo in attesa di Cherubin dal Portogallo, padre generale dei passionisti, che viene a lavorare nelle missioni in Angola.
La cena, non diversa dal pranzo, è a base di riso, fagioli, pollo arrosto, ananas e banane. Andiamo a dormire presto, ripassando per la baia illuminata dalle luci di grattacieli moderni, mescolati all’architettura coloniale portoghese dei palazzi signorili sul lungomare, sedi di istituzioni pubbliche e di banche, ministeri e ambasciate. Poco prima, avevamo fatto un assaggio del disagio della mancanza di luce, quando l’erogazione di energia elettrica cittadina viene interrotta e bisogna accontentarsi della luce fioca del gruppo elettrogeno autonomo del Cuamm. Sono momenti che si ripetono tutti i giorni e ci riportano indietro con il ricordo di come vivevamo molti decenni fa nel nord del mondo. Tutt’intorno è buio fitto e silenzio. Echeggia soltanto la comunicazione via radio con Damba, che si attiva due volte al giorno ad un’ora concordata con il logista Gigio, uno dei figli di Enzo. È l’unica forma di contatto che il gruppo presente a Damba ha con il centro logistico di Uige, a cui vengono comunicati bisogni ed esigenze, e soprattutto l’aggiornamento della situazione non facile dell’attività umanitaria a Damba, tra le più precarie e pericolose, nella parte più settentrionale della provincia di Uige, quasi all’insidioso confine con lo Zaire congolese, oggi Repubblica Democratica del Congo.
Al buio inizia anche la nostra lotta contro gli assalti delle zanzare, aggressive e affamate.
Giovedì, 18 dicembre, in viaggio verso il nord dell’Angola.
Sveglia alle 3.30: ci aspetta un lungo trasferimento a Uige, distante 340 chilometri di strada davvero difficile, verso nord-est, con un furgone a pieno carico, stracolmo di persone e rifornimenti. Enzo manifesta la sua preoccupazione perché, con dodici passeggeri ed il peso di una grande quantità di bagagli e merci, andremo molto vicini al carico consentito dall’ottimo fuoristrada. Ma ci abitueremo presto alle manifestazioni di cautela preoccupata di Enzo, miste al rassicurante pragmatismo, che nel suo comportamento traspare e ci incoraggia in tutti i momenti difficili.
Nella casa del Cuamm carichiamo i bagagli e il resto dei compagni di viaggio, e partiamo puntualmente alle 5.30 per anticipare il momento del traffico lento e caotico all’ingresso di Luanda. Lasciamo la città ancora al buio e addormentata, ma, appena fuori dal centro e prima delle sei, la strada ai bordi si riempie di giovani angolani che dalle periferie povere vengono a cercare un lavoro, uno qualunque, in mezzo ai rifiuti dispersi lungo la strada e al fumo di fuochi per sbarazzarsene. Ragazze, poco più che bimbe, provano a vendere tutto d’ogni cosa, in questo supermercato di strada, lungo chilometri e chilometri. Uomini vigorosi vengono verso la città e tenaci donne giovanissime portano bambini di pochi giorni di vita stretti dietro la schiena e, in equilibrio sulla testa, ceste e conche cariche di alimenti e vettovaglie. È la povertà che bussa alle porte della città metropolitana, con le sue contraddizioni e le sue miserie.
Macerie, spazzatura, fango, rivoli d’acqua sporca, buche, strade impolverate: è la nostra vergogna. Altro che perseguire la protezione dei beni del patrimonio universale dell’umanità: il vero patrimonio di umanità da salvaguardare è qui. Sono i fuochi, il fumo, la polvere, il fango, le macerie, le carcasse d’auto lungo i bordi della strada: un uomo rovista nella spazzatura, alla ricerca di qualche rifiuto alimentare, e addenta un residuo di mango. Soprattutto, per strada, sono giovani uomini e giovani donne: non è ancora l’ora dei bambini, ma lo sarà più tardi; non è l’ora degli anziani, che qui non sono numerosi, non arrivano ad invecchiare. Comincio a riconoscere la sofferenza, il bisogno di vita. Quando la salute di tanti esseri umani sfortunati diventerà una priorità per i grandi centri del benessere mondiale?
Appena fuori Luanda attraversiamo un sito storico, il luogo in cui agli inizi della guerra civile avvenne un sanguinoso scontro militare fra tre eserciti di altrettanti movimenti in lotta per l’egemonia e il controllo dell’Angola, nel pieno della guerra fredda. Erano le organizzazioni che fin dagli anni ‘60 avevano combattuto contro i portoghesi: l’MPLA, che andò al potere dopo l’indipendenza dal Portogallo ed è oggi ancora al governo del Paese; l’UNITA di Jonas Savimbi, che nel mondo bipolare gli Stati Uniti ed il Sudafrica appoggiavano in quei tempi per destabilizzare l’Angola; e infine l’FNLA, che era sostenuto dallo Zaire. Oggi quel luogo è popolato da gente che vive in scheletri di abitazioni distrutte, in case mai finite, in baracche lungo la strada che porta al nord, nella zona più povera dell’Angola.
Ancora pochi chilometri e incontriamo un primo posto di blocco della polizia. Non ci fermano per il controllo, e direi per fortuna in quanto, irregolarmente carichi come siamo, non sarà certo l’insegna del Cuamm, stampata sulla macchina, a lasciarci proseguire. Di check point ce ne saranno altri, ma pensiamo di superarli grazie anche alla nostra scorta di sigarette, utili per accattivarci i soldati di turno, o grazie a più d’una ‘lapisera’, le penne biro di cui Enzo è sempre fornito nei suoi spostamenti.
Una grande condotta di un lungo acquedotto che rifornisce Luanda s’intravede sulla sinistra a significare una tenue attenzione verso la costruzione di infrastrutture per il trasferimento idrico e verso il lento ritorno alla normalità postbellica, e presto ci inoltriamo in una campagna povera, ma pulita e dignitosa, quasi deserta, salvo qualche rara presenza di uomini o donne con carichi sulla testa, in prossimità dei frequenti villaggi lungo la strada. Stiamo entrando nella savana africana e, a Porto Quipiri, attraversiamo il fiume Dange.
L’ultimo paese che attraversiamo è Caxito e torna la polvere, la folla di gente, le donne con grandi carichi. Corre parallelo, sulla sinistra della strada, un canale aperto, dove tantissime donne stanno lavando i panni ai bordi, usando l’unica acqua corrente qui disponibile. D’ora in poi solo precari villaggi.
Siamo nella provincia di Bengo e, riattraversato il rio Dange, anche qui con un deflusso d’acqua a pieni bordi, finisce la strada asfaltata e inizia il lunghissimo tratto di una pista, tutta buche e fango, dove chiudiamo rigorosamente i finestrini per difenderci dalle micidiali mosche tsè-tsè che infestano la zona. Enzo ci rivela che la puntura di queste mosche infette produce una forma di meningite che può manifestarsi acuta e inguaribile, anche a distanza d’anni.
Due basse aste verticali, infisse a entrambi i bordi della strada, segnalano il punto iniziale di una fascia di territorio disseminato di mine anti-uomo: posta a destra e a sinistra della strada, l’area si estende fino ad un’altra coppia di aste che, decine di metri più in là, denotano il termine della zona a rischio.
Di tanto in tanto lungo la via, tra capanne di paglia e canne, si scorgono carcasse di vecchi mezzi militari, carrarmati abbandonati. Ci fermiamo, in silenzio e col cuore mesto, davanti allo scheletro del container del Cuamm, che fu depredato qualche anno fa in un agguato dell’UNITA e poi incendiato. Un’imboscata in cui perse la vita un giovane angolano di Uige, alla guida del mezzo. Sono i segni del sabotaggio e dell’assalto dei guerriglieri, episodi frequenti nell’ultima guerra civile, attacchi a veicoli civili che trasportavano passeggeri e beni alimentari, rischiando ogni volta feriti e morti.
Ci rendiamo conto che siamo entrati in una regione che, poco più di un anno fa, era ancora sconvolta da una guerra feroce. Qui, durante gli innumerevoli scontri, gli eserciti hanno lasciato le loro tracce. Fu una guerra con molte centinaia di migliaia di morti, voluta per la forte responsabilità del regime di Pretoria e di altri stati che in quei tempi finanziavano e armavano l’UNITA e l’FNLA contro il governo marxista-leninista dell’Angola. Soprattutto nella prima fase, quella durata dal 1975 al 1991. Il paese, ricchissimo di uranio, oro, diamanti e soprattutto petrolio, ha vissuto per decenni la tragedia della guerra civile. I problemi nacquero a causa delle simpatie del governo d’allora per il campo socialista. Erano i tempi della guerra fredda e fu il timore che questo grande serbatoio di risorse minerarie e materie prime finisse sotto l’influenza dell’Unione Sovietica a spingere i servizi segreti occidentali ad appoggiare l’azione dell’Unita, con alla guida un leader spietato e senza scrupoli come Savimbi.
Poi, dopo il 1991, la nuova fase della guerra civile ripropose i vecchi scenari delle strategie neo-coloniali, aggiornandoli secondo le logiche del nuovo ordine mondiale. Il disegno strategico era sempre quello di impedire l’esperimento di uno Stato progressista in Africa e inserire l’Angola nella sfera d’influenza occidentale, un disegno pensato per ostacolare le trasformazioni politiche iniziate da un governo nazionale che, pur lentamente, stava avviando il paese verso il pluralismo politico e la riconciliazione nazionale.
La vegetazione fitta e alta della foresta avvolge la strada, lungo la quale talvolta sorpassiamo con difficoltà grossi camion stracarichi di merci e trabordanti di uomini ammassati in cima a tutto e in equilibrio precario. Spesso sono fermi, lungo la strada, camion incidentati o con una ruota a terra.
Nella foresta, uno scoiattolo attraversa velocemente la via. Più in là una famiglia di macachi sosta ai bordi. Poi ancora decollano solitarie bianche cicogne o atterrano colorate pernici in un volo basso. Ingaggiamo una lotta impari, dodici contro uno, ad una mosca tsè-tsè, seriamente spaventati, finchè Vito Pisani non la fa fuori schiacciandola contro il finestrino. Si sdrammatizza, ma non si scherza. Un’altra, entrata chissà come in auto e fermatasi sulla mia testa pelata, viene raccolta in una scatoletta di plastica trasparente, ancora viva, e conservata come un trofeo. In realtà, Enzo spera di inviarne una viva in un centro universitario di ricerche sulla tripanosmiasi, una malattia che qui in Angola imperversa soprattutto nelle zone rurali.
Siamo in piena foresta tropicale, con fitte palme altissime, alberi di mango, ananas, banani, che si alternano a campi di cereali mescolati alla bassa vegetazione spontanea della savana. Sulla strada argillosa, il passaggio della macchina solleva nuvole dense di migliaia di farfalle d’ogni colore che sostano nelle buche provocate dalle piogge.
È zona adatta alle imboscate che nel passato si sono moltiplicate, fino all’aprile del 2002, quando la guerra è finita con una tregua che dura tuttora. È strada disseminata di morti, testimonianze di una guerra feroce: piccoli campi di croci, frequenti cimiteri su piccole fasce di terra, in prossimità dei villaggi di capanne di paglia e frasche, in alternanza a piccole oasi palmizie. La natura è bellissima, sempre verde di vegetazione e rossa di argilla, in forte contrasto con la tristezza della ferocia dei comportamenti umani.
All’ingresso nella provincia di Uige, territorio di difficile accesso per le organizzazioni umanitarie, proprio sul rio Dange - che già abbiamo attraversato due volte stamattina nel suo corso meandriforme - agenti approssimativi di polizia controllano i nostri passaporti, poiché Uige è provincia di confine nazionale con lo stato dello Zaire. Poi, nel sole e nel verde della foresta, ci fermiamo ai bordi della strada a mangiare pane e carne in scatola, sperimentando la promiscuità con bottiglie ed alimenti condivisi. Si va col tempo bello fino a Quitexe, a 40 chilometri da Uige, dove ci coglie una pioggia pomeridiana, fitta e intensa, che rinfresca l’aria umida e afosa.
Siamo ormai vicini alla meta, dopo dodici ore di viaggio, ed Enzo, ora più rilassato, ci riferisce con orgoglio che il “Cuamm/Medici con l’Africa” è tra le poche ong presenti in Uige sin dal 1997, avendo operato anche durante l’ultima guerra civile e sotto gli attacchi dei ribelli. Ci svela che qui il Cuamm, fondato a Padova più di cinquant’anni fa, riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità da quaranta anni e specializzatosi nell’aiuto medico in Africa, è oggi leader di un progetto avviato nel giugno 2002 e finanziato dall’ECHO, che è l’Ufficio per gli aiuti Umanitari della Commissione Europea. Il progetto ha coinvolto due municipalità della regione provinciale di Uige - che è anche il nome del municipio capoluogo di provincia – e alcuni mesi fa è stato monitorato e valutato da controllori, inviati da Bruxelles.
In missione di monitoraggio, i valutatori, due economisti, hanno controllato il raggiungimento degli obiettivi programmati nel progetto MCH, cioè ‘maternal child care to displaced people in Uige province’. Il progetto, della durata di due anni, scadrà nel 2004 e sarà costato un milione di euro, finanziato al 100% dall’Unione Europea. Con questo finanziamento, il Cuamm sta realizzando un intervento per i bisogni sanitari dei rifugiati, sfollati che rientrano dopo la fine della guerra, e sta operando prioritariamente nel campo della pediatria e della maternità. Valutando positivamente l’azione svolta, i due commissari, l’una tedesca e l’altro del Mozambico, hanno anche sottolineato nel report la necessità di una più piena collaborazione istituzionale, non solo quella spontanea e informale che già avviene, ma anche ufficiale e documentata, del Cuamm con le direzioni provinciali della ‘saùde’ e le direzioni ospedaliere.
Comincio a capire che alcune ong, in Angola come in altri paesi, africani e non, in cui intervengono per aiuti umanitari, non agiscono affatto in condizioni tutelate. La loro “sicurezza” consiste proprio nella “lontananza” dalle forze militari durante la guerra, nell’estraneità dagli eserciti che si fronteggiano. Solo lavorando in mezzo alle popolazioni, senza milizie private né scorte armate, si guadagnano la fiducia della gente e solo così diminuisce il rischio di essere massacrati o, peggio, di essere presi in ostaggio e torturati, come purtroppo accade spesso alle organizzazioni che sono presenti nei teatri di guerra per tutelare interessi di imprese private, o anche a scorte e guardie del corpo assoldate per svolgere azioni di protezione e di sicurezza personale.
Stanchi ma desti, giungiamo a Uige in pieno acquazzone e ceniamo con pollo, riso e verdura, chiudendo con i dolci natalizi portati da Molfetta, molto graditi da Ottavia Minervini, medico del Cuamm e moglie di Enzo.
Venerdi, 19 dicembre, la prima conoscenza di Uige.
Presso l’Escritorio del Cuamm, facciamo la conoscenza di Ornella, giovane amministratrice del Cuamm, venuta qui a Uige da Padova nel giugno 2003, e con lei curiamo la nostra pratica di soggiorno nella provincia. Si tratta di una formalità necessaria, che va svolta subito negli uffici della DEFA - “Direzione di immigrazione e frontiera di Angola” - e formalmente controllata tutti i giorni della permanenza nella provincia di Uige.
Nell’ufficio competente, domina su una parete un poster con l’immagine bonaria dell’attuale presidente Jose Eduardo Dos Santos, che, in carica dal 1979, invita l’Angola a rinascere ‘com Neto no coracao’, con Neto ‘ancora presente’, e nel ricordo del 17 settembre, anniversario della sua morte, da allora dichiarata giornata di lutto nazionale. Svolte le formalità necessarie e sventato il cortese assalto dell’impiegato della DEFA interessato alla mia macchina fotografica, ci rechiamo al centro della città per cercare un cambio di valuta: 87 kwanzas per dollaro, grazie all’abilità commerciale di Francesca, la figlia quattordicenne di Ottavia ed Enzo, nel trattare il cambio al nero con emigrati rientrati dallo Zaire, nell’ambiente buio di un edificio sventrato dalle bombe, un posto che fisicamente e umanamente farebbe paura a qualsiasi turista occidentale. Alla difficoltà di comunicazione nella lingua portoghese, che non conosco, si aggiunge l’abitudine di molti angolani a parlare uno dei dialetti diffusi in Africa, linguaggi africani di origine bantu, mi sembra l’ovimbundu, il kimbundu, il kikongo.
Si mette a piovere a catinelle, con scrosci intensi, alternati ad una pioggia continua più sottile. In sosta nell’Escritorio, in attesa che spiova, Ornella ci parla della presenza diffusa in Uige sia di organizzazioni non governative, che di agenzie delle Nazioni Unite, oltre che organizzazioni internazionali e missionarie. L’azione del Cuamm negli anni scorsi ha avuto per obiettivo urgente, innanzitutto, la riapertura di un centro di pronto soccorso, con la ristrutturazione del reparto di maternità e del servizio pediatrico. Ieri sera, Ottavia ci ha descritto la drammatica realtà odierna di duecentocinquanta bambini ricoverati al giorno in una struttura senza mezzi, in cui si giunge a registrare anche cinque morti al giorno. Ma, ad uccidere, non sono soltanto le patologie specifiche, su cui si focalizza l’attenzione dei media; ad uccidere è una complessiva situazione sanitaria che resta disastrosa, nonostante i passi avanti compiuti negli ultimi anni.
Eppure, oltre al “Collegio universitario aspiranti medici missionari”, a Uige sono presenti anche l’UNHCR, che è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e poi il PAM, cioè la Fao con il suo Programma alimentare mondiale, l’OCHA, che riceve e comunica le segnalazioni di presenza di mine rilevate da ong, e ancora l’UNICEF, che opera per l’infanzia, il RED BARNET (un’ong danese, non sono sicuro che si chiami proprio così, spero di ricordare bene) e il CDR (Consiglio danese rifugiati). Infine c’è la Cooperazione italiana. Attualmente, i “Medici Senza Frontiere” sono presenti soltanto a Luanda e a Kimbele, avendo concluso il loro intervento a Uige per combattere la denutrizione infantile.
Piove tutto il mattino e, tornati di corsa a casa, inzuppati di pioggia, aspettiamo invano Ottavia ed Enzo, evidentemente impegnati fino al collo in ospedale e alla fine pranziamo solo con i loro figli. Insieme al pesce arrosto, fagioli, riso, verdura, faccio la conoscenza del ‘fungi’, dal vago gusto di polenta, una pietanza che si presenta gommosa dopo essere stata cucinata, quasi lessata, e si prepara dai tuberi della ‘mandjoca’, che ieri, in viaggio lungo la strada da Luanda, ho visto raccogliere in campi di piante basse. Vengono quindi scorticati e poi pestati, triturati fino a diventare una farina bianchissima, che viene lasciata essiccare al sole, sulla strada asfaltata, durante le tregue della pioggia.
Il territorio di Uige è ondulato, con morfologia dolce, pendente verso ampi valloni che si riempiono d’acqua durante le piogge e poi confluiscono tutti nel Loge, un corso d’acqua che, dopo un percorso di centinaia di chilometri, sfocia nell’oceano Atlantico, sulla costa nei pressi di Ambriz.
La casa in cui abitiamo è alla periferia della città, proprio al confine con il ‘bairro popular’, dove sono solo case poverissime di mattoni rossi, prodotti in forni provvisori direttamente sul posto, con il fango a fare da malta povera e con la lamiera ondulata per copertura. Non appena la pioggia ci dà un po’ di tregua, ci rechiamo nel pomeriggio nel quartiere vicino, la cosiddetta ‘pedreira’ - dal nome di una cava estrattiva - dove vivono migliaia di persone sottratte dalla strada e messe a vivere in piccole abitazioni buie, umide, in meno di venti metri quadrati di superficie, con una nicchia vicina per cesso. È un quartiere di argilla e fango, dove le condizioni di abitazione sono povere e precarie, eppure una vera salvezza per molti di loro, che tornano dal confine e non trovano una casa in cui riparare. Qui la produzione di edifici abitativi è ferma agli anni cinquanta ed alle ultime costruzioni portoghesi di quei tempi. Solo rari esempi di costruzioni edili recenti, per il resto villaggi simili a ghetti. Per rifugiati che ritornano.
In Africa, sulla pelle dei rifugiati, si produce l’instabilità politica e sociale. L’Africa è il continente dei rifugiati. Ufficialmente, più di venti milioni di profughi interni. Poi ci sono quelli non registrati. Quanti di più?
In tutta la fascia africana compresa tra l’Angola, il Sudan e la Sierra Leone, è una presenza diffusa di rifugiati, “stabilmente mobili” tra confini politici ampiamente superati dalla storia. E tutt’intorno a loro la militarizzazione del territorio. Serve a presidiare il territorio, in attesa che scattino i piani per la ricolonizzazione del continente ad opera dei paesi ricchi del mondo. Sono masse umane private di ogni elementare diritto, affidate alle Nazioni Unite o ad organizzazioni umanitarie conniventi. Lo scopo è quello di tenere un continente permanentemente destabilizzato, ostacolarne i processi di autosviluppo, spezzarne i percorsi democratici di decisione interna, quali siano. Poi vengono i genocidi e i massacri. Come avviene nelle “guerre dei laghi”. Come avviene in Burundi, in Ruanda, nella Repubblica democratica del Congo, nel Sudan.
Nella pedreira visitiamo alcune di queste case di mattoni, baracche che Ottavia ha fatto costruire e poi ha donato per sottrarre dalla strada una donna dimessa dall’ospedale, o per dare una casa ad una vedova triste con tanti bambini da nutrire, oppure per dare un tetto ad un’altra donna paralitica e senza l’uso delle gambe, in ginocchio, e con una bimba piccolissima lasciatale da sua figlia morta di malaria. Tutte ci mostrano le loro case - tuguri necessari per avere un rifugio - divise da piccoli sentieri di argilla, continuamente invasi dalla pioggia, solcati da fossi che incanalano acque luride. È tutto ciò che si è potuto costruire con pochi soldi per avere il terreno, per fabbricare i mattoni in loco, per acquistare la carpenteria e poche altre materie prime, e pagare la mano d’opera. A noi che siamo gli unici bianchi qui a Uige, mostrano le loro case, con orgoglio e riconoscenza, ma anche con un’evidente speranza, poiché ai loro occhi siamo cooperatori che intendono testimoniare le loro condizioni di vita all’altra parte del mondo, quella più fortunata.
Vivono in tuguri di fango, senza possedere nient’altro che qualche pentola per cucinarsi, e tuttavia il loro riso e la loro gaiezza sono spontanei. In queste condizioni, s’ingegnano a convogliare l’acqua dai tetti, lavano i panni appena si raccoglie un po’ d’acqua piovana nei bidoni, cucinano il pane in forni precari e senza badare ad un’impossibile igiene, battono il bom-bom bianchissimo in pestatoi per frantumare la mandjoca e produrre quella farina che poi spargono su teli distesi per terra, nei ristrettissimi spazi consentiti dai deflussi d’acqua mista ai liquami.
In ogni quartiere c’è anche un grande mercato di merce povera, un suq all’aperto, ma qui non ci sono turisti. Venditori e venditrici sono accovacciati per terra o seduti su bassi sgabelli, in mezzo a una grande confusione e sporcizia. Penso a quanto relativi diventino in queste condizioni i nostri concetti di igiene e pulizia, e poi quanto lo siano il rischio e la paura di ammalarsi. Penso così alle nostre manie igieniche, alle nostre incrollabili convinzioni.
“Abbandonare i recinti delle nostre sicurezze”, ripenso alle parole di don Tonino Bello. È così che ci si adatta a vivere in condizioni davvero precarie, grati comunque di vivere. Anche noi ci abituiamo a bere acqua non corrente, a bollirla e filtrarla prima di berla, a lavarci con acqua raccolta in bidoni, a riutilizzarla come scarichi nei cessi, a non impressionarci nel vedere formiche nello zucchero, a mangiare pane venduto per strada nella polvere, anche ad abbassare la guardia contro la zanzara infetta, a mettere in conto d’essere colti dalla malaria, a non pensarci più. Continuiamo ad usare ancora tutte le precauzioni possibili, ma senza farci prendere dalle manie. Accettiamo poi il rischio di rimanere bloccati per strada, a causa della pioggia, nel difficile trasferimento a Damba. Riesco a scrivere queste note anche di notte, sotto la zanzariera, alla luce fioca di una torcia elettrica.
Qui le notti sono fresche, ad oltre ottocento metri di quota. Siamo su un altopiano delle montagne interne dell’Angola, dove il caldo umido ed afoso di giorno - a meno di dieci gradi di latitudine nell’emisfero meridionale, appena a nord del Tropico del Capricorno - si trasforma in un fresco notturno che impone di coprirsi in qualche modo. L’erogazione della luce si interrompe durante la notte, quasi sempre dopo le 21 e ritorna alle 18 del giorno dopo, corrente elettrica per tre ore quando va bene. La pulizia personale, quando è possibile, è consigliata alle sei del mattino, perché solo allora può aversi dell’acqua corrente, pur non potabile, che più tardi s’interrompe, dopo appena un paio d’ore.
Dalle tre del mattino cantano i galli, che sono diffusissimi nella miseria della gente e nella loro povera alimentazione. Davvero è un concerto di lamenti, interrotto alle cinque dall’allegro cinguettio di passeri e il festoso picchettio di un picchio.
Sabato, 20 dicembre, “dove sono i figli della guerra, partiti per un ideale, per una truffa, per un amore finito male?”.
Fervono i preparativi. Acquisto di scorte.
Dobbiamo prepararci al viaggio per Damba, procurarci i farmaci da portare a quell’ospedale e gli alimenti per il nostro soggiorno, ovos, pane, vivande per vivere una settimana almeno. E poi, ancora, pala, piccone e zappa per spalare fango, e coltellaccio per tagliare tronchi, se il maltempo farà impantanare l’auto. Né dobbiamo dimenticare il proiettore donato dalla solidarietà dei molfettesi, necessario alla proiezione del film programmato durante il nostro incontro con i giovani angolani, il giorno di Natale. Occorrono ancora acqua e bevande, e c’è il prosciutto crudo portato da Molfetta, conservato in frigorifero da Ornella, preziosissimo. Porteremo anche torcia elettrica e lampade, utili per trascorrere la notte in macchina, se venissimo fermati dall’impraticabilità della strada. Bisogna organizzare bene la partenza, preparare il difficile trasferimento di domani, sperando che si passi, per raggiungere Gigio nel paese più difficile in cui è impegnato l’intervento umanitario del Cuamm nella provincia di Uige, la provincia che racchiude in sé tutti gli aspetti del disastro angolano.
Sostenere gli sfollati che dai villaggi agricoli giungono nelle città sventrate dalla guerra, riparare i rifugiati che negli anni scorsi sono scappati via dall’Angola, riattivare urgentemente infrastrutture idriche e stradali distrutte dai bombardamenti, garantire una prima assistenza sanitaria e aiuti materiali alle vittime della guerra civile, aprire centri sanitari e assicurare il diritto alle più elementari cure mediche, permettere ed estendere l’accesso all’acqua, ripristinare l’educazione dei gruppi sociali più vulnerabili, particolarmente donne e bambini, costruire ripari anche provvisori per rifugiati, sfollati e reduci, distribuire alimenti ai più deboli e malnutriti, intervenire a sostenere le attività agricole, prestare aiuti sanitari d’urgenza alla maternità: a Damba ci sarebbe bisogno di tutto questo, quasi tutti gli obiettivi della cooperazione italiana e della solidarietà della comunità europea in Africa. C’è molto da fare, non basta il Cuamm.
Intorno alle 11, al mercato all’aperto di Uige, facciamo rifornimento di scatolame di tonno, carne e salsiccia, con Vito Pisani che trascina con sé una quantità incredibile di soldi di carta, a causa dello scarso valore del kwanza inflazionato. Prima però ci rechiamo in altri due villaggi periferici di Uige, a valutare altre due baracche di mattoni, fango e lamiera, che sono in predicato per l’acquisto da parte di Ottavia, da donare a persone curate in ospedale e poi dimesse, poveri e ammalati che attraversano situazioni particolarmente difficili. E, tutte le volte, in questi quartieri ho l’impressione che siamo visti come extraterrestri, piombati là a turbare un equilibrio, se pur precario, in cui gli abitanti si arrangiano a vivere. Quanto diverse sono le baracche di Korogocho, in cui a lungo ha operato Alex Zanotelli, nel Kenya? Le baracche di fango, cartone e lamiera.
Nel tragitto da un quartiere all’altro, mi fermo un attimo a fotografare un edificio ristrutturato, una bella opera edilizia, sede di un museo etnografico, ma vuoto e inutilizzato. Severo, mi ferma un agente della polizia municipale, e mi chiede i documenti di identità, informandomi che è proibito fotografare opere pubbliche. Non solo mi fa aprire la macchina fotografica, annullandone il contenuto, e me la sottrae di mano, ma è intenzionato a fermarmi e portarmi al comando generale di polizia, dove avrei dovuto rispondere del mio atto di illegalità, con conseguenze imprevedibili, fino all’arresto.
La fotografia di un’opera pubblica, costata chissà quanto e per ora inutilizzata, in una situazione in cui c’è bisogno di aiuti sanitari e nutrizionali più urgenti per strappare gente dalla fame e dalla morte, rischia di diventare per me una noia seria: l’agente non vuole ammettere ragioni, e non c’è Cuamm che tenga! Abbiamo una lunghissima discussione, sostenuta con determinazione da Sandro, l’altro figlio di Enzo, in portoghese, la lingua degli ex colonizzatori, che qui è quella ufficiale. Non riesco ad intervenire per la mia ignoranza della lingua, ma alla fine risulta vincente la nostra linea della fermezza, pur cortese, e della disponibilità a recarci al comando generale di Uige per far valere le mie ragioni, senza cedere a tentativi di corrompere in qualche modo l’agente. Questi, infine, ci lascia andare, anche restituendomi la macchina fotografica, che ormai ero rassegnato a perdere. Forse si è reso conto che gli sarebbe stato più difficile motivare la sua distrazione che dimostrare ai suoi superiori la mia infrazione, in quanto nessuno mi aveva impedito di fotografare, tranquillamente e alla luce del sole, l’inutile museo.
La giornata asciutta e luminosa promette bene e fa ben sperare nel trasferimento di domani a Damba. Nel primo pomeriggio comincia, come ogni giorno, una processione di vecchi, storpi ed ammalati che vengono a ricevere il pasto preparato per loro dalla carità cristiana di Ottavia, un piatto di riso e fagioli da portar via. Fino a pochi mesi fa, durante la guerra, erano molti di più, poi sono stati aiutati a trovare un rifugio e una sistemazione.
Dopo pranzo, viene a trovarci suor Teresa, una missionaria angolana dell’Istituto delle Sorelle della Misericordia, che per tre anni ha studiato teologia a Verona. Ci mostra l’esemplare di due libri, opuscoli informativi sull’aids e sulle buone norme di vita famigliare, che lei vorrebbe acquistare con i soldi della solidarietà molfettese e portare come dono di Natale a ciascuno dei detenuti, assistiti dalle missionarie nel carcere di Uige. Ci parla delle condizioni disperate in cui vivono i detenuti e dell’azione umanitaria tesa ad un loro efficace inserimento nella vita civile. Molto spesso si tratta di ex-rifugiati nella Repubblica Democratica del Congo, oppure nello Zambia o nella Namibia, durante le fasi più cruenti della guerra civile, rientrati di recente in Angola. Oggi non c’è sistemazione per tutti, tanto che in molti oggi vengono bloccati al confine e ricacciati indietro.
Rivelandoci che l’impegno assistenziale delle sorelle della Misericordia non è affatto coordinato con quello missionario dei passionisti, Suor Teresa ci conferma l’impressione maturata qualche giorno fa in un colloquio con Ornella nella sede logistica del Cuamm, che disse di non conoscere i compiti a cui sono assegnati i padri passionisti presenti a Uige. Forse qui il limite – se ce n’è uno - dell’azione umanitaria è, a volte, proprio nel difetto di organizzazione e di coordinamento degli sforzi. Che d’altro canto non spettano al Cuamm.
Invece il coraggio e la carità cristiana di Ottavia ed Enzo non hanno limiti. La guerra è arrivata fino al loro cortile di casa, si sono trovati sotto i colpi della mitraglia, eppure non sono fuggiti negli anni più difficili e qui continuano a donare cure, attenzioni e mezzi per sopravvivere, e portano negli occhi e nel sorriso l’orgoglio che le cose stanno cambiando, lentamente stanno migliorando. Ed è così che, contagiati dal loro ottimismo, andiamo con Sandro a visionare un’altra casa di mattoni e fango, in un quartiere malsano, e scegliere quale comprare da donare ad una donna lebbrosa e mutilata, senza gambe. Il costo oscilla intorno a 1500 dollari, davvero un’inezia - se ci fosse una solidarietà più intensa e meglio organizzata - ma una cifra sufficiente ad acquistare un tetto per sopravvivere, la prima forma di aiuto necessario ai tanti che ancora vivono per strada. Poi bisognerà sfamarli, curarli perché non muoiano o aiutarli a nascere, e a passi successivi e coordinati dargli un lavoro, poi un’istruzione, un ambiente sano, una casa civile con servizi igienici e accesso all’acqua, poi ancora un minimo di infrastrutture civili per una vita collettiva: quanto tempo dovrà passare ancora? Quanto durerà ancora il sonno del nord del mondo, l’indifferenza dello “spazio di sopra”?
Eppure, qui si tratta del secondo paese produttore di petrolio di tutta l’Africa subsahariana, che nel 2003 ha avuto l’obiettivo di una produzione di 1 milione di barili al giorno. Si tratta del paese eletto a rappresentare i paesi africani nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite negli anni 2003 e 2004.
Ci sarà pure un modo perché, in Angola, la crescita del PIL, dovuta alla robustezza del settore degli idrocarburi, si relazioni anche agli altri settori dell’economia! Nel 2001 la crescita del ‘Gross Domestic Product’ è stata del 3.4 %; nella prima metà del 2002 è stata addirittura dell’11.4 % e non ho i dati più recenti, ma tutto fa supporre che la crescita continui. Come annullare il debito estero, come far crescere l’economia, come evitare che la stragrande maggioranza di una popolazione di 14 milioni di abitanti viva nella povertà assoluta? Come controllare l’inflazione, che nel 2000 è stata del 325% e nel 2002, sempre altissima, è solo scesa al 103.6%?
Fuori ci sarà, stasera, il pianto straziante di un bambino affamato, ammalato. Come stamattina, come ieri. E non sono i capricci dei bambini occidentali!
Sono bambini che non hanno di che mangiare, a volte solo radici, erba e, quando capita, qualche frutto. Talvolta si nutrono solo d’acqua, hanno la pancia gonfia. Sono deboli, hanno vissuto gli orrori della guerra e della fame: la guerra sembra finita, ma la fame è ancora diffusa.
Domenica, 21 dicembre, giornata di festa e di lavoro.
La partenza per Damba è rinviata.
Con la radio rice-trasmittente, l’unico mezzo di comunicazione con il centro Cuamm di Damba, riferiamo a Gigio - con la formula usuale d’ingresso ‘Malembe Malembe, Ortensio over’ - che Enzo è ammalato, con febbre alta e tosse, e che siamo costretti a rinviare per ora la partenza.
Nella chiesa cattolica adiacente alla casa di Ottavia, alle sei del mattino già stracolma di gente, c’è messa domenicale, con canti e danze, di una dolcezza emozionante: è la fede di un popolo che non è stato fortunato, vittima dei signori della guerra, ed ora è povero e ammalato.
Andiamo al mercato all’aperto, proprio al centro di Uige, un mercato prevalentemente alimentare, con farina di mandjoca esposta in vendita in sacchi aperti all’invasione di mosconi e vespe. La carne è venduta a grossi pezzi sotto il sole. Il pesce d’ogni tipo, secco e marcio, è esposto al caldo di una giornata torrida. Il riso, lo zucchero, l’olio sono venduti sfusi. C’è poi scatolame di carne, salsiccia, wurstel e tonno, bibite d’ogni tipo. Sui banchetti dei curanderi si vendono anche erbe medicinali e altri espedienti curativi. Un giovane angolano ci indica una radice medicamentosa in vendita, che dice di proprietà afrodisiache e di riattivazione sessuale, e me la segnala forse perché ci vede vecchi e canuti, certo al di sopra della speranza di vita.
Qui, in Angola come in altri paesi africani, hanno successo le farmacie ambulanti, le bancarelle di medicinali provenienti da contrabbando, frodi, contraffazioni. Proliferano anche laboratori medici privati, informali, gestiti da infermieri. E sono anche frequenti i parti in casa aiutati da un’ostetrica.
Per strada incontriamo Cristina, ginecologa italiana del Cuamm, un medico di Milano, che ci riferisce di 500 parti al mese nell’ospedale di Uige, certamente più di quelli che avvengono in un qualunque ospedale della cintura milanese in un anno, con molti medici a disposizione. Sta andando a piedi in ospedale e noi l’accompagniamo per un tratto, ascoltando le sue difficoltà ad operare nelle condizioni che vengono qui consentite, anche delle sue difficoltà di linguaggio, finchè una macchina dell’ospedale non la preleva per un’urgenza e la porta via di corsa.
È domenica ed è festa tutta la mattina, davanti alla casa di Enzo e dentro la chiesa, con le messe celebrate in sequenza, alle nove quella dei bambini e più tardi quella dei giovani e delle giovani. Nell’aria c’è allegria, musica, partecipazione. Tutti hanno gli abiti puliti della festa. È davvero strabiliante il livello di pulizia che si può raggiungere nella scarsità d’acqua e nell’assenza di infrastrutture idriche.
Dopo pranzo, passano a prenderci per portarci a Songo. Sono i medici ‘invisibili’ di Negage, uomini e donne del Cuamm, così come quelli di Uige e di Luanda, fieramente avversi alla spettacolarizzazione del dolore ed alla pubblicizzazione del loro impegno umanitario e professionale; medici come Roberta, di cui si coglie dal primo istante la forte sensibilità e la grande umanità.
Sono qui a lavorare non da estranei. Sono apprezzati e stimati per la loro capacità di “stare nel mezzo” della vita dei loro pazienti, disposti a condividere difficoltà, disagi, sofferenze. Da Ottavia ho appreso che, nelle intenzioni del professor Canova, medico missionario padovano fondatore del Cuamm, c’era l’idea di costruire una università di medicina per studenti delle terre di missione o almeno un collegio per studenti stranieri e italiani, collegato ad una delle università già esistenti e dedicato a preparare medici e mandarli a lavorare sul campo.
Con i medici di Negage, tutti veneti, con Valerio, che è stato raggiunto da Lorenza, medico di Riva del Garda, e poi con Paolo e Roberta, andiamo ad incontrare la comunità medica del Cuamm presente all’ospedale di Songo, anch’essa coordinata da Uige. Li raggiungiamo dopo un’ora di strada sterrata e piena di buche, trovando Massimo e Lucia che abitano una casa confortevole, con orto e giardino, circondati dal verde e dalla luce.
Visitiamo l’ospedale, povero e precario, fatto di alcuni edifici divisi, reparti di ginecologia, pediatria, malnutrizione e tisiologia, e tutti serviti da un unico centro di servizi, con la cucina e la cambusa piena degli alimenti del PAM. Ci guida Massimo, giovane medico di Padova, che ci conduce più tardi a visitare la captazione di una sorgente ad opera di un acquedotto potabile che entra spesso in crisi e non funziona. C’è una grande vasca, il bacino di esubero, utilizzata dalle donne, che qui vengono a lavare i panni, e dai bambini, che si lavano, oggi che è domenica, in un’allegra atmosfera di festa.
Qui si avverte che la guerra è finita. Finalmente e lentamente sembra che stia tornando la serenità e la normalità. È stata una guerra lunga, l’ultima fase iniziata dopo che gli accordi di Lusaka del 1994 erano stati violati da Jonas Savimbi. A capo dell’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola, si era rifiutato di consegnare le armi alle Nazioni Unite e aveva così rallentato lo smantellamento delle truppe armate. Fu la ferocia del leader, che si sentiva forte del sostegno del Sudafrica razzista e degli Stati Uniti, ad impedire il ritorno alla normalità. Furono sabotaggi, assalti a veicoli civili, imboscate militari, e fu traffico di cocaina e diamanti, in cambio di armi e veicoli sudafricani rubati.
Il tentativo di porre fine al conflitto con le elezioni, concordate tra MPLA ed UNITA e svoltesi nel settembre 1991, era tragicamente fallito: in uno dei numeri della rivista Guerra&pace dedicati all’Angola, ritrovo interessanti informazioni su quegli anni. E scopro che l’UNITA non aveva accettato la sconfitta elettorale: il 34% dei consensi, contro il 54% ottenuto dall’MPLA, per i seggi dell’Assembleia Nacional. Nonostante l’esito del voto, il gruppo aveva preteso l’insediamento di un governo di transizione paritario, anche considerando che la sconfitta personale di Savimbi (40.1 %) era stata ancor meno pesante nei confronti di Dos Santos (49.6 %). Il conflitto armato era ripreso, sanguinoso, nel novembre 1991, ma Savimbi aveva anche giocato la carta di lanciare un appello al presidente degli USA, invitandolo ad “intervenire per evitare ulteriori spargimenti di sangue”.
Savimbi, nel periodo successivo alla sconfitta elettorale, continuava a seguire una doppia tattica: si dichiarava disponibile a trattare la pace con il governo di Luanda, ma si smentiva con regolarità, rilanciando continuamente l’iniziativa militare. Era una tattica evidentemente coordinata, rientrante in una più vasta strategia di controllo d’area: l’alternanza di promesse di pace, alla fine del 1992, con i violenti scontri – con 400 morti – nella località centromeridionale di Kuito coincise con l’occupazione militare delle regioni più promettenti del nord dell’Angola, dove erano concentrate le miniere di diamanti e i pozzi di petrolio.
Dal 1997, quella del Cuamm è stata un’azione efficace, come quella di poche ong che operano sul territorio e che oggi andrebbero coordinate soprattutto nei programmi di emergenza tuttora in atto. Nella fase successiva dell’intervento umanitario, quella che oggi sta per iniziare, quella finalizzata allo sviluppo, si spera che sia più facile il coordinamento dei progetti, anche perché, fuori dell’emergenza, i tempi di realizzazione diventeranno necessariamente più lunghi, i risultati dovranno essere metabolizzati E si sa che scuole ed ospedali, opere che i finanziatori pubblici vogliono vedere realizzate, non possono giungere in tempi rapidi, tanto meno i risultati della formazione e della sanità.
Altro è il lavoro svolto dagli organismi finanziatori, dalla cooperazione italiana, dalla Comunità Europea, dall’ONU, dalla Chiesa cattolica e dal governo angolano. Un lavoro buono per trovare e mettere a disposizione fondi, ma meno buono ed efficace nel coordinare le iniziative ed essere presenti sul campo.
D’altro canto i governi, le numerose organizzazioni intergovernative e internazionali sanno come strumentalizzare le ong, finanziandole ampiamente affinché facciano il loro lavoro meglio e a minor costo. Oggi, anche le grandi aziende hanno capito di avere tutto da guadagnare dalla partnership con le ong. Resta un problema non risolto: la privatizzazione dell’azione pubblica e la deresponsabilizzazione politica, se da un lato consentono di rispondere con immediatezza alle emergenze umanitarie, dall’altro rischiano di incanalare enormi energie sulle conseguenze dell’imposizione dell’ordine liberista, piuttosto che sulle cause.
Qui si sente la mancanza di un organismo capace di coordinare prima di tutto gli aiuti e i finanziamenti degli aiuti, poi anche di coordinare il lavoro sul campo, e, per questo, sono convinto che sia fondamentale il ruolo del governo angolano, in tutta la sua articolazione territoriale, provinciale e municipale, e con pieni poteri decisionali che solo una vera democrazia potrà legittimare. E capisco perché, proprio in questi giorni, ho visto gli operatori del Cuamm interloquire sempre più frequentemente con i funzionari ministeriali, i governatori provinciali, i dirigenti ospedalieri, i politici locali.
Lunedì, 22 dicembre, il pericoloso trasferimento a Damba, quasi al confine con lo Zaire
Partiamo per Damba, alle 7.30, con Enzo ammalato di sospetta malaria: siamo preoccupati per la sua salute, ma per fortuna scopriremo presto che è solo influenzato e fra qualche giorno riprenderà la sua solita piena forma.
Così, “Malembe, malembe; Ortensio over”, comunichiamo a Gigio la nostra decisione di partire comunque. È l’unico mezzo di comunicazione a nostra disposizione, l’impianto ricetrasmittente in dotazione al Toyota con cui viaggiamo. Ed è lo stesso modo con cui il centro logistico di Uige si collega con quello di Luanda, e poi con le sedi periferiche di Songo, Negage, Damba. Così tutte le sedi comunicano tra di loro, usando i nomi convenzionali di riconoscimento per ciascuna delle stazioni radio, “Malembe” (lentamente), “Ortensio”, “Benjamin”, “Tokio”, eccetera.
Le trappole per le mosche tsè-tsè, che ieri avevo notato a Songo, sono oggi più frequenti davanti ai villaggi incontrati lungo il percorso, miseri villaggi con case di mattoni a vista e baracche di paglia, dove tanti bambini accorrono al nostro passaggio festosi a salutare i ‘mindele’, i bianchi, nel loro dialetto kicongo. Affamati, sperano in qualche biscotto o altro alimento, che il PAM di solito distribuisce.
Il primo tratto di strada porta a Negage. Lungo i bordi ci sono tombe, a volte solitarie, o a piccoli gruppi, soltanto una croce e una pietra, i morti di una guerra assurda oppure i corpi di un popolo che non riesce a difendersi da malattie altrove debellate: ovunque, cimiteri di croci e carcasse di mezzi militari saltati in aria solo un anno fa.
Dopo Negage, entriamo in piena savana: radure sconfinate e incolte, con qualche alternanza di qualche piccolo invaso idrico, stagni e laghetti in una campagna verde e rigogliosa. Il verde più chiaro è della distesa di erba e cespugli spontanei, il verde più scuro è di altissimi alberi, ricchi di frutti tropicali, fino all’orizzonte. La terra, i tagli della strada, le incisioni nel terreno, sono di argilla, rossa e precaria. Sulla carta ufficiale dei luoghi, in scala uno a due milioni, la strada è una “scenic road”, ovvero “estrada com paisagem pinturesca”, ma in verità è solo una pista di terra rossa, che penetra incerta nella savana, con buche che si fanno sempre più profonde, tutte le volte che piove, e invadono tutta la larghezza disponibile, lasciando al nostro land cruiser solo un piccolo varco per il difficile passaggio, affrontato con pericolo che mi accorgo crescere sempre più.
Viaggiano con noi due giovani angolani, che hanno fatto la guerriglia ed ora, dopo essere stati formati in infermieristica dal Cuamm, tornano a Damba a lavorare. Uomini robusti, saranno utilissimi negli impantanamenti d’auto, quando con la pioggia e l’acqua cresceranno anche le difficoltà di spostamento. Poi c’è anche Dodò, una minuta ragazza angolana che ha attraversato tre tubercolosi ed ha un figlio malnutrito, in visita a Damba, il suo paese natale, anche per darci una mano durante il nostro soggiorno.
Spaventose le tracce di guerra che ci accompagnano lungo il percorso: cannoni abbandonati, carrarmati rovesciati, altri mezzi militari distrutti e lasciati ai bordi, croci di tombe e, poi, il pericolo costante delle mine, campi minati tutt’intorno alla strada, disseminati di mine lasciate dall’UNITA, le più pericolose perché abbandonate a caso durante la ritirata, in posti imprevedibili, tanto che anche la sosta per la pipì deve farsi con somma prudenza, senza mai allontanarsi troppo dalla strada.
A chi spetta attuare programmi di ritorno alla normalità? Qui, secondo gli accordi di pace, all’UNITA spetta l’amministrazione di alcune municipalità della provincia di Uige. Ma è solo una delega apparente di autorità amministrativa, perché il vero potere continua ad essere gestito dal partito del presidente, l’MPLA, al governo con risultati che per ora non sembrano esaltanti.
D’altro canto, l’UNITA non ha ancora avuto modo di collaborare a preparare un minimo di quadri amministrativi. Nel passato, il suo movimento ribelle ha fatto sempre più ricorso al massiccio rapimento di giovani, così come ha fatto la guerriglia ugandese dai suoi santuari in Sudan o il Ruf della Sierra Leone. Nelle regioni in cui l’UNITA reclutava, la popolazione non era in grado di resistere alla coscrizione obbligatoria imposta da Sawimbi, ferocemente violento con chi si rifiutava di arruolarsi. Anche con uomini e donne.
Paesi destrutturati da decenni di guerra non erano più amministrati e si erano ripiegati nell’autarchia. Come non condividere l’opinione, formulata in un articolo di Guerra&pace un po’ di tempo fa, che il governo attuale abbia avuto responsabilità nella continuazione della guerra, per non avere agito con maggiore decisione nè portato questi territori fuori dalla miseria. Avrebbe privato così l’UNITA della manovalanza di cui aveva bisogno per perseguire i propri disegni bellici.
È piovuto da poco e la strada diventa un fiume d’acqua e fango, spesso una sequenza di ‘step and pool’, altre volte con forme paurose di erosione laterale, che non lasciano più neppure il passaggio ad una sola macchina, altre volte ancora solchi profondi e longitudinali, vere fratture nella continuità della strada, o buche profonde anche più di un metro. Non sono sicuro che arriveremo a Damba, la meta sembra irraggiungibile. Per due volte rimaniamo bloccati, impantanati in una buca profonda d’acqua e fango, incapaci di andare avanti, ma anche di tornare indietro. La prima volta ce la siamo cavata da soli usando tronchi e rami tagliati con l’aiuto fondamentale dei nostri compagni di viaggio e con la mirabile perizia di Enzo nella guida dell’auto. La seconda volta, più complicata, un camion pieno di duri soldati ex guerriglieri ci ha tirato fuori con cavi e funi, trainati fuori da una buca, proprio sulla difficile discesa che conduce al fiume Zadi, quando ormai eravamo rassegnati a trascorrervi la notte. La strada, trasformata in un vero torrente da disfacimento, porta allo stretto e pericoloso ponte di legno che oltrepassa il fiume e poi risale sull’altro versante, ancor più ripido, verso lo spartiacque del bacino. Un vallone, non una strada.
L’ultimo vero ostacolo è il “muro del macaco”, una salita di forte pendenza, che sarebbe stato impossibile superare se soltanto avesse piovuto qui un giorno fa. Con il cuore in gola, la superiamo senza sorprese e percorriamo l’ultimo tratto, senza serie difficoltà, di una strada ormai breve per Damba.
La città è in un vasto territorio di altopiano posto a 1200 metri di altitudine sul livello del mare, solcato da corsi d’acqua appartenenti a diversi sistemi idrografici: il Lueca, affluente del Mbridge, che sfocia nell’Atlantico, a nord di Luanda, nelle vicinanze di N’Zeto; e, poi, il Lulovo, lo Zadi e il Luate, altri corsi d’acqua che sono diretti a nord, fuori dell’Angola, verso il Congo-Zaire.
Questo è territorio di difficile frontiera con la Repubblica Democratica del Congo. Qui, ancora oggi, il presidente Joseph Kabila denuncia dalla capitale Kinshasa i continui tentativi di destabilizzare le istituzioni del governo di transizione del suo paese, attacchi in cui sarebbero coinvolti uomini appartenenti alle forze armate dell’ex-Zaire e alla guardia personale del dittatore Mobutu Sese Seko, deposto nel 1997, uomini che trovarono rifugio nella confinante Repubblica del Congo, la maggior parte stabilendosi nell’altra capitale Brazzaville, oltre il fiume Congo, la frontiera naturale che divide i due paesi congolesi. Sono le aree della destabilizzazione africana. I luoghi dei massacri di profughi e dei genocidi.
Ma Zaire è anche il nome di una delle province in cui il territorio dell’Angola è suddiviso. È la provincia più settentrionale, al confine di nordovest, mentre Uige è la provincia di confine di nordest.
Le altre province angolane sono quelle di Bengo, Benguela, Luanda, Cuanza Norte, Malanje, Lunda Norte, Lunda Sul, Cuanza Sul, Huambo, Bie, Moxico, Huila, Namibe, Cuando Cubango, e la più meridionale che è Cunene. Infine c’è la diciottesima provincia, l’enclave di Cabinda, a nord della foce del Congo. Molto di più che la metà di quest’immenso territorio, durante l’ultima guerra, era controllato dall’UNITA, un territorio vastissimo in cui mancava qualunque struttura di società civile. Qui esisteva soltanto l’economia degli operatori privati che compravano diamanti da Sawimbi, ad esempio nella provincia di Luanda Norte.
Molte città dell’interno, alla fine della guerra, erano parzialmente e totalmente distrutte. In un’offensiva lanciata da Benguela, una città sulla costa dell’oceano atlantico, l’aviazione di Luanda bombardò Huambo, feudo dell’UNITA, per occupare l’altopiano che la circonda. Secondo polo industriale del paese, Huambo fu ridotta a ricevere l’elettricità per poche ore al giorno e piegata nella sua resistenza.
Ancora oggi, a Uige l’erogazione elettrica è limitata a poche ore. Quale sarà la situazione di Damba?
Martedì, 23 dicembre, conoscere Damba e il suo centro spettrale.
È giorno di dose di Larian, l’antimalarico che sto prendendo ogni sette giorni, la terza dose, ormai incredulo sulle sue capacità di impedire di ammalarmi di malaria: spero di più nella buona sorte, nel mio sistema immunitario, e punto tutto sulla probabilità che non siano infette le zanzare che mi hanno già morso e mi morderanno ancora.
Ieri sera, siamo giunti infangati dalla testa ai piedi e, dunque, stamattina dobbiamo prima di tutto dedicarci al lavaggio di scarpe e indumenti.
Poi facciamo una breve visita all’ospedale, guidati da Silvio Cortinovis, uno dei medici “invisibili” del Cuamm in Africa, unico medico qui a Damba, e di suor Concetta che, in un luogo di dolore, ha la capacità di far tornare il sorriso anche a giovani donne che hanno trascorso una notte di sofferenza o che hanno pianto perché hanno temuto di perdere il figlio ammalato. Vanno bene il sorriso, il coraggio e la solidarietà, ma le condizioni dell’ospedale sono spaventose, con cameroni pieni di trenta-quaranta ammalati, donne e bambini seminudi che condividono in tre-quattro lo stesso letto, servizi igienici nulli, conche ai piedi del letto. È grande la voglia di ricostruzione in Gigio, che ci mostra i progressi di pochi mesi di lavoro: in particolare un piccolo laboratorio di analisi che proprio in queste settimane si è aggiunto ai reparti di maternità, pediatria, più quello in cui sono ricoverate donne ammalate di tubercolosi o di malaria.
Accanto all’ospedale c’è una scuola, in parte riattivata, in gran parte ancora da recuperare, che potrebbe equivalere ai nostri livelli elementare e medio di istruzione. In Angola i primi quattro anni di scuola appartengono al 1° livello; i due anni successivi sono del 2°; infine, al 3° livello sono il settimo e ottavo anno. In questo periodo c’è vacanza, fino a febbraio, e dunque possiamo entrare nelle aule senza disturbare, per riscontrarne le condizioni strutturali e poter riferire a Molfetta e Bisceglie, dove si attiverà un gemellaggio scolastico con Damba. Alla campagna pubblicitaria di promozione dell’azione del Cuamm, Enzo e i medici impegnati in Africa preferiscono, per la raccolta di fondi, l’attivazione del gruppo di appoggio della città di origine.
Tutt’intorno, ampie distese di campi, in uno dei quali c’è stato un accampamento di inviati delle Nazioni Unite, venuti l’anno scorso per valutare il rispetto della tregua tra le forze ostili che si erano confrontate nella guerra civile. Nel posto in cui viviamo, che è il centro logistico del Cuamm, c’era un tempo un orfanotrofio femminile, un edificio abbandonato da anni e in pochi mesi riadattato da Gigio. Di fronte c’era una missione, oggi la casa delle “Suore della Misericordia”, con quattro sorelle che abitano in un bell’edificio coloniale, con porticato e in buone condizioni, contiguo all’ospedale. Oltre alla scuola, completano l’insediamento una chiesa e un convento di cappuccini tuttora presenti e attivi.
Ci sarebbero, qui a Damba, gli uomini pronti ad operare, di ritorno dai paesi in cui si erano rifugiati e ci sarebbero anche le istituzioni pronte a intervenire. Ma, ancora più forte, rispetto a Uige, è la mancanza di organizzazione per mettere insieme gli sforzi necessari, per coordinare l’azione del Cuamm con l’impegno della municipalità e delle sue articolazioni territoriali - divise in regedorias, e queste in villaggi, e queste poi in bairros – con l’assistenza delle Suore della Misericordia, la tenacia dei cappuccini missionari, le competenze dell’International Medical Corp, l’azione dell’UNHCR. Adesso sembra che possa ventilarsi una collaborazione stretta tra Cuamm ed Unhcr. Molto lentamente, si avvia anche l’opera di un’impresa di costruzioni che, per appalto del governo angolano, sta riabilitando una scuola al centro di Damba.
Dopo il pranzo, a base di riso, legumi, fungi, polpette di semi di zucca e infine, per frutta, mango e maracuja, ci aspettano alcuni lavoretti elettrici e idraulici, il riempimento dei serbatoi d’acqua e tutte le piccole cose, dimenticate, che spettano a chi deve fare da sé.
Poi facciamo visita al centro del paese, che è ad un chilometro circa e si sviluppa intorno al percorso di un’unica strada longitudinale. È un luogo davvero spettrale, in cui si avverte nelle case rimaste in rovina per lunghi anni il passaggio della furia devastatrice della guerra civile. Sono case costruite durante l’ultimo periodo della colonizzazione portoghese, anche discrete opere pubbliche datate intorno agli anni cinquanta, qualche bar, ristorante, albergo, scuola, palestra, tutti edifici distrutti dalle granate, scoperchiati ed abbandonati. Sulla strada principale ci sono i resti di cinque pompe di benzina, resiste l’insegna della Texaco, sopravvivono carcasse d’auto e mezzi commerciali di trasporto, testimonianze lontane di attività commerciali e artigianali.
È qui che è partita la guerra di liberazione negli anni sessanta, ed è stata la più intransigente, ad opera dei kicong, i nativi di questi luoghi. È vero, si può giustificare la violenza come resistenza a mali ancora più funesti, si può anche pensare alla lotta democratica e anticoloniale come interna alle trasformazioni della civiltà della accumulazione economica. Ma qui, cacciati i portoghesi nel 1975, è stata feroce la guerra civile, a più riprese, ed ha portato la distruzione di un paese che aveva la sua dignità economica e sociale. E fu guerra civile anche a partire dal 1989-90, quando dal paese si ritirarono le forze sudafricane e cubane, lasciando il campo a nuove forme globali di colonizzazione economica: altro che attriti etnici, a cui l’Angola non era abituata.
E, al governo, cosa fanno?
Non sembra che, oggi, il governo della repubblica democratica di Angola stia facendo tutto il possibile per far tornare le attività e l’occupazione a Damba e in tutta la provincia di Uige. La vera democrazia è ancora molto lontana e il patto di pace con l’UNITA rischia di essere fragile e precario. La popolazione è stanca di guerra ma è anche distante dall’azione di governo, ciò che impedisce la vera ricostruzione. Un partito, l’MPLA, non può identificarsi con lo stato.
Mercoledì, 24 dicembre, lavorare al progetto ‘water and sanitation’.
Ieri, è giunta la notizia che l’ECHO ha candidato il Cuamm ad un finanziamento di 85 mila dollari per realizzare un progetto nell’ambito del programma di interventi in ‘water and sanitation’. Senza mezzi termini, Enzo ci impone di preparare, in soli tre giorni, uno studio di progetto di opere immediatamente eseguibili, necessarie per migliorare le condizioni igienico-sanitarie dell’ospedale di Damba.
Qui non abbiamo strumenti di consultazione tecnica, ma ci mettiamo lo stesso al lavoro, cominciando con il sopralluogo al pozzo di prelievo dell’impianto idrico attuale, che dista cinquecento metri circa, e con la ideazione delle opere necessarie per risistemare la condotta e lo schema idrico-fognario che servono sia l’ospedale che il centro logistico del Cuamm. Contagiati dallo stile ‘invisibile’ dei ‘medici con l’Africa’, dalla sana ossessione di non apparire, ci buttiamo a capofitto e con discrezione nel lavoro.
Poi ci rechiamo al centro del paese, a fare compere nel mercato del mercoledì. È una scena aperta di tettoie provvisorie con pali di legno e copertura in ferro e ruggine, per proteggere la merce e con una folla di venditori e venditrici, mamme con bambini attaccati ai grossi seni o aggrappati alle loro schiene. Sono giovani donne e uomini, tutti a vendere merce buttata per terra, tra la polvere e le mosche, oppure su provvisori banchetti su cui è esposto di tutto, alimenti poveri e suppellettili di prima necessità. Passiamo sotto lo sguardo attento, ma non insistente, dei venditori che sanno bene che non siamo dei turisti, perché qui non se ne vedono mai, anzi i più sanno bene che apparteniamo all’organizzazione del Cuamm e dunque siamo lì solo per aiutarli a curarsi, non a fare spese inutili.
All’ingresso della municipalità c’è sempre il controllo da parte di un responsabile dell’ordine pubblico, un giovane armato che controlla tutti quelli che entrano e si avvicina sempre per informarsi, quasi sempre gentile ma con l’autorità della divisa. Il pane lo compriamo da un venditore per strada, che ci porta all’interno della casa distrutta che è dietro di lui, dove è il forno e c’è il pane appena cotto e conservato in condizioni igieniche molto discutibili.
Dopo pranzo, mentre lavoriamo alla progettazione dell’integrazione idrica, cade dal cielo un vero diluvio, in una giornata che già si era presentata umida e piovosa.
Finita ormai la guerra, è forte il sospetto che il governo continui ad usare le royalties della vendita del petrolio e dei diamanti per finanziare politiche e programmi di armamenti che non hanno più senso, in una situazione in cui è invece da consolidare la pace. È difficile evitare posizioni di preoccupata critica verso le forze di governo, che sono le stesse a governare dal 1975 senza avere mai prodotto politiche economiche di sviluppo, senza far conoscere i propri conti, il bilancio del tesoro, i programmi finanziari nazionali. Ieri, Enzo, sempre molto discreto e benevolo verso il governo, si è lamentato della lentezza dell’opera di costruzione di un ospedale, di cui qui non c’è ancora traccia alcuna, finanziato da una banca africana.
Nel pomeriggio, col sole che fa capolino al tramonto, siamo nella chiesa vicina, dove i franciscanos capuchinhos della Igreja Catolica hanno preparato la rappresentazione della natività con i giovani dei villaggi di Damba, che con gioia e partecipazione, nel loro dialetto kicong, riescono a commuovermi con quegli angeli neri, Giuseppe, Maria, il bambin Gesù tutti neri, anche le pecore rivestite di bianco, i pastori, tutti poi impegnati in una danza finale con canti natalizi e di alleluja.
Silvio, il medico del Cuamm a Damba, un ombroso cinquantenne della val Brembana, che è da sette anni in Angola, ci porta più tardi a mostrarci, in una passeggiata all’aria fresca serale, una vasta zona aperta d’altopiano, che anni fa funzionava da provvisorio aeroporto per atterrare a Damba. Durante la guerra civile, solo piccoli aerei la collegavano al resto del paese e con un elicottero Enzo è giunto per dare inizio al “progetto Damba”.
Finalmente un bel tramonto di sole, in un cielo limpido e terso, e ci organizziamo la cena, non diversa dalle precedenti, non avendo stamattina trovato al mercato settimanale l’auspicato pitone, né il cervo, per la cena di natale. Stasera, però, ci concediamo un piccolo lusso con un vino portoghese e ceniamo con gusto. Al telefono satellitare, con le antenne bene orientate verso il satellite, aspetto, come tutte le sere qui a Damba, dalle sette alle nove, che Telecom Angola mi permetta di parlare con i miei a Molfetta ed avere notizie dall’Italia.
Così pensiamo di trascorrere la serata, fino a mezzanotte, in attesa della messa di natale, che si terrà nella chiesa cattolica, la notte del natale africano, in pieno solstizio d’estate, ai 7° di latitudine di Damba, venuti qui alla ricerca delle intime ragioni e delle concrete possibilità di successo di questa incredibile collaborazione tra Ministerio de saùde, Cuamm medici con l’Africa e Cooperazione italiana.
Qui la notte - senza luci artificiali per decine e decine di chilometri tutt’intorno - è proprio buia, ma quando non ci sono le nuvole, e neppure la luna, il cielo dell’emisfero australe è uno spettacolo straordinario, con una popolazione di stelle davvero inimmaginabile, che ti lascia senza fiato.
Ma, poco prima di cena, un infermiere è venuto a chiamare il dottor Silvio, perché un bimbo ammalato di aids sta molto male. È emergenza infinita. Il Cuamm non è soltanto il collegio che ha ospitato centinaia di studenti africani, né soltanto ha inviato nei paesi in via di sviluppo tantissimi medici italiani, disposti a rimanervi per numerosi anni, ma è soprattutto un organismo vivo che, lavorando sul posto e coinvolgendosi di persona, ha maturato sul posto una conoscenza unica in materia di sanità pubblica nel mondo del sottosviluppo. Silvio non ha esitazioni e corre in ospedale per le impossibili cure, improbabili per i mezzi sanitari qui disponibili, qui dove non c’è diritto alla salute, non c’è diritto alla vita.
Andiamo a dormire. Non abbiamo più voglia di attendere la mezzanotte di natale. I nostri letti non sono dotati di zanzariera come a Uige, ma il rischio, che qui è minore, di essere punti da anofeli esiste sempre e davanti alla finestra c’è un’efficace zanzariera, che impedisce l’ingresso nella stanza di ogni tipo di zanzare, anche quelle portatrici di altre malattie, come la filaria.
E poco prima di mezzanotte, quando siamo già a letto, qualcuno bussa alla nostra porta, svegliandoci per comunicarci che il piccolo ammalato è morto. Aveva meno di un anno. In tutto il mondo cristiano, nello stesso momento, si sta celebrando la nascita di un bimbo più famoso, il salvatore, che doveva portare la luce e la salvezza all’umanità.
Si sentono, nel silenzioso e buio isolamento in cui viviamo, i canti natalizi provenienti dalla chiesa vicina, in cui si sta celebrando la messa, anch’essa una vera sfida voluta dai padri cappuccini che hanno insistito per dare un segnale di rinascita, in questa prima notte di natale, la prima vera notte dopo la fine della guerra civile, che la gente si augura sia vera fine, più augurale di quella dello scorso anno.
Ormai è passata la voglia di dormire e trascorro, in veglia e al buio, la notte bianca di Natale. Penso alla spinta interiore per una scelta estrema, penso alla fede in Dio che porta Ottavia ad accettare una vita scomoda e difficile, non solo la completa dedizione ad un’etica professionale e medica, ma anche il rifiuto e il taglio netto alle comodità occidentali, lasciate più di vent’anni fa per andare incontro al rischio ed alla vita vera. Aspetto, indispettito ma ansioso, il ritorno del sole, che domattina vedrò nascere dalla piccola finestra della mia stanza, sorgere sempre dallo stesso punto all’orizzonte, quasi lo stesso in cui sorge tutto l’anno, qui all’equatore.
Giovedì, 25 dicembre 2003, Natal feliz cheio de prosperidades.
C’è ancora chi pensa che siano etniche le ragioni che conducono all’odio ed alle guerre?
Qui si ricorda che l’anno scorso, all’annuncio della morte di Jonas Savimbi, le strade di Luanda si sono riempite di gente esultante di gioia che intonava canti di vittoria. Ma, non era perché il popolo di Luanda provasse odio e disprezzo per gli umbundo del Centro-est del paese, cui apparteneva la maggior parte dei guerriglieri di Savimbi e la maggior parte dei suoi uomini armati. È stato invece, e soprattutto, perché per molti anni il leader spietato ha raffigurato il rifiuto di accettare un’alternativa alla guerra, una guerra crudele in cui la popolazione civile era diventata il bersaglio principale. La sua morte ha risvegliato la speranza nella fine della guerra e delle sofferenze.
L’UNITA diceva di battersi per la sopravvivenza del popolo degli umbundo, di lottare contro la pulizia etnica minacciata dal presidente Dos Santos! Da un lato, minacce di genocidio; dall’altro, professioni di fede nella libertà e nella democrazia da parte del governo di Luanda. Da un lato, l’UNITA che, dopo gli accordi di pace del 1991, non aveva deposto le armi e controllava la maggior parte delle regioni diamantifere; dall’altro, il governo di Luanda, che richiamava alle armi, mobilitava migliaia di reclute e acquistava armi con i proventi del petrolio.
Non c’era più ormai la guerra fredda, ma la guerra civile andò avanti ancora per più di un decennio, durante il quale i governanti angolani ammainarono pian piano le bandiere socialiste. Si trasformarono in uomini d’affari e soprattutto contrassero accordi miliardari con le più importanti compagnie petrolifere francesi e americane.
La nostra mattinata scorre lenta, impegnata prevalentemente nel lavorare al progetto water and sanitation, con sopralluoghi all’ospedale, misure, osservazioni, relazioni e disegni. È disponibile una cifra consistente, da non perdere, soprattutto se penso a quanto faticosa sia la raccolta di fondi e di offerte di solidarietà. È davvero necessaria. Quindi per nessun motivo possiamo perderla. L’intero “progetto Damba” è finanziato per 300 mila dollari e l’ulteriore finanziamento è davvero prezioso per l’attività di medici, logisti, amministrativi che lavorano nei quattro centri di spesa del Cuamm a Padova, Luanda, Uige, Damba.
L’acqua che usiamo, qui a Damba, proviene da una falda sotterranea ed è raccolta con un pozzo superficiale scavato in un luogo distante di qui mezzo chilometro, che si raggiunge scendendo per un facile sentiero che porta al fiume vicino. Di qui l’acqua viene pompata in condotta in pressione fino al serbatoio pensile, che è qui accanto, poi per gravità giunge con tubi di gomma nei barili che sono in cucina e nei bagni. In cucina viene raccolta con secchi e boccali e versata in pentole per essere bollita e disinfettata, quindi passata in due piccoli sedimentatori e filtrata.
Dopo pranzo, Silvio mi accompagna in una salutare passeggiata al sole caldo, per sentieri della savana, fino ad un corso d’acqua dove scorre acqua limpida e le donne si recano a lavare i panni. Attraversiamo campi di arachidi, di manioca, di mais, e piante di fagioli, alberi di mango, di avocado, davvero tanti, a perdere sulla strada, e di banane. Al mondo esistono ben cinquanta tipi di banane, prodotti importati e venduti nei mercati occidentali, provenienti da un sud del mondo senza garanzie. Penso alla ricchezza di questa terra ed alle potenzialità di un’agricoltura più matura e meno precaria, non come quella che viene garantita dal protezionismo e dai sussidi nelle ricche campagne occidentali, ma neppure tanto di sussistenza, com’è quella delle popolazioni escluse dai mercati. Quella giusta per far vivere un popolo denutrito.
Il territorio municipale di Damba e dei suoi villaggi, le sue regedorias e le aldeias, è molto vasto, esteso per 7 mila chilometri quadrati, solcato da numerosi corsi d’acqua: il rio che raggiungiamo nella nostra passeggiata defluisce verso le terre del Congo, come anche lo Zadi. Nella struttura amministrativa dell’Angola, Damba è un municipio, diviso in quattro comunas (Nsosso, Camatombo, Pete Kusso, Lamboa), 38 regedorias e 333 aldeias. Mi documento per conoscere meglio il paese com’è oggi ed apprendo altre notizie sul suo territorio e sulla guerra che lo ha devastato a lungo.
Così apprendo che, durante gli ultimi quattro anni del conflitto armato interno, quello che si può dire essere stata la terza guerra civile angolana, la città di Damba fu attaccata ripetutamente dai ribelli dell’UNITA, l’ultima volta poco più di un anno fa, nel gennaio del 2002. A causa dell’insicurezza allora esistente, l’IMC, la Comunità Medica Internazionale, aveva interrotto già alla fine del ‘98 la propria attività umanitaria e da allora l’intero distretto di Damba è rimasto senza alcuna assistenza sanitaria strutturata, finchè non è giunto il Cuamm nel 2003. Membro di “Medicus Mundi International”, la federazione internazionale di organismi di cooperazione sanitaria, il Cuamm era già presente in Angola e fin dal 1997 operava a Uige. Così diede vita, nel giugno del 2003, al “Damba project”, denominato “Restarting health assistance in Damba municipality” - che terminerà nella primavera del 2004, perseguendo due obiettivi, che sono la Health Assistance e la Nutritional Assistance.
Durante la guerra, la rete municipale di sanità era letteralmente collassata. Costituita, sulla carta, di un ospedale municipale, di quattro centri di salute nei quattro comunas di Damba e di altri dodici posti di salute periferici, la rete non aveva alcuna unità funzionante al momento dell’intervento del Cuamm e molte unità erano letteralmente distrutte. A venire qui a Damba e in quelle condizioni, c’è voluto coraggio da parte di Enzo e spinta generosa, potendo contare soltanto sullo spirito professionale e di sacrificio di Silvio, che si è detto disposto ad operare fino a maggio 2004, e sulle straordinarie capacità di adattamento e di iniziativa di Gigio, che è in grado veramente di far tutto, con qualità rare, stupefacenti, per un giovane diciottenne.
Accompagnati da Ottavia, arrivarono nella missione abbandonata e, senza scoraggiarsi mai, hanno rimesso in funzione una minima attività di assistenza e di cura nell’ospedale, ora anche di analisi in laboratorio medico, ed hanno creato dal nulla un centro logistico-operativo, che è fondamentale in appoggio alle attività mediche e ospedaliere. La loro non è stata solo una goccia di solidarietà in un mare infinito di miseria, di sofferenza, di fame. È stato invece l’unico mezzo perché gli uomini cominciassero a tornare nelle terre da cui erano andati via per sfuggire alla guerra e all’obbligo di arruolamento forzato, l’unico modo perché la gente riprendesse a sperare nelle possibilità di vivere e tornare a lavorare.
Fra qualche mese, Gigio, a mio avviso un promettente ingegnere logista, lascerà Damba perché dovrà tornare in Italia a studiare e sostenere gli esami nella facoltà di Medicina. La sua è stata una sfida estrema, necessaria, che lascerà il segno qui in Angola. Ne sono certo, perché il territorio è promettente, ricco di risorse naturali, idriche, agricole, ambientali, energetiche.
Però il governo dovrà decidersi ad attivare al più presto la strada di comunicazione con Uige, affinché riprendano gli scambi commerciali, assolutamente necessari. Nessuno potrà mai dire che si è fatto soltanto teoria senza concretezza, buona per convincere l’Unione Europea a finanziare medici coraggiosi, però tutto quello che si fa qui sarà stato inutile se non sarà accompagnato dalla consapevolezza delle condizioni difficili, davvero estreme, in cui si continua ad operare. E particolarmente ardua è la situazione della via di collegamento con il resto dell’Angola, quella pista terribile che collega Damba a Uige, destinata ad interrompersi in qualunque momento, a causa dell’erosione diffusa provocata dall’acqua, una demolizione progressiva in più tratti, che ne modifica continuamente caratteri e difficoltà.
Sicuramente quella di Damba è una prova superiore a quelle già sostenute e ancora in atto nell’ospedale provinciale di Uige, in cui il Cuamm ha già fatto miracoli, presente com’è in pediatria, ostetricia, tisiologia, e nell’ufficio provinciale di sanità. Così anche rispetto a Negage e Songo, dove è presente con cinque medici italiani nei due ospedali municipali; e in tutta la provincia di Luanda, nel supporto al programma provinciale per il controllo della TBC e nel centro logistico amministrativo di tutto l’intervento in Angola; e infine nella provincia di Cunene, la più meridionale, a 17° di latitudine sud.
Ma il Cuamm ce la farà anche a Damba, come ce l’ha fatta in altre parti dell’Angola, soprattutto grazie ai buoni rapporti che i suoi uomini e le sue donne costruiscono con la popolazione, con la gente reale. L’ho percepito vedendo Enzo al lavoro a Uige, Roberta nell’impegno professionale e nelle relazioni sociali a Negage, Silvio nella fiducia autorevole che trasmette con le sue poche parole a Damba, Gigio nella tenacia che mette nella sua attività giornaliera. Solo se si è sul posto, se si parte dalla realtà, non dai “progetti chiavi in mano” a cui molte agenzie ricorrono, se si lavora dal basso, si conoscono gli uomini, gli amici, la cosiddetta società civile, le “risorse umane” del linguaggio burocratico.
È vero, con le agenzie internazionali che vi operano, c’è tutta la volontà di costruire una rete di impegno e di sostegno. Oltre all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite che aiuta i Rifugiati, in Angola c’è l’UNICEF che procura latte terapeutico, il WFP (World Food Program) che distribuisce alimenti di prima necessità. Importante è anche la collaborazione con la OCHA e, per non restare isolati, è assolutamente indispensabile lo scambio di informazioni con le altre ong funzionanti nella provincia di Uige, con la MSF-E (Medici Senza Frontiere – Europa) che è presente a Quembele, con l’IMC che è coinvolta nel training TBC in Uige, con DRC che è impegnata nella assistenza aids e nel ritorno dei rifugiati. Gli stessi progetti in cui il Cuamm è impegnato in Angola sono condotti in partenariato, oltre che con l’Ocha, l’Unhcr, l’Unicef, anche con l’Ambasciata italiana a Luanda e con la Conferenza Episcopale Italiana. Relazioni culturali e personali il Cuamm intrattiene con i monaci cappuccini e le sorelle missionarie della Misericordia; fondamentale è lo scambio reciproco di cortesie tra di loro, le collaborazioni nei lavori di tutti i giorni, nei bisogni quotidiani.
Trovo ottimo il pane che le suore producono e talvolta ci offrono: uno scambio che fa parte della politica della convivialità. Ma la certezza che il Cuamm ce la farà l’ho avuta oggi, quando, alle quattro del pomeriggio, Gigio ha tenuto la proiezione di un film, Matrix, in una sala gremita di bimbi, giovani e adulti, messa a disposizione dai monaci cappuccini: è stato il banco di prova della volontà della gente di credere di nuovo nel ritorno alla normalità. Non c’era il proiettore. L’abbiamo portato da Molfetta, comprato con i soldi raccolti dalla solidarietà nelle scuole cittadine.
Venerdì, 26 dicembre, le spaventose condizioni dell’ospedale di Damba.
Qui le condizioni del tempo, durante una stessa giornata, mutano continuamente. Le nuvole giungono improvvise e trasformano una giornata di sole e luce in una buia e tempestosa. Oggi l’alba è senza sole, il cielo è coperto da una grigia foschia. C’è ancora poca luce dopo le sette, ma poi finalmente arrivano il sole e il caldo. Di sicuro, fino a stasera il tempo cambierà più d’una volta e verrà anche la pioggia, in una qualunque misura.
La relazione di progetto che stiamo redigendo ci impegna per gran parte della mattinata al computer, interrotta soltanto da un breve sopralluogo di verifica in ospedale, per constatare gli schemi idrico e fognario e perfezionare la pianta e i disegni allegati.
Folle di donne e bambini riempiono i reparti, occupano i brevi corridoi, e soprattutto l’atrio aperto dell’ospedale. Qui, uomini con la divisa del Cuamm stanno lavorando alla pitturazione esterna dell’edificio di un bel bianco e azzurro, gli stessi uomini che poi, a fine settimana, Gigio ricompenserà con una paga contrattuale per la collaborazione fornita. Verniciatura e giardinaggio non sono certo le prime necessità, ma penso abbia ragione Teresa Strada di Emergency a sostenere che i fiori, i prati, i giardini e i colori sono un importante complemento psicologico per il successo dell’attività umanitaria in condizioni difficili.
Inoltre questi lavori servono per tenere impegnati al lavoro uomini e donne, che poi saranno utili per rifunzionalizzare i servizi, cessi e lavelli, che qui sono ancora inutilizzati, in uno stato spaventoso di degrado e di assenza di igiene. I bisogni corporei di malati, infermieri e ospiti vengono soddisfatti fuori dell’ospedale, all’aperto, in buche tutt’intorno, nei campi.
Nell’atrio retrostante dell’ospedale c’è una fontanina d’acqua, l’unica risorsa idrica esistente, aperta all’erogazione solo un’ora al giorno. Con secchi e bacinelle, l’acqua viene condotta all’interno dagli stessi pazienti, e così anche ad una improvvisata cucina all’aperto. Ovviamente, la situazione non è diversa, a pochi metri di distanza, nel centro logistico dove abitiamo, in cui ci aspettano il travaso dell’acqua, la bollitura, la sedimentazione, la riserva dell’acqua per l’igiene personale in barili e la sua utilizzazione plurima, prima del finale smaltimento per gli sciacquoni nei cessi.
Con noi vive anche un ragazzo angolano, un dodicenne di nome Zè, che è stato più volte sorpreso a rubare negli anni scorsi anche del denaro consistente raccolto dal Cuamm, ma Gigio, che è la vera anima del centro logistico, è convinto di riuscire a recuperarlo alla normalità. In questo periodo non c’è scuola e Zè se ne sta fuori tutto il giorno, e così farà fino all’apertura del nuovo anno scolastico; torna solo per il pranzo e poi la sera per cenare e andare a dormire, impegnandosi solo in piccoli lavori di pulizia delle stoviglie in cucina.
Dopo il solito pranzo frugale, con riso, fungi, verdura cotta, fagioli, chiuso dalla solita abbondanza di frutta, manghi, ananas, maracuja e banane, mi fermo a riconoscere la mappa stradale della via per Uige, forse anche per familiarizzare un po’ con le difficoltà che inevitabilmente incontreremo al ritorno, fra qualche giorno. Se mai riusciremo a tornare indietro. Da Damba, passando per Quizengue e poi Martela, giungeremo al 42° chilometro, dove è una località dal nome “31 de Janairo”. Di qui si prosegue per Quilicange e poi Coqueila, giungendo al 72° km a Regadoria de Caindo, quindi a Quicangiut all’89° km e poi a Bungo al 110° km. Passando per Calanda, si giunge a Catumba (137° km) e quindi al bivio di Negage (153° km) ed ormai a Uige, dopo 190 km.
Se riusciremo a superare le spaventose difficoltà della pista!
E, immancabile, arriva anche oggi la pioggia, copiosa e abbondante più del solito, ad alimentare i campi di mais, le piante gigantesche di banane, i maestosi alberi di mango dalle larghe chiome, le altissime e lunghe palme, i pini e gli eucalipti, ed anche i cespugli di girasole che sono proprio davanti alla nostra casa. Sono minacciosi fulmini in lontananza, poi anche tuoni vicini, e viene giù una pioggia a scrosci successivi, per un quarto d’ora, con pause e poi riprese più abbondanti di prima, fino ad allagare tutt’intorno, fino a trasformare in fanghiglia l’argilla che pavimenta le piste e i sentieri.
La situazione sanitaria. Qui non c’è soltanto l’inadeguata copertura sanitaria del mondo rurale, che è tipica di molti altri paesi e zone dell’Africa, e con essa l’insufficienza dei mezzi umani e finanziari e la scarsa formazione sanitaria, c’è anche la cultura locale, ci sono le consuetudini, le abitudini, i rituali, le pratiche popolari, c’è l’ignoranza della popolazione che dissuade i malati dal recarsi in tempo utile in ospedale o in altre strutture sanitarie, preferendo quasi sempre il ricorso a trattamenti tradizionali o a quelli dei guaritori.
Dopo cena, quasi le nove di una serata asciutta e tranquilla, vengono a cercare Silvio perché una donna non sta bene e, dopo aver provato con un guaritore (pare che ce ne siano molti in giro) e false medicine (ne ho viste moltissime al mercato, anche a quello di Uige), curanderos per gli sciocchi e i disperati, e precarie “cliniche private”, finalmente si sono rivolti alle cure dell’ospedale. Questa totale reperibilità dell’unico dottore dell’unico ospedale in un territorio così vasto è davvero incredibile ai nostri occhi occidentali, ma qui abbiamo a che fare con una medicina che equivale ad una missione, e Silvio, senza turbarsi, ci lascia e, con la sua torcia elettrica nel buio fitto, torna in ospedale per visitare la donna e permetterne il ricovero.
Ma Silvio non si lamenta mai, nessuno dei medici del Cuamm si lamenta mai. Anzi, Silvio si annoia quando non c’è abbastanza da lavorare e dice che, se non avvengono cambiamenti decisivi, qui a Damba non ci sarà molto da fare e, personalmente, non tirerà a lungo, certamente non oltre maggio, quando sarà finito il Projecto Damba del Cuamm. Il suo è un impegno molto diverso da quello di Enzo ed Ottavia, che hanno un’attività stressante, totale, che non lascia spazi ad esigenze personali, in un ospedale come quello di Uige.
A Uige c’è un’utenza giornaliera di migliaia di persone, un numero di ricoveri assolutamente sproporzionato alle strutture e medicine disponibili, una quantità di interventi chirurgici sovradimensionato rispetto alle capacità dei pochi medici disponibili, eppure il governo nazionale non si decide a sviluppare programmi di formazione di una generazione di medici e infermieri angolani, continuando a preferire il ricorso a medici stranieri, ad esempio nordcoreani, pagandoli peraltro molto bene.
A Damba, invece, la situazione è più simile a quella dell’attesa. Attesa che la gente torni ad avere fiducia nelle strutture pubbliche e nelle possibilità di rinascita. Qui il ricordo delle ostilità della guerra civile è ancora troppo recente e si avverte che le cose cambieranno solo quando tutti saranno tornati e l’ospedale saprà farsi carico di un’utenza di 160 mila persone, per ora solo potenziali. Per ora l’attività di riorganizzazione è condotta, tutti i giorni normali, in ospedale da Silvio e nel centro logistico da Gigio, più alcuni uomini che al mattino giungono per eseguire lavori prevalentemente di falegnameria e carpenteria, e attivare un minimo di strutture utili, oltre a Zè ed alla donna che cura le pulizie in cucina, fa la spesa e prepara da mangiare.
Sabato, 27 dicembre, è giorno di paga settimanale.
L’alba qui è lenta. Alle cinque in punto - ed è sempre all’incirca così tutto l’anno - comincia ad albeggiare con il puntuale canto del gallo, la nostra sveglia, e quasi sempre molta foschia e nebbia bassa. Ma ci vogliono almeno le sei perché entri un poco di luce attraverso la finestra e mi permetta di leggere senza dover ricorrere alla torcia elettrica.
Il generatore di corrente delle suore viene attivato solo alle sette di sera e fino alle dieci, poi c’è solo la luce fioca delle nostre torce; temporalizzata è anche l’erogazione dell’acqua proveniente dalla falda, una volta ogni due-tre giorni per concessione di energia da parte del generatore dei padri cappuccini e giusto per riempire il serbatoio di accumulo; così anche l’antenna satellitare per le comunicazioni telefoniche è installata per due ore serali, mentre le comunicazioni via radio, con la frequenza concessa al Cuamm, avvengono per accordo con le altre sedi puntualmente alle 7.30 del mattino ed alle 18.30 della sera. Tutti i giorni, alle 18, Silvio si sintonizza con un giornale radio in lingua italiana, “rai international”, per aggiornarsi sulle vicende italiane ed internazionali.
Oggi al centro di Damba c’è il secondo mercato settimanale, più piccolo e meno fornito di quello del mercoledì, a cui si fa ricorso solo per alcuni acquisti alimentari necessari, pane e frutta. Il resto delle riserve alimentari è conservato, in promiscuità con i topi, nel magazzino, dove c’è riso, olio, zucchero, biscotti, scatole di tonno e di salsiccia, tutto rifornito da Uige nei diversi trasferimenti, rarissimi in questa stagione di piogge.
Ieri ho registrato una certa collaborazione del Cuamm con l’autorità amministrativa locale. Con un fuoristrada, che il governo ha consegnato a tutte le comunas, è venuto a far visita in ospedale l’administrator, una specie di delegato del sindaco per ciascuna circoscrizione comunale, informato della nostra presenza, due ingegneri ospiti presso il centro logistico, e interessato a risolvere alcuni problemi tecnici delle infrastrutture comunali. Un suo collaboratore, ieri pomeriggio, si è affrettato a portarci, per gratitudine, una cassa di birre e due scatole di vino portoghese, non eccellente.
Oltre alla scuola che visitammo il primo giorno, prevalentemente di primo livello per i più piccoli, ma anche qualche classe di secondo e terzo livello, ci sono qui a Damba altre due strutture scolastiche, una presso le suore l’altra presso i cappuccini, edifici di proprietà della chiesa, ma con amministrazione comunale e professori (nessun maestro, sono tutti “professori”) forniti dall’amministrazione di Damba. Dopo i tre livelli di scuola, che durano complessivamente otto anni, c’è l’ensino medio, un corso di studi che dura altri quattro anni e conduce all’università. L’insegnamento medio è a Uige e pare anche a Songo.
Nella strategia infinita del Cuamm c’è l’intenzione di estendere l’assistenza sanitaria per quanto possibile fuori del capoluogo di Uige, contribuendo così a riabilitare il reticolo di PHC (Primary Health Care) in tutta la provincia di Uige. Il progetto a lungo termine, partito a Uige e continuato a Songo e Negage, finanziato dall’Unione Europea, continuerà fino alla fine del 2004, tendendo a rinforzare ed allargare l’intero sistema provinciale di sanità, a potenziare i servizi di maternità e pediatria nel capoluogo e gli ospedali municipali di secondo livello in Negage e Songo. È il primo step verso il restauro di un normale sistema sanitario post-conflitto. Le proposte di operazione in Angola sono inoltrate all’ECHO, l’European Community Humanitarian Office: è in questo quadro che si inserisce il progetto Damba.
Ma la realtà quotidiana è ancora molto drammatica.
Stamattina, un bambino che abita in un villaggio vicino, mentre giocava in un campo nei dintorni, ad un centinaio di metri da qui, ha toccato involontariamente una mina, che è scoppiata squarciandogli la mano. In ospedale, Silvio gli ha estratto le numerose schegge dal corpo e gli ha ripulito la ferita della mano.
Ed anche il racconto degli avvenimenti degli anni scorsi fa spavento. Ci racconta suor Concetta, una delle quattro sorelle della Misericordia, un’italiana della provincia di Padova, che nel 1961, quando i guerriglieri iniziarono qui a Damba la guerra di liberazione antiportoghese, un sacerdote fu ucciso proprio davanti alla chiesa del centro. Lei ricorda gli anni della liberazione dai portoghesi, poichè è stata, coraggiosamente, insieme ad altre tre suore, nella missione dal 1970 al 1977, quando l’orfanotrofio ospitava e istruiva una quarantina di ragazze orfane, con una scuola molto attiva in quei tempi. Ha vissuto i giorni della liberazione del 1975 ma anche l’inizio delle ostilità della guerra civile, quando si aspettavano le elezioni democratiche, sempre rinviate.
Suor Concetta venne via da Damba nel 1977, per lavorare in altre missioni angolane, a Uige e a Luanda. L’ordine della Misericordia, però, continuò ad operare qui e solo nel 2001 decise di lasciare la missione perché i guerriglieri inferociti minacciavano le giovani suore. Insieme ad altre tre suore, lei è tornata nel maggio del 2003 e pian piano stanno aiutando la gente a tornare nella loro terra e riprendere ad avere fiducia.
Oggi è sabato e, alle dodici, vengono uomini e donne, che lavorano per il Cuamm all’ospedale ed al centro logistico, per riscuotere la paga settimanale, un incentivo che Gigio si è impegnato a corrispondere ad una diecina di loro. La fase del conteggio delle banconote, di pezzatura di 50 e 100 kuanzas è molto lenta e dura a lungo, finchè non firmano per ricevuta e se ne vanno con un pacco di moneta inflazionata.
Dopo pranzo e la solita pioggia pomeridiana, vado in giro per due passi nei dintorni, con Silvio. Passando per il campo sportivo, dove due squadre di giovani stanno giocando al calcio, e dopo una visita al bianco serbatoio municipale, un volume di almeno 80 metri cubi, pensile su massicci pilastri, andiamo in giro tra le baracche dei villaggi, in una delle quali c’è un “posto di salute”, dove improvvisati curatori, in ambienti bui e malsani, vendono medicinali e fingono di curare gli ingenui che sono alla ricerca di iniezioni come unico sicuro medicamento. Dunque, non era una semplice battuta quella usata da Silvio quando, ieri, mi ha detto di cliniche private: nell’Africa angolana esistono davvero e sono gestite da infermieri, che approfittano del dolore e della disperazione di gente ammalata.
Combattere le zanzare della malaria, isolarle, introdurre nel loro habitat quelle sane, bonificare le zone umide, curare la malattia: a quando l’inizio di un impegno serio da parte dell’umanità ricca e più fortunata? L’umanità responsabile di infiniti delitti, guerre, stermini compiuti contro i popoli africani!
Domingo, 28 dicembre, la partita di calcio al campo sportivo di Damba.
È l’ultimo giorno a Damba, domani si torna a Uige.
La missione cattolica ha organizzato, per il mattino, il “Natale dei giovani”, un’escursione a piedi fino ad una chiesetta di un villaggio vicino, dove si celebrerà la messa dei giovani. Nel pomeriggio, invece, nel campo di calcio qui vicino, ci sarà la tanto attesa partita di calcio tra le squadre del Cuamm e dell’Igreja Pentecostal. Sentirsi in campo.
Al mattino, prima di recarsi in ospedale per una rapida visita domenicale, Silvio mi parla dell’attività nel laboratorio di analisi allestito dal Cuamm, dove si sono specializzati nelle analisi diagnostiche della malaria, a partire dalla preparazione del vetrino con una goccia di sangue, che viene analizzata al microscopio. È davvero stupefacente che in pochi mesi siano riusciti a costruire un vero laboratorio ospedaliero, pur molto precario, dove riescono a rilevare la presenza di parassiti della malaria nel sangue degli ammalati e intervenire nel trattamento medico o correggerlo. Naturalmente è solo l’inizio, la cura e l’assistenza ospedaliera vera e propria sono altra cosa, fanno parte di altro ordine e scala di intervento. Ma è già tanto in una situazione in cui a prevalere sono ignoranza, credenze, tabù, mercato di false medicine, ricorso a furfanti e falsi curatori.
Alle nove, raggiungo Silvio in ospedale e con lui faccio un giro tra reparti e servizi vari. Nell’atrio della parte posteriore dell’ospedale, sotto un’improvvisata tettoia, la gran parte delle pazienti si cucinano da sé il pasto quotidiano su carboni, per terra e all’aperto. Donne e bambini stazionano davanti ai fornelli da campo, e si danno da fare a cucinare qualcosa in uno stato di degrado che fa spavento. In una grande pentola di almeno quaranta litri stanno cucinando una quantità mai vista prima di spaghetti, una massa collosa e per niente invitante di pasta scotta.
La suora che ci accompagna mi invita a porgere un saluto ad una giovane donna, felice di tornare a casa dopo le dimissioni: é guarita dalla tubercolosi e, per la sua convalescenza, la sorella le consegna un mucchio di pillole, senza confezione e direttamente nelle mani. “Bon dia”, “boa tarde”, “da licensia”: sono le formule di saluto, grato e riverente, che qui ti fanno “sentire in campo”.
È una giornata lenta e pigra, è domenica, e dunque la donna che ci aiuta in cucina oggi non lavora qui da noi. D’accordo con Vito e Sandro prepariamo un piatto occidentale, spaghetti alla crudaiola, con rucola, ravanelli ed altre verdure dell’orto di Gigio, con l’aggiunta di una specie di cipolla angolana, simile alle nostre lunghe e verdi, tagliuzzata finissima, oltre a fare a pezzi fini una salsiccia inscatolata e conservata in un improbabile olio.
Tanto per cambiare, anche oggi a pranzo un giovane viene a cercare Silvio, perché sua moglie ha abbondanti perdite, gravida a otto mesi. Tornando dall’ospedale, Silvio riferirà che è la posizione della placenta rispetto all’orifizio dell’utero a provocare un’emorragia che va seguita e bloccata perché potrebbe diventare pericolosa e indurre al cesareo. Tornerà più tardi in ospedale per prendere una decisione, ma certamente sarebbe da chiedersi come fanno ad effettuare un intervento chirurgico nelle condizioni in cui l’ospedale versa.
Ma l’orgoglio del Cuamm è nei progressi registrati in pochi mesi. Miracolosi sono i passi fatti ed è interessante giudicare l’intervento umanitario, visto dall’interno della sua evoluzione storica. Di sicuro nei mesi futuri - sostengono al Cuamm - l’intervento è da ristrutturare, occorre ripianificare gli obiettivi. Ma non si può sottovalutare che una piccola ong, dall’agosto del 1997 in Angola e nella sua provincia più difficile, abbia saputo mettere in campo una settantina di medici, infermieri, logisti, amministrativi e condividere il drammatico momento storico che il popolo angolano andava vivendo. Di fronte a situazioni davvero estreme, c’è voluto coraggio, iniziativa, entusiasmo e fiducia, pur con qualche improvvisazione, ad intraprendere l’azione partendo da Uige e dai settori di maternità e tisiologia.
La provincia di Uige è quella che ha sofferto di più, durante la guerra di liberazione dal colonialismo e le due guerre civili successive. Ma, particolarmente, nella terza, l’ultima, dal 1998 al 2002.
Gli accordi di Lusaka, alla fine del 1994, avrebbero dovuto segnare la fine della seconda guerra civile, che perdurava dal 1992. Ma la pace stentava a manifestarsi e l’ospedale di Uige versava in enormi difficoltà. Il personale infermieristico, che durante la guerra era fuggito via, stentava a rientrare e a rimettere in funzione i reparti ospedalieri. A funzionare era soltanto il reparto pediatrico, grazie soprattutto ad un progetto ECHO condotto da un’ong portoghese. Funzionava a suo modo, ma c’era. Era solo un inizio. Il Cuamm ebbe il coraggio di estendere gradatamente l’intervento anche al “blocco chirurgico”, rendendo possibili i parti cesarei.
Progressi a Uige, progressi a Damba. Ma qui, a Damba, ho conosciuto l’umiltà del sentirsi partecipi, non i progetti di cooperazione vissuti come contratti appaltati dal governo, non il comportarsi da straniero, non il rapporto meramente assistenziale con paesi trattati da poveri. Ho visto Gigio concordare, instancabile, alcune future iniziative con il responsabile municipale delle politiche giovanili e sportive, venuto a trovarlo, poco prima della partita di calcio programmata oggi al campo sportivo.
Alle tre, col fuoristrada del Cuamm, Gigio si è recato nei villaggi d’intorno a raccogliere tutti i componenti della sua squadra di calcio, che giungono festosi e con gran chiasso, per prepararsi alla partita. Non è solo l’allestimento di ospedali abbandonati o distrutti, non è soltanto l’impegno nella distribuzione di farmaci con attenta e giusta misura, c’è qualcosa di più nell’intervento del Cuamm ed è il sentirsi parte di un’umanità sfortunata, il condividere modi d’essere, vivere disagi, parlare lo stesso linguaggio, comprendere anche il loro dialetto, il kicong, l’unica forma di comunicazione di cui molti qui dispongono.
Furono condivisi anche i disagi ed i pericoli della guerra. Il Cuamm era in Angola quando furono riprese le ostilità nel 1998, che durarono altri quattro anni, fino alla morte di Savimbi e alla resa dell’UNITA.
In quegli anni l’ospedale di Uige era ospedale di frontiera, collegato solo per via aerea al resto del paese: il Cuamm non solo lavorò alla riabilitazione dell’ospedale di Uige, ma, con progetto affidato dall’ECHO, decise di aprire anche quello di Negage e ci riuscì, piccola ong com’è, là dove anche una grande organizzazione, la francese dei “Medici senza frontiera” poco aveva realizzato. Il piccolo Cuamm faceva progetti là dove, nel 1997, erano in cinque le grandi ong presenti.
Venne l’anno 2000 e l’intervento del Cuamm andò consolidandosi. Ma l’UNITA nel 2001, pur agli sgoccioli, entrò in forze a Uige il 26 giugno, nel più serio attacco ad una città durante l’ultima guerra angolana. Mentre si costruivano rifugi sotterranei per ripararsi dalle bombe, ed anche Enzo e Ottavia ne costruirono uno nella loro povera casa, si decise di riaprire anche l’ospedale a Songo, in piena zona di guerriglia tra le montagne. Oggi, da parte del Cuamm, c’è l’orgoglio d’avere resistito, d’avere ignorato l’ordine delle Nazioni Unite e dell’Ambasciata italiana di evacuare Uige. A parte suore e padri che non erano mai andati via, il Cuamm fu tra i primi a strutturare una residenza, un centro logistico, a restarci di notte, in piena guerra.
Nella primavera del 2002 si presentò finalmente l’occasione di ristabilire una pace duratura. Il governo s’impegnò a facilitare lo stabilirsi di tregue locali, per permettere ai combattenti, sfiniti, di deporre le armi. Decretò unilateralmente il cessate il fuoco, aprì la via a un dialogo tra le forze armate nazionali e i comandanti dell’UNITA che avevano combattuto a fianco di Savimbi fino alla sua fine.
Bisognava definire i mezzi per raggiungere una pace definitiva, nel quadro degli accordi di Lusaka. Da Luanda, l’UNITA legale di Manuva Kola lanciò appelli alla pace, affermando che la guerra non aveva più ragion d’essere e che la riconciliazione era possibile. Gli opposti richiami all’intransigenza e alla diffidenza lanciati dalla “missione dell’UNITA all’estero” non riuscirono a scoraggiare i partigiani di un accordo durevole di pace sul terreno. E l’accordo di riconciliazione dura ancora oggi.
A Songo, in un municipio fantasma, si riaprì nel 2002 l’ospedale, mentre si apriva anche la pediatria a Uige e si riportava il personale a Chiulo. A due mesi dalla morte di Savimbi e dalla fine della guerra, il municipio di Songo era depredato, il paese distrutto. E il 2003 è stato l’anno di Damba. Qui sono venuti quest’anno Gigio e Ottavia per primi, ad iniziare l’opera di ricostruzione. Poi ha continuato Silvio.
Per consolidare la pace occorreva tuttavia che venissero prese, dal governo e dalla comunità internazionale, misure eccezionali al fine di soccorrere soprattutto la popolazione dell’interno, quella degli altipiani e di Moxico in particolare, che nella lunga guerra aveva perduto tutto e la cui miseria aveva raggiunto livelli inimmaginabili.
Uige è provincia di ribelli. Qui il colonialismo portoghese è stato tra i più duri in Angola. In tutta la provincia, l’ambiente è tuttora malsano. Nell’ospedale di Uige si producono diverse tonnellate di feci che non vengono smaltite e la situazione resta critica. Tuttavia, lentamente è iniziata la bonifica della città e dei villaggi intorno, e la gente non usa ormai più pisciare per le strade della città.
Chi è venuto qui a lavorare con le organizzazioni umanitarie doveva saper convivere con germi, parassiti, scarafaggi, topi. Sono due generali che firmano il trattato di pace, i signori della guerra, ma poi la vera pace la costruiscono migliaia di persone semplici, i sopravvissuti, i reduci, i rifugiati che tornano.
E la partita di calcio, oggi alle quattro, tra la squadra del Cuamm e la squadra di una chiesa protestante, è l’attrazione della domenica. Accorrono almeno duecento persone ed è una bella soddisfazione: giovani, ma anche bambini e adulti, persino qualche giovane donna, e poi anche l’autorità municipale dello “sport e gioventù”, tutti presenti ad assistere ad una partita vivace e impegnativa, con giovani che corrono e intervengono decisi e duri, scalzi e con gran fiato, giocando anche con una buona tecnica. Finisce 2 a 1 per il Damba Cuamm, con il goal decisivo di Vito Pisani, epico e tempista. Finisce con una festosa invasione di campo.
È questa un’altra dimostrazione che si ha voglia di riprendere a vivere una vita normale e che è necessario aiutarli. Si vede che è gente coriacea, quella che vive nella provincia di Uige, che sono angolani di nessuna moina, a volte anche diffidenti, ma sempre rigorosi, anche fieri, di abitudini spartane. Non perdono mai la calma e tutto fanno lentamente, ‘malembe, malembe’, affrontano difficoltà, non si spaventano mai di fronte a compiti difficili, a volte anche sproporzionati rispetto ai mezzi di cui dispongono, fanno tutto con fatica e umiltà, con tempi lunghi.
Un vento fresco, oggi, ha impedito la pioggia quotidiana ed ha consentito la partita senza interruzioni né ritardi. Le nuvole minacciose sono passate senza precipitazioni. È una buona cosa per il nostro ritorno a Uige, domani. Speriamo che neppure stanotte piova.
Silvio, che non ha potuto assistere alla partita, torna dall’ospedale con una buona notizia. La posizione della placenta, davanti all’utero, ha rischiato di impedire la nascita del bambino e di far morire la giovane mamma, quasi una ragazzina. Si è reso necessario il cesareo ed ora bimbo e mamma stanno bene. Speriamo che superino vivi la notte.
Vado a dormire alle nove, con un cielo pieno di stelle e il primo quarto di luna. Nel lato di cielo non illuminato dalla luna, scorgo Orione, proprio allo zenit, sulla nostra testa. Chissà se riuscirò domani a scorgere da Uige la Croce del sud! Di sicuro, da domani, a Uige, mi mancheranno il canto delle cicale e il silenzio fitto della savana, in cui queste notti siamo rimasti immersi.
Segunda feira, 29 dicembre 2003, un giapponese durante il viaggio di ritorno a Uige.
Si torna a Uige, capoluogo di una vasta provincia composta di un certo numero di municipalità, come Uige stessa, Damba, Negage, Songo, che già conosco, e poi ancora Maquela do Zombo, Quimbele, Bungo, Quitexe, Macocola, Mucaba ed altri quattro o cinque municipi.
Sveglio già prima delle sei, mi preparo per la partenza. Di prima mattina, cominciano ad arrivare in ospedale, alla spicciolata, donne che portano sul capo vassoi pieni di vivande o di biancheria pulita. Sono le mamme dei piccoli ricoverati, o le pazienti stesse, giovani con il loro carico, il loro minuto bagaglio per il ricovero. Talvolta portano il bambino sulla schiena, avvolto in un panno colorato, stretto contro la spalla. Straziante, arriva dall’ospedale il pianto dei bambini, che ormai sovrasta il canto lontano dei galli.
Dopo avere accettato da Suor Nazarè, una sorella angolana della missione di Damba, del pane da lei stessa prodotto e due scatole di tonno per il viaggio, partiamo alle otto e trenta. Affrontiamo la strada per Uige con molti ospiti in macchina, compagni casuali di viaggio, che approfittano del raro passaggio fino ad uno dei tanti villaggi lungo la strada.
Ci accorgiamo subito che sarà una giornata molto calda, ma per fortuna asciutta: con la strada libera, sembrerebbe scampato il pericolo di un trasferimento difficile. Ma non mancheranno imprevisti nè disagi.
Attraversiamo l’enorme altopiano, a più di mille metri di quota, con leggeri saliscendi nella dolce morfologia dei versanti, che non renderebbero la pista difficile, se non fosse per i tratti pieni di fanghiglia e melma. Le condizioni della strada sono spaventose, un continuo flagello di solchi e buche, resistenti anche dopo qualche giorno dall’ultima pioggia.
Limo, sabbia e argilla sono le componenti principali di una pista, che attraversa l’interminabile e immensa savana africana. Arida vegetazione di isolati tronchi, basse graminacee, piante erbacee, è interrotta solo da rare oasi di alti alberi e arbusti. Qualche volta la savana lascia spazio alla tropical rainforest, vegetazione d’alto fusto, e sono manghi, banani, acacie ed eucalipti, ma non mancano i bambù, gli ananas, altre piante basse, anche le sisal, specie di agavi.
Quanto lontana è l’idea di proprietà, in queste terre! Sono state le diverse colonizzazioni a far diventare la terra oggetto di proprietà personale. La terra aveva un valore spirituale, il suolo era sacro, vi si seppellivano i morti, vi si coltivavano i prodotti agricoli. E le espropriazioni, iniziate con il colonialismo, proseguono oggi in modi diversi, trasformando la terra africana in un grande supermercato agricolo e minerario. Durante i viaggi di trasferimento, nelle passeggiate nei campi e nelle numerose visite, non ho visto muri, recinti. Ho solo visto uomini, donne, bambini, “servirsi” dei prodotti della terra di tutti.
Attraversiamo numerosi villaggi di capanne di legno e baracche di mattoni: una bandiera nazionale angolana è sempre all’ingresso di una qualunque regedoria.
Prendiamo il tè, ancora caldo nel termos, alle undici, dopo l’attraversamento del rio Zadi. Più tardi, un camion fermo per un guasto occupa quasi i tre quarti della strada, costringendoci ad un difficile attraversamento sulla piccola pista ancora disponibile. La macchina ondeggia e si sbilancia. Talvolta s’inclina spaventosamente nel vuoto, ma poi va.
Dopo una breve sosta, per pranzare con un panino al tonno, passiamo oltre Bungo, un grosso paese che si è sviluppato intorno a tre strade che l’attraversano parallele. In un villaggio dopo Bungo, facciamo salire a bordo un giovane giapponese di Tokio. Incredibile. È stato ospite degli abitanti del villaggio, dove si è rifugiato dopo che il camion, su cui era salito a Uige per un passaggio fino al confine con la Repubblica democratica del Congo, si è fermato per un’avaria. È un giovane pubblicitario, davvero un viaggiatore coraggioso, che da otto mesi sta attraversando l’Africa in lungo e in largo e ci chiede un passaggio di ritorno a Uige, avendo rinunciato ad oltrepassare il confine verso il Congo, dalla parte interna dell’Angola. Sembra un racconto fantastico.
Siamo ormai a 50 chilometri dall’arrivo quando, ormai sicuri di non correre più rischi, siamo costretti a fermarci perché un vecchio camion, stracarico di gente, si è impantanato in una buca e non ci lascia passare. Il posto peggiore in cui poteva impantanarsi! Dietro ci sono alcune macchine in attesa. Non ne usciremo per un po’. Dobbiamo aiutarlo a svincolarsi dalla buca piena d’acqua e fango. Tutti a mollo nel pantano, chi scava, chi piazza tavole di legno e rami troncati dagli alberi intorno, chi lancia grida di incoraggiamento. Finalmente il camion va e presto tocca a noi. Ma l’auto riaffonda. Le ruote del fuoristrada, a mollo nella fanghiglia, non riescono a far presa. Schizzi di fango. Poi, con enorme difficoltà, riusciamo anche noi a passare, dopo due ore di faticose operazioni di spalamento, zappatura e possenti spinte.
Superato l’ostacolo, siamo finalmente sulla strada asfaltata, ancora piena di buche, che rallentano soltanto, non impediscono il nostro passaggio, ormai prossimi a Uige. “Ad ogni giorno la sua pena”, mi viene da pensare. Non soltanto una frase con un contenuto morale, ma regola fondamentale di vita che qui rende anche felici, perché si oppone alle nostre nevrosi di pianificatori ad ogni costo, che vogliono tutto prevedere, controllare, anticipare. Solo così qui si superano le difficoltà d’ogni giorno, senza farsi sopraffare dalla paura, andando incontro a rischi, non temendo le incertezze del futuro. Solo così, si è capaci di rimanere quando tutti gli altri scappano, andare in zone di guerra ad aprire ospedali, privarsi di tutto quello che si ha per dedicarsi alla cura degli altri, non rinunciare alla vita per timore della morte.
Il giapponese si chiama Nori e il suo viaggio sembra davvero incredibile. Dal Cairo ha percorso l’Africa fino a Città del Capo ed ora vorrebbe risalire lungo la costa opposta per raggiungere di nuovo il Cairo e di qui prendere l’aereo per tornare a Tokio. Si decide di dargli ospitalità a Uige.
È quella stessa generosità che porta Ottavia ad adottare, in una casa non grande e già piena di figli, dei ragazzi angolani che attraversano situazioni difficili. C’è Benjamin, il piccolo che sua madre abbandonò morente all’ospedale ed oggi vive con grande vivacità e intelligenza, ma rubando; c’è Toni, un po’ più grande, quindicenne, che lavora e si dà da fare in più cose e lavori; c’è Lina, che fa da cuoca e si dedica alla pulizia della casa. Da Damba abbiamo portato con noi anche Zè, che in questi giorni vivrà in casa loro a Uige. Ed oggi ci sono quattro dei loro figli: c’è Francesca, flemmatica, diffidente, ma presente e attiva, insostituibile; c’è Daniele, fragile, incerto, sempre indeciso e sorridente; Gigio, generoso, pacato, pratico, efficiente; Sandro, intellettuale critico, gentile, determinato. Manca solo Carlo, che fa il regista e vive e studia in Europa.
In una casa così, dopo una giornata faticosa in ospedale, Ottavia ed Enzo hanno sempre la forza di sorridere, di organizzare una cenetta, di avere mille cose a cui dedicarsi, di non ripiegare mai su se stessi; sempre attivi e di poche parole, così come tutta la loro famiglia. Così anche la conversazione non è mai vana: stasera uno degli argomenti è come permettere ad Adelaide di superare il controllo francese, quando, giunta con noi da Luanda all’aeroporto De Gaulle di Parigi, dovrà, col passaporto ed il solo visto di soggiorno in Italia, recarsi in un altro aeroporto parigino, quello di Orly, e dunque attraversare l’intera Parigi. Sostengo la tesi che Adelaide abbia diritto a muoversi nel territorio della Comunità Europea, che è territorio senza frontiere interne, almeno per gli accordi di Shenghen. Non ne so di più, ma forse basterà.
Martedì, 30 dicembre, terca feira, le organizzazioni umanitarie al lavoro in tanti progetti umanitari.
È giorno di quarta dose di Larian, la compressa a base di meflochina, contro il rischio di malaria: dovrò prenderne ancora quattro, ogni martedì, anche dopo che sarò tornato in Italia.
Nell’orto-giardino di Ottavia ci si prepara all’uccisione del maiale, per l’occasione battezzato simpaticamente ma senza acrimonia ‘berlusca’: che cosa non si fa nella piccola casa generosa dei due medici molfettesi!
Alle nove, stamattina, si va al mercato delle stoffe, dove facciamo acquisti per i detenuti del carcere di Uige, che incontreremo domani, ultimo giorno dell’anno. Compriamo tele e tessuti dai bei colori vivaci angolani: ne compriamo anche da portare in Italia. Ma qui non possiamo indugiare in leggerezze turistiche, non c’è verso di abbandonarsi a inutili acquisti né possibilità di fare i turisti. Tutto deve essere molto parco e misurato, come il mangiare, il bere, il parlare, anche il sorridere. A casa di Enzo non c’è il frigorifero, non la televisione, tutto è essenziale, le esigenze ridotte al minimo. Ogni minuto, ogni nostra azione deve essere destinata, dedicata agli altri. Anche la telefonata che arriva tutti i giorni dall’Italia, per farmi sapere come sta mia madre, gravemente ammalata, può considerarsi un lusso. Come giudicare l’uso diffuso di cellulari e telefonini del nostro assurdo occidente?
Lungo la strada per il mercato, effettuiamo un cambio di valuta al nero: questa volta 88 kuenzas per dollaro, un record, ma anche un pacco voluminoso di banconote, in pezzi da 50 e 100, che riempie e colma lo zainetto di Vito Pisani.
Quella di Uige è struttura urbana tipica di una città incentrata sulla parte storica edificata, con edifici di muratura e di cemento armato, di epoca portoghese, prevalentemente ad un piano e solo raramente a più di uno. Sono molti i palazzi sventrati dalle granate e dall’incuria della guerra, oggi presi d’assalto e diventati provvisori luoghi di commercio di ogni cosa, edifici bui e ridotti al solo scheletro di pilastri e travi, con l’armatura del cemento scoperta e tornata a vista. Gli edifici di civile abitazione sono rarissimi al centro della città, dove invece sono stati risanati quelli pubblici, governativi, provinciali e municipali. Poi ci sono, anche belle ed in ottima posizione, le case in cui abitano i “potenti” della città, il comandante delle forze armate di Uige, il segretario provinciale dell’MPLA, il partito al governo.
Un grande striscione proprio in mezzo ad una delle strade del centro annuncia l’avvenuto congresso del partito in dicembre: lo slogan è “riconciliazione e sviluppo”.
Le uniche auto che circolano sono prevalentemente land cruiser e fuori strada delle ong, auto di servizio dell’ospedale provinciale, mezzi di spostamento e di lavoro delle autorità amministrative del posto. Qualche camion e rari mezzi commerciali percorrono le strade cittadine a grande velocità, costringendo la folla di pedoni a spostarsi bruscamente dalla strada e portarsi sui bordi impolverati. Per il resto è solo un continuo andare a piedi, folle di uomini e donne in movimento sin dalle prime ore del mattino, che percorrono chilometri in file disordinate, dai villaggi periferici fino al centro e viceversa.
La casa di Ottavia si trova ai bordi periferici del centro, proprio a due passi da un’ampia e comoda rotonda che controlla le due strade provenienti da Songo e da Negage. Accanto c’è la Igreja de Sao Francisco, in un locale piuttosto povero, senza alcun elemento architettonico, contiguo ad un seminario che ospita la scuola in cui i figli di Enzo hanno studiato; e poi di fronte, pensile e dominante sulla strada, la casa ricca del comandante delle forze armate, sempre illuminata e verde di un prato con bei lampioni, presidiata giorno e notte da una vigilanza armata; qualche altro edificio a un piano, sede delle tante ong presenti, e ancora l’escritorio del Cuamm, e là vicino anche la modesta casa in cui siamo ospiti. Più in periferia, invece, verso una zona commerciale e artigianale con chiari segni di ripresa delle attività, le sedi del Danish Refugee Council, dell’International Medical Corp, del World Food Program. Tutt’intorno al nucleo urbano centrale, in una distesa territoriale che sembra davvero infinita, numerosi e affollatissimi quartieri di povere baracche, rosse di mattoni cotti sul posto e direttamente messi in opera.
In macchina, nel pomeriggio, andiamo a conoscere il luogo in cui abitano i due missionari portoghesi, “padri passionisti”, una casa ben organizzata e confortevole, in un quartiere che loro hanno scherzosamente battezzato “il vaticano” per la concentrazione di sedi di missioni cattoliche e di luoghi di formazione cattolica.
Padre Manuel ci dice che, pur trovandosi lì da tre mesi, sono ancora in attesa di poter organizzare iniziative nella comunità giovanile di Uige, forse in ritardo perché non c’è ancora intesa con il vescovo di Uige. Stanno pensando ad un cineforum e qualche altra attività, ma per ora gli è stato proposto unicamente di insegnare religione cattolica nelle scuole della provincia.
L’altro padre, Cherubin, un cinquantenne attivo e in piena forma, che nel suo ordine religioso ha rivestito funzioni molto importanti in Portogallo, ha tutta l’aria di vivere da pensionato in attesa che qualcuno, al di sopra di lui, decida del suo futuro e sembrerebbe un turista, bene organizzato ma sul punto di partire per qualche altra destinazione.
Continuerò a non capire che ci fanno loro qui, i passionisti, mentre provo a conoscere un po’ meglio i compiti del PAM - la sigla italiana del World Food Program -, che distribuisce alimenti, in prima istanza agli ammalati di tubercolosi ricoverati in ospedale, e, poi, in seconda battuta ma sempre in ospedale, ai convalescenti che sono stati dimessi. È così che, una volta che è stata distribuita, può capitare di ritrovare questa merce in vendita nei mercati all’aperto che in questi giorni abbiamo frequentato: si tratta dei piccoli privilegi degli ammalati guariti, ma qui nessuno si permette di fare del moralismo, di fronte alla fame così diffusa.
Sulla via di ritorno al centro Cuamm, scorgo, in mezzo ad un disordine di macerie e di rifiuti d’ogni tipo, di case distrutte e semiabitate, una banca che ha aperto in perfetto ordine occidentale, luminosa di vetrate e di pulizia. È una delle due presenti in città. Per loro non c’è miseria. M’informo sul cambio ufficiale: 78 kuenzas per dollaro, dieci in meno rispetto al cambio effettuato stamattina per strada.
Torniamo a ‘rua du bembe’, il bel viale alberato di altissime palme, dove sono sia l’escritorio del Cuamm che la nostra casa. Sarebbe un bel luogo se, all’angolo della rua e proprio davanti alla nostra casa, non ci fosse un impluvio della strada che si allaga e s’impantana d’acqua e fango, con le piogge giornaliere, ed è usato anche per discarica di immondizia e rifiuti dai passanti. È luogo di topi, scarafaggi e zanzare.
Oggi dai rubinetti non abbiamo avuto affatto acqua, che dunque comincia a scarseggiare anche nei nostri bidoni di riserva. Siamo al terzo giorno di interruzione totale dell’erogazione idrica. Ci dicono che accade molto spesso e succederà ancora.
Nella conversazione che c’è stata dopo pranzo, con Enzo eccezionalmente rilassato, si parla del futuro dei figli, e in particolare di Sandro, un giovane ventunenne che studia a Londra in una prestigiosa scuola di economia specializzata in studi afro-orientali. È un giovane pieno di qualità umane e di strumenti intellettuali, che si sta chiedendo che cosa potrà fare nel suo futuro, in quale ambito potrà lavorare alla fine degli studi, dopo che ormai possiede una buona conoscenza delle lingue, l’inglese e il portoghese, e conosce abbastanza bene anche il ki swahili, il dialetto che va diffondendosi in molti paesi e aspira a diventare la lingua unitaria dell’intera Africa. Una delle lingue ”a diffusione di prossimità” che esistono al mondo, come è il cinese, l’arabo, il tedesco, il malese. Una lingua veicolare che ha già soppiantato l’inglese in Africa orientale.
Prima di sera, m’inoltro nel giardino della casa di Enzo, a curiosare e vedere come è fatto il piccolo e stretto bunker in cui tutta la famiglia si rifugiava durante i bombardamenti nella guerra.
Col tramonto, arrivano le zanzare, che per le loro abitudini notturne sono pericolose soprattutto di notte, fino all’alba. Per evitare le loro punture e la malaria, continuo ad avere cura nell’usare camicie chiare a maniche lunghe e pantaloni lunghi, quando posso, anche chiari e, sempre, portare i calzini ai piedi, mai nudi. Sulla cute esposta, sulle mani, sul viso e sulla testa rasata, continuo ad applicare repellenti, ripetendo anche ogni cinque-sei ore l’operazione, quando posso e se sono sudato. Dormo sotto la zanzariera bianca che dal soffitto scende sul mio letto, ma non uso diffusori di insetticida. Tuttavia so di non potermi sentire affatto al sicuro e ciò che in qualche modo mi fa sperare è la chemioprofilassi iniziata in Italia con la meflochina, soprattutto se avrò la costanza di continuarla fino a quattro settimane dopo il mio rientro.
A cena, i ragazzi discutono animatamente del “boda”, la veglia di fine anno che intendono tenere domani sera, invitando amici e conoscenti. Loro “sono in campo”, qui a Uige. Davvero radicati, Daniele, Francesca e Gigio hanno abbastanza amici e belle ragazze da animare la festa. Non è più così per Sandro, che è stato assente per tre anni dall’Angola.
Mercoledì, 31 dicembre, i preparativi del ‘boda’ di fine anno.
Tutta ieri, ed anche questa notte, abbiamo avuto la corrente elettrica cittadina. È segno che la ripresa sta avvenendo oppure è solo un regalo provvisorio dell’amministrazione municipale per la fine d’anno? Non so dirlo.
Qui non è garantita alcuna forma di comunicazione tra autorità amministrativa e cittadinanza, non ci sono giornali a Uige, né ne arrivano da Luanda. Ho visto, in casa dei passionisti, che ci sono due reti televisive, una delle quali trasmette solo calcio e robaccia inutile, ma non so dire se l’altra ha qualche funzione di informazione alla popolazione, essendo la casa di Enzo sfornita di televisione.
Figuriamoci, poi, se può esserci controinformazione!
Ieri, per il terzo giorno consecutivo, è mancata l’acqua e in bagno le scorte, pur non potabili, cominciano ad esaurirsi. Speriamo bene per oggi, ma ieri tutta la città era percorsa da lunghe teorie di donne con grandi vassoi sul capo, che andavano a rifornirsi da qualche parte, percorrendo chilometri fino ad un fiume, un canale, un pozzo, una sorgente. Per le strade lunghissime, rettilinee, in discesa fino ad un impluvio e poi in risalita verso il dosso successivo, schiacciate in prospettiva, a sali-scendi dal centro di Uige fino alle periferie lontane, si vedeva un’unica fila di donne che vanno e vengono, con gli abiti sempre puliti, pur costrette ad affrettarsi quando minaccia e arriva un acquazzone improvviso.
Questa è una zona del mondo della quale non sappiamo quasi nulla.
Dal limitato osservatorio di una provincia di confine, come è quella di Uige, non posso dire che ho colto una decisa ripresa dalla guerra, non posso averne una conoscenza precisa nelle poche settimane di soggiorno. Figuriamoci poi se si può avere un’idea precisa su quanto sta accadendo nel resto dell’Angola, un territorio vastissimo, grande quanto quattro volte l’Italia ed una stima verosimile di abitanti pari a dodici-quindici milioni. Dal mio ristretto angolo di osservazione, posso solo provare a mettere in discussione i luoghi comuni, senza sapere se ci riuscirò. Si percepisce che Uige è provincia difficile, quella che più ha sofferto per la guerra civile, avvenuta a più riprese. E speriamo che sia finita davvero. Non è possibile, mi chiedo, conoscere qualcosa del congresso dell’MPLA avvenuto a dicembre? Niente - chiedo ad Enzo - del messaggio di “conciliazione nazionale e sviluppo”?
Non è ancora tempo di fare bilanci. Ma ho appreso in questi giorni la complessa riconciliazione di un popolo diviso tra le parti in conflitto. Ho colto la difficile ricomposizione di un sistema amministrativo dissestato ed ho visto la lenta ricostruzione delle infrastrutture danneggiate. Ho compreso l’impossibile sminamento di un territorio vastissimo, ed osservato l’auspicato superamento del sospetto e della sfiducia che saranno pure innati nella popolazione ma sono stati amplificati dalla guerra civile. Ma soprattutto ho seguito la difficile riorganizzazione di un settore sanitario quasi totalmente distrutto e testimoniato il faticoso ripristino dei servizi sanitari essenziali. Aver conosciuto tutto questo sul campo potrà mai significare “viverci in mezzo”, come dice Enzo?
Conoscere è partecipare. Ma ci sono diversi livelli di conoscenza, forse tutti utili e da integrare. C’è il reportage, la documentazione fotografica, il viaggio, il trasferimento per strade impossibili, la visita all’ospedale, la conoscenza diretta delle persone, il vivere nel disagio della mancanza di luce, d’acqua e di alimenti, l’aver sete, l’aver fame, il sapere di rischiare la malaria, le altre malattie, quelle intestinali. Ci sono, ancora, la solidarietà a distanza, la partecipazione diretta, il contributo finanziario, la messa a disposizione delle proprie competenze per riattivare un acquedotto, sistemare un generatore di energia, potenziare un sistema informatico, mettere a posto una strada, regolare un fiume: sono tutte forme diverse di conoscenza. C’è anche il livello di conoscenza che è dato dalla partecipazione politica, dalla programmazione economica, dalla pianificazione delle risorse e del territorio, dalla capacità di governo dei processi reali, anche se c’è il rischio che diventino un alibi, forme comode di impegno, modi insinceri di contribuire, falsi sentimenti di collaborazione. Ma si corra pure un tale rischio, se serve a rimettere a posto le sorti di un paese sfortunato.
“L’Angola è un paese ricco di risorse minerarie ed agricole, e nel processo di ricostruzione dovrà difendersi dallo sfruttamento”, è quello che dicono al Cuamm. Anche di questo livello di conoscenza non si dovrebbe fare a meno, né si può sospettare che il Cuamm non abbia dato prova di “viverci in mezzo”. Semmai è più difficile stabilire come si possono condurre i tanti livelli diversi di conoscenza a smuovere le coscienze assopite e addormentate nella parte più fortunata del mondo.
Petrolio e minerali producono grandi flussi di denaro che però non vanno nelle casse degli stati ma arricchiscono élites corrotte. E l’Angola è uno di questi casi. L’Human Rights Watch ha calcolato che, negli anni dell’ultimo conflitto, tra il 1997 e il 2002, almeno 4.22 miliardi di dollari di reddito del petrolio non sono stati contabilizzati. Spariti dai conti pubblici. E questa cifra è spaventosamente simile a quella, pari a 4.27 miliardi di dollari, del totale della spesa sociale del paese nello stesso periodo, somma della spesa pubblica più quella di programmi pubblici e privati finanziati dalle Nazioni Unite o da altre organizzazioni internazionali. L’insieme della spesa per servizi sociali ed emergenze umanitarie! Se, poi, ha ragione la Global Witness, che è più pessimista, in quei cinque anni è scomparsa dai conti una cifra maggiore, 1.7 miliardi di dollari all’anno, un quarto dei proventi del petrolio. Sono i conti di un paese tra i più poveri del mondo!
Alle sette, stamattina, è tornata finalmente l’acqua per lavarci.
Dopo la doccia e la barba, provvediamo a riempire i bidoni del bagno, ormai vuoti. Per lavare i denti, qui non usiamo l’acqua corrente, ma quella che conserviamo in bottiglia, riempiendola ogni sera a casa di Enzo, dove arriva da una sorgente vicina, presumibilmente ma non sicuramente buona da bere. Tutto però è razionato, senza sprechi, anche riutilizzato per gli sciacquoni dei cessi: si può vivere anche con pochi litri d’acqua al giorno per persona. E forse si vive anche meglio, se si pensa alle conseguenze economiche e globali dello spreco di risorse, che è in atto nel resto del mondo.
Più tardi, prima delle dieci, suor Teresa, della missione delle Sorelle della Misericordia, che avevamo conosciuto prima della nostra partenza per Damba, ci conduce in land cruiser al carcere, per la visita ai detenuti, dove ci fa anche da interprete. Qui portiamo un piccolo dono della solidarietà molfettese, acquistato con i fondi raccolti dal gruppo di appoggio del Cuamm.
Siamo ricevuti dal direttore del carcere nel suo ufficio, essenziale, con una scrivania e due sole sedie, e il solito manifesto del presidente Dos Santos sorridente e rassicurante con le sue frasi del programma di riconciliazione e rinascita nazionale. Il direttore ci parla dei detenuti, che sono 163, colpevoli prevalentemente di furti ma anche di omicidi, tra cui pochissime sono le donne, meno di dieci, ma tanti sono i giovani, alcuni condannati a scontare una pena altri in attesa di giudizio. Non sembra che ci siano detenuti politici.
Con 150 tra guardie e inservienti è assicurata la sorveglianza, con le tre suore della Misericordia l’assistenza religiosa e psicologica, con Ottavia per un certo periodo l’assistenza medica direttamente in carcere, ora solo con trasferimento in ospedale per le cure mediche. Il direttore ci fa sapere che è nelle sue intenzioni di fare scuola in carcere, per aiutare i detenuti ad un inserimento successivo nella società e nel lavoro, ma ha bisogno di contributi finanziari per costruire un piccolo edificio e ci chiede il nostro aiuto. Ce la sentiamo di promettere che ci impegneremo a trovare aiuti finanziari in Italia, sulla base però di un progetto, la predisposizione di un piano che il direttore promette di darci prima della nostra partenza dall’Angola.
L’incontro con i detenuti avviene con un po’ di timore iniziale da parte nostra di non essere accettati, ma poi siamo accolti con disciplina e gratitudine, di sicuro senza fastidio. Consegniamo a ciascuno un libro di salmi in portoghese ed un ampio trancio di stoffa comprata al mercato, che essi accettano con evidente piacere e con riconoscenza. Prima di lasciarli, pronuncio un breve discorso, con l’aiuto della traduzione di Teresa, porgendo a tutti un saluto di augurio, di solidarietà e di giustizia e alla fine abbraccio uno di loro, proprio per sancire un legame forte con tutti quanti e per significare un’attesa per il loro ritorno alla vita normale. Commovente è il loro applauso.
Ieri Ornella, efficiente segretaria amministrativa del Cuamm, ci ha dato una buona notizia. Si è risolto finalmente un problema che loro avevano con il PAM e si è ripresa di conseguenza la collaborazione grazie all’arrivo degli alimenti che erano stati promessi e con ritardo sono giunti a destinazione. Desta preoccupazione l’idea che questa agenzia dell’ONU, tanto importante per far fronte alla grave crisi nutrizionale del paese, stia attraversando una possibile crisi.
Dunque, oggi, con l’aiuto di Ornella, posso fare un riepilogo della situazione, così come l’ho registrata qui in Angola.
Prima di tutto, il Cuamm è partner di ECHO, l’ufficio europeo per gli aiuti umanitari in Africa e in varie altre parti del mondo.
L’ECHO lavora con i partner operativi incaricati di realizzare in loco i progetti che sono finanziati dall’Unione Europea. Le ong che sono partner di ECHO hanno siglato un Contratto Quadro di Collaborazione (CCP) con la Commissione Europea. Sono 210 le ong umanitarie ad aver firmato il CCP e, tra queste, 33 sono le italiane.
Ma che cos’è l’ECHO?
Leggo da una brochure informativa che è un servizio della Commissione Europea, che dal 1992 soccorre milioni di vittime delle calamità naturali e delle crisi provocate dagli uomini. Oltre a fornire aiuti umanitari e il sostegno di stati membri dell’Unione Europea, finanzia progetti utilizzando i fondi a sua disposizione per fornire beni e servizi, cibo, indumenti, ripari, assistenza medica, approvvigionamento idrico, riparazioni urgenti. Finanzia anche le misure necessarie per preparare ai rischi di calamità nelle regioni più vulnerabili della terra.
Insieme a queste notizie generali, mi informo, per capirci di più, anche di alcuni progetti dell’ECHO.
Prima di tutto, quelli in atto qui, in Africa.
Attirano subito la mia curiosità professionale sia l’Associazione Internazionale di Volontari Laici (LVIA), che è impegnata nel Burundi, in un progetto di “riattivazione urgente delle infrastrutture idriche”, sia il Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione (CRIC), che in Eritrea è impegnato nel cosiddetto “accesso all’acqua corrente”. Spero non si tratti di grandi opere, utili solo per chi le realizza.
Poi, c’è la sanità. Ci sono diverse organizzazioni al lavoro, oltre al CUAMM, che in Angola è oggi impegnato nei progetti di “riapertura e sostegno ai servizi medici”. In Uganda, c’è l’Associazione Italiana per la Solidarietà tra i Popoli (AISPO), che lavora in un progetto di “assistenza ad un centro ospedaliero”; invece, nella Repubblica democratica del Congo, c’è la Cooperazione Internazionale (COOPI) che lavora a “migliorare l’accesso alle cure mediche”; e, in Algeria, c’è la TERRE DES HOMMES ITALIA che presta aiuto sanitario di “emergenza per la maternità”.
Infine apprendo che, in Sudan, l’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale (AVSI) sta realizzando il progetto di “aiuti alle vittime delle guerre civili”.
Ma l’ECHO ha anche progetti in altre parti del mondo, non solo in Africa.
Ad esempio, in Tadjikistan, la Cooperazione e Sviluppo (CESVI) è impegnata in un progetto per “l’acqua potabile”; nella Repubblica Popolare Cinese, in Tibet, l’Associazione di Solidarietà Internazionale in Asia (ASIA) fa “soccorso di emergenza alle vittime di condizioni climatiche estreme”; in India, la Croce Rossa Italiana (CRI) lavora al progetto di un “riparo per le vittime di catastrofi naturali”; nei Territori Palestinesi, il Gruppo di Volontariato Civile (GVC) fa la “lotta contro la penuria d’acqua”.
In Sri Lanka, il MOVIMONDO ha in corso un progetto di intervento di emergenza per il “sostegno alle attività agricole”, mentre in Yemen la Cooperazione Italiana Nord Sud (CINS) fa aiuti di emergenza alla “struttura sanitaria rurale”.
In campo medico, il Comitato di Coordinamento delle Organizzazioni per il Servizio Volontario (COSV), interviene in Serbia e Montenegro per “la riapertura di centri sanitari e l’accesso alle cure mediche”. Invece, la Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti (COSPE) interviene in Albania nell’aiuto per “l’educazione dei gruppi sociali più vulnerabili, donne e bambini,” e l’Organizzazione Umanitaria per l’Emergenza (INTERSOS) cura, nell’ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, un progetto di “aiuto alimentare”.
Infine, in Columbia, il Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli (CISP) opera nell’aiuto alle “vittime della guerra civile”.
Questo è solo un quadro parziale dell’intervento umanitario che è in atto, e non sembra poco, ma sembrerebbe che i finanziamenti di ECHO negli ultimi anni si stiano riducendo. Mentre nei primi anni sono cresciuti da 442 milioni di euro nel 1997 a 518 milioni nel 1998, raggiungendo il massimo di 813 milioni nel 1999, nel 2000 sono calati a 492, portandosi poi a 544 nel 2001 e a 538 nel 2002.
Mentre prendo queste informazioni, arriva immancabile nel pomeriggio la pioggia, annunciata dall’afa del mattino e dalle nuvole successive che dopo pranzo si addensano, accompagnate da fulmini e tuoni. Ricompaiono, come ogni volta, gli ampi ombrelli di fabbricazione cinese, colorati a spicchi vivaci, a coprire uomini e donne che si affrettano verso i loro ‘bairros’ e rientrano nelle proprie baracche. Rapidamente la pioggia supera la capacità di infiltrazione della terra e, in poco più di mezz’ora, le strade in terra battuta si trasformano in torrenti d’acqua. Ancora più rapidamente gli afflussi di pioggia superano la capacità di deflusso delle fognature pluviali ed anche le strade asfaltate si allagano fino a diventare canali e acquitrini. Tutti vanno ad alimentare, copiosissimi, i fiumi d’intorno alla città. Così accade tutti i giorni, inevitabilmente nella stagione piovosa. E l’aria alla fine si rinfresca un poco.
Costretto in casa dalla pioggia, posso riflettere: non mi pare che nel paese si stia portando avanti alcuna campagna di sensibilizzazione e di avvertimento sul tragico problema delle mine. Durante l’ultima fase dell’interminabile guerra civile, l’organizzazione mondiale “Human Right Watch” registrò la disseminazione di 15 milioni di mine in tutta l’Angola, un paese con una popolazione allora registrata di 10 milioni di persone e denunciò le continue violazioni degli accordi di Ottawa.
Non so neppure se si stia facendo qualcosa per impedire il traffico diamantifero. Sembra che il commercio di diamanti abbia fruttato all’UNITA tre o quattro miliardi di dollari. Si dice che la compagnia sudafricana De Beers, che controlla l’80% del mercato mondiale, acquistò anni fa gemme preziose dalle zone diamantifere in mano ai ribelli dell’UNITA.
C’è una storia inquietante che ricordo d’aver letto in un articolo di Guerra&pace di cinque anni fa. Negli anni ’50 il direttore della sudafricana De Beers, la più importante società di raccolta e commercio di diamanti nel mondo, sconfisse i suoi competitori in Sierra Leone arruolando Sir Percy Sillitoe, uno dei massimi agenti del controspionaggio britannico durante la seconda guerra mondiale. Fu lì che Sillitoe arruolò soldati e scatenò una guerra per i diamanti a tutto campo.
Ma, in Angola, nel traffico di diamanti erano coinvolti anche alti gradi dell’esercito governativo, che furono ostili ad una spartizione delle risorse del paese con i ribelli. Mi viene allora un dubbio: non sarà che l’impenetrabilità di certe aree del paese, come sono tuttora Uige e Damba, la pericolosità anche fisica dei trasferimenti verso quelle zone siano volute di proposito, e continueranno ad esserlo anche domani, finchè persisteranno l’estrazione, il controllo e il commercio illegali di diamanti? Che cosa sta accadendo oggi, realmente, in quelle zone che ho conosciuto, in cui ho visto che è così difficile arrivare?
E, poi, c’è il petrolio. Enormi investimenti vengono impiegati nella costruzione di nuovi pozzi petroliferi, i cui proventi si sospetta che vengano spesi in buona parte in armamenti bellici. Occorrerebbe sapere di più delle armi e delle risorse finanziarie che vengono impegnate e consumate. Che cosa succederà, nei prossimi anni, di Cabinda, l’enclave angolana, protettorato portoghese fino al 1975, che ha un territorio ricchissimo di petrolio, sulla costa? Con la sua stessa posizione geografica, Cabinda interrompe la continuità fisica e territoriale dell’Angola, incuneata com’è tra il Congo con capitale Brazzaville e la Repubblica Democratica do Congo con capitale Kinshasa. Due capitali sulle due sponde opposte del fiume Congo!
Lo scenario nel mondo è davvero inquietante: nuovi eserciti privati si aggiungono alle vecchie presenze coloniali. Ex ufficiali dei corpi d’élite, baroni dello sfruttamento minerario, multinazionali del petrolio uniscono i loro interessi nel controllo delle risorse dell’Africa. In giro per il mondo, sono uomini che prendono parte a un crescente numero di operazioni di sicurezza, un esercito privato che chiamano security, in collaborazione con ufficiali di servizi segreti di svariati paesi, eserciti regolari e veterani degli squadroni della morte. Grazie ad una scellerata alleanza, combattono per i nuovi padroni, le industrie minerarie e petrolifere, dalle più grandi multinazionali alle piccole società. In molte parti del mondo sono presenti eserciti stranieri in “outsourcing”, supporto all’intelligence, aiuto tecnico-militare, uomini che hanno trovato, con la guerra, un buon lavoro: fare il mercenario. Sono “eserciti a noleggio”, non solamente macchine militari: dietro di loro resiste la vecchia struttura coloniale, travestita da società multinazionale, con doppiopetto e telefoni satellitari. Chi voleva meno stato e più mercato, è servito: oggi, ad esempio nella guerra all’Iraq, sono impegnate nella security la Blackwater Security Consulting, la Vinnel che fa parte della Northrop Grumman Company, la Military Professional Resources Increment. Non ne so di più, ma bastano i nomi delle compagnie, a far paura.
Prima di sera, l’aria fresca invita ad una passeggiata e, con Vito Pisani, mi reco al centro della città, dove si respira aria di attesa per l’anno nuovo e di preparativi per festeggiarlo, finalmente senza guerre dopo mezzo secolo. C’è grande fermento in alcuni bar, ricavati in locali semidistrutti, da cui esce una piacevole musica angolana, molto ritmata. Posti in cui si prepara la festa di mezzanotte. Un salone da barbiere pieno di uomini, qualche negozio aperto, in edifici sventrati e bui, in cui si vendono articoli per la festa. Affisse al muro, alcune locandine, stampate al computer, annunciano il “reveillon”. Musica e canzonette arrivano fin nella strada: tutto è una preparazione alla festa.
Passiamo anche davanti all’ospedale militare di Uige, una bella struttura edilizia, piuttosto piccola per essere un ospedale. Ed infatti è solo un luogo di cure leggere, con tre o quattro stanze, il lavoro di tre medici, militari russi, mentre gli interventi seri sono rinviati all’ospedale provinciale, quello in cui lavorano Enzo e Ottavia.
Appeso ad un balcone del centro, c’è uno striscione che indica la sede della confederazione di due piccoli partiti: il Movimento per la difesa degli interessi dell’Angola (MDIA) e il Partito di Coscienza Nazionale (PCN).
Alcuni passanti ci salutano, per cortesia, “boa noite”, ed io rispondo, ma poi mi accorgo che un uomo alla guida di un’auto privata mi fa strani cenni con le mani. Mi sta chiedendo, un po’ furtivamente, di avvicinarmi, e poi lo fa anche più vistosamente, con il clacson. Anche Vito Pisani se ne accorge ma, con tacito accordo, facciamo finta di ignorarlo. Fallito l’ennesimo tentativo di attrarre la nostra attenzione, dopo aver girato più volte intorno ad un isolato per presentarsi davanti a noi, il giovanotto si decide a scendere dalla macchina e ci viene incontro, furente, per chiederci i documenti. Dice di essere un dipendente dell’Ufficio di Emigrazione, DEFA, e analizza minaccioso i nostri passaporti, per controllare che il visto di entrata in Angola e il permesso di soggiorno siano a posto, ma non si accontenta e ci chiede di dimostrare che siamo andati tutti i giorni a notificare al DEFA la nostra presenza nella città di Uige. Inizia così un’animata discussione nel nostro povero linguaggio portoghese, in cui cerchiamo di spiegare che questa notifica viene eseguita direttamente dai responsabili del Cuamm. Ma non abbiamo fortuna, finchè non ci salva dall’impiccio il motorista del Cuamm, che ci riconosce passando per caso da quelle parti e, pur respinto dal presunto agente, interviene efficacemente svelando la nostra identità di collaboratori di solidarietà, ma soprattutto vanificando quello che è stato un tentativo di estorcerci quattrini, il prezzo per essere lasciati in pace. Stento a credere che sia stato veramente un agente che controllava zelantemente le presenze di forestieri in Uige e non credo proprio che abbia potuto confonderci con rifugiati zairesi venuti per qualche attività illegale o giunti per comprare diamanti.
È incredibile come, nello stesso giorno in cui siamo stati accolti e applauditi per avere portato un piccolo dono della solidarietà molfettese ai detenuti in carcere, con manifestazioni di gratitudine ed ufficialità da parte dell’autorità carceraria, ci possa anche capitare di essere fermati da un imbecille, falso agente o poliziotto zelante, che non ha nulla di meglio da fare che controllare i passaporti a due ignari e innocui stranieri.
Anche questo è un segno del disordine che regna in Uige, della provvisorietà nel tenere sotto controllo la situazione da parte dell’autorità amministrativa e di polizia.
Tornati a casa, facciamo una cena veloce e informale, senza apparecchiar tavola, per non ostacolare i preparativi dei giovani di casa per il reveillon di fine anno. Mi trattengo con Ottavia a sapere di più di “cliniche private”, come quelle che ho visto a Damba. Parliamo di curanderos, diffusi non solo a Damba ma anche a Uige, di farmaci biologici che sono venduti ai mercati all’aperto sui banchi di erboristeria, e poi di pericolose pratiche demoniache, di esorcismi molto frequenti, la cui diffusione anche i valutatori di Bruxelles hanno raccomandato di non sottovalutare.
Venendo invece alla malaria, ci informiamo da Enzo sul che fare se la profilassi di Larian dovesse rivelarsi inefficace e dovessero insorgere febbri non giustificate da altri malesseri influenzali. Approfittando della sua rara competenza professionale, prendo appunti sulla difficile terapia, da seguire per cinque giorni. Dopo, occorrerà preoccuparsi seriamente, se la febbre dovesse persistere, nonostante la terapia.
E, con queste note allegre, me ne vado a dormire, nel mio rifugio sotto la zanzariera, dopo aver spalmato la mia dose di autan sulle parti scoperte del corpo durante la notte. Ma, stanotte, non si dorme. Fuori c’è gran baldoria, una musica assordante che viene dalle strade vicine, vocii e grida di festa: è il primo vero capodanno fuori della guerra, dal momento che l’anno scorso la gente era ancora incredula sulla fine vera delle ostilità. E speriamo che sia finita davvero.
Poi, all’alba, con la musica che si allontana non più assordante, prende il sopravvento il canto del gallo e, subito dopo, il solito picchettio di un uccello, forte e insistente, proprio sotto la mia finestra. E sono ancora sveglio a pensare a quanto sciagurato sia stato Savimbi, quando, sconfitto alle elezioni del 1991, preferì la via della guerriglia interna piuttosto che la lotta parlamentare. Se non avesse scelto la via della violenza armata, di sicuro avrebbe evitato tanto dolore e tante morti, e forse oggi, a più di settant’anni di età, sarebbe al governo, anche capace di evitare gli errori che l’attuale presidente commette nella ricostruzione post-bellica.
Ma si possono tacere le responsabilità dell’ONU?
Vediamo. In quei tempi Butros Ghali ufficialmente perseguiva una linea politica di equidistanza dalle forze in conflitto, ma di fatto sosteneva le pretese dei ribelli dell’UNITA, giungendo alla fine del 1992 persino a minacciare il governo di Luanda di ritirare gli osservatori dell’ONU dall’Angola, se il presidente Dos Santos non avesse accettato una soluzione negoziata con Savimbi, anche indipendentemente dall’esito delle elezioni.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una risoluzione aveva convalidato già in ottobre le elezioni di settembre 1991, ma il segretario generale si mostrava più sensibile alle esigenze strategiche del nuovo ordine mondiale, non riconoscendo lo stato di diritto in Angola. Eppure qui il 21% dei membri del governo eletto apparteneva a partiti diversi dall’MPLA. Un partito, questo, che, oltre alla notevole supremazia militare sulle truppe di Savimbi, poteva contare sulla vasta mobilitazione popolare e sul radicamento tra le popolazioni del paese.
Mentre il governo centrale di Luanda, con tutti i suoi limiti, teneva a rispettare gli accordi preelettorali di pace del maggio 1991, gli strateghi del nuovo ordine mondiale non sembravano preoccupati dalla prospettiva della guerra senza fine, convinti com’erano che la guerra civile in Angola dovesse continuare fino a raggiungere una spartizione del paese che assicurasse al Sudafrica ed agli USA il controllo delle regioni diamantifere, allora occupate dall’UNITA.
Di sicuro, l’ONU ebbe non poche responsabilità nell’assecondare il disegno imperialista, in quegli anni.
Giovedì, 1° gennaio 2004, quinta feira, la visita all’ospedale.
Ieri c’è stata la grande abbuffata di carne di maiale. Oggi, al terzo giorno dall’uccisione, non è rimasto molto della sua carne, davvero saporita. Impossibile da conservare al caldo equatoriale, lo si è consumato tutto in piena estate. Esagerati o affamati?
A parte quello servito al boda di fine anno e quello consegnato ai gruppi Cuamm presenti a Songo, Negage e al centro logistico di Uige, ieri a casa di Enzo abbiamo pranzato e poi cenato con il suo arrosto, fino alla nausea. Davvero non avevo mai visto prima sessanta chili di maiale fatto fuori quasi in due giorni. Non c’è l’abitudine di conservarlo in forme di prosciutti o di soppressate, ci vorrebbero i luoghi adatti e i metodi giusti. E allora ne mangiamo tutti in grande quantità, senza indugiare in false norme igieniche, alla solita maniera, un po’ grossolana e selvaggia, ma sempre autentica.
Qui prevale la filosofia della contaminazione, la necessità del “viverci in mezzo” senza differenze né privilegi, la prassi del condividere e assorbire abitudini e disagi della gente che ti circonda, quasi una religione di vita autentica, immediata, anche un po’ francescana.
La relazione e le tavole del progetto per l’integrazione idrica a Damba hanno convinto Enzo e il Cuamm di Padova: il finanziamento di 85 mila dollari sarà sicuro al 100%. In questi ultimi giorni basterà qualche leggera precisazione tecnico-economica nella relazione progettuale, che è piaciuta molto, e il lavoro sarà completo, pronto per la realizzazione a partire da marzo-aprile 2004, quando inizierà la stagione secca.
Forse questa sarà l’ultima occasione di finanziamento del CCP, cioè il Contratto Quadro di Collaborazione di ECHO, ma è anche vero che tutti ci auguriamo che la guerra sia davvero finita e che vengano meno anche i presupposti dell’intervento umanitario, tipico di una zona di conflitto militare. Questa è l’osservazione che fa Enzo, ma io ribatto che qui in Angola ci sarebbe ancora da intervenire molto, con semplici realizzazioni di opere che garantiscano alla popolazione il diritto all’acqua ed alla sicurezza dalle calamità naturali. Si vedrà.
Alle otto del mattino, dopo il caffè arabo, preso senza zucchero per non turbarne la bontà, ci rechiamo con Ottavia in visita ufficiale all’ospedale di Uige. Nel reparto di tisiologia, offriamo un piccolo dono ai ricoverati, un vassoio e un panno dagli sgargianti colori angolani, a manifestare la nostra solidarietà molfettese, oltre ad un piatto di carne e un pezzo di pane, un lusso consentito solo in occasione delle maggiori feste dell’anno. Proprio davanti al reparto di tisiologia pediatrica, tutto viene accolto con gratitudine e sorriso, consegnato dalle mani di una suora della Misericordia, una veronese che da trentatré anni è in Angola.
Per capire le limitazioni alimentari ad ammalati a cui la carne viene garantita solo nelle grandi occasioni, chiedo di visitare il magazzino, deposito degli alimenti, e qui la suora ci mostra le riserve che vengono distribuite ai tubercolotici dal PAM, il world food program, che è agenzia dell’ONU. Scopro che ci sono sacchi di riso, provenienti dall’Algeria, ma anche legumi poveri, le cosiddette “lentine”, scarti di polenta, olio scadente, persino sacchi di “papa”, una specie di farina, inacidita. Raramente arrivano dal governo pasta e latte.
È vergognoso che dalle Nazioni Unite vengano distribuiti alimenti così poveri, sembrerebbe più per risolvere i problemi di sovrapproduzione dei paesi ricchi che per aiutare davvero i paesi in situazioni di carestia e i popoli in preda a gravi malattie. Qui non c’entrano solo i signori della guerra. Ci sono anche le responsabilità di istituzioni e stati, e dei poteri che le muovono e le sorreggono. Il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale di Sanità, gli attori, oggi, della globalizzazione economica.
Nel mondo, il commercio internazionale è oggi dominato da tre blocchi regionali: l’Unione Europea, i paesi firmatari dell’Accordo per il Libero Scambio dell’America del Nord – Nafta – e i paesi dell’Asia Orientale. Di fronte alla loro potenza politica, economica, monetaria, cosa possono i paesi del Sadc, la Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe, di cui l’Angola fa parte? L’estensione della liberalizzazione negli scambi commerciali nasce dai cosiddetti meccanismi “spontanei” del mercato, oppure da misure di natura politica assunte su iniziativa di istituzioni internazionali con il sostegno di quanti, tra governi e gruppi privati, ne traggono i maggiori vantaggi?
Con Ottavia, in una parentesi del suo lavoro, visitiamo anche gli altri reparti ospedalieri. Quello di “malnutrizione”, costruito quattro anni fa circa da Medici Senza Frontiere. Il “banco d’urgenza di pediatria”, dove Ottavia, che è specializzata in anestesia, apprende con gioia che stanotte nessun bambino è morto. La “maternità”, dove attraverso una porta socchiusa vedo Enzo alle prese con un difficile parto. Tutto è in condizioni di sovraffollamento e di servizi davvero penose.
Ma, sulle magliette bianche del Cuamm, indossate dagli infermieri dell’ospedale è scritto che “o essencial è invisivel”.
L’essenziale è invisibile agli occhi?
Dall’ospedale ritorniamo a piedi, percorrendo la strada delle banche degli anni passati, una serie di edifici distrutti dalle bombe, sventrati, con pilastri mozzati alla base, sospesi, con l’armatura metallica del cemento armato in vista. Ma qui è anche la banca del Fomento, una delle due banche esistenti in Uige, ricostruita in un edificio dalle ampie vetrate.
Gli edifici distrutti ed abbandonati, e tuttavia ancora in piedi, mostrano che, prima che iniziasse il lungo conflitto, c’era in Uige una certa vita urbana che mi pare di poter paragonare almeno a certe situazioni in cui versavano i nostri paesi del mezzogiorno, intorno agli anni sessanta.
In un edificio del centro c’è la sede del PRD, il partito democratico di rinnovamento, di Uige, uno dei tanti partitini esistenti in Angola. Mi informo e scopro che a Cabinda c’è anche il FLEC, che è il fronte di liberazione dell’enclave di Cabinda, dove fino al settembre 2003 persistevano ancora tanti focolai di tensione, anche se sembra che negli ultimi mesi la situazione si sia calmata.
C’è poi l’ex movimento guerrigliero dell’UNITA, oggi un partito che ha chiesto perdono al popolo angolano per le sofferenze procurate durante la guerra civile, ma ha manifestato la propria preoccupazione perchè le elezioni non si tengono dal 1992, elezioni fondamentali per voltar pagina nella transizione auspicata da tutti. E non sembra che si terranno prima del 2005. Questa preoccupazione è condivisa dal PDA, il partito democratico di Angola.
Ma, per avere una vera svolta occorre cominciare a ripristinare alcune condizioni e a por mano ad una serie di problemi. Provo a farne un elenco, per quel che ho visto e appreso. Per questo, provo a reinterpretare alcune considerazioni apparse in un articolo recente su “Nigrizia” del novembre 2003 e a guardarle con i miei occhi.
Per cominciare, una cosa mi sembra certa ed è che le libertà fondamentali non sembra siano oggi garantite agli angolani su tutto il territorio nazionale. E allora, ad un’opposizione che appare tuttora intimidita deve essere riconosciuto il diritto ad esprimersi. Contemporaneamente, il disarmo della popolazione deve essere attuato fino in fondo, anche per le milizie della difesa civile, che sono tutte dell’MPLA, il partito che è al governo.
Poi c’è da chiedersi quanto debba tardare ancora il reinserimento nella vita civile non solo per gli ex-guerriglieri dell’UNITA – pare siano ancora 100 mila -, ma anche per i 33 mila ex soldati dell’esercito angolano e per tutti i 400 mila familiari. Non può evitarsi il ritorno alla vita civile di tanti combattenti, sfiniti, a cui si permise nel 2002 di deporre le armi e di raggiungere le migliaia di altri ufficiali e soldati che li avevano preceduti nell’accettare la tregua e che erano stati già integrati nei ranghi dell’esercito nazionale.
Poiché le elezioni non sono più rinviabili, il governo deve decidersi ad effettuare il censimento degli elettori, a dare una carta d’identità a milioni di cittadini tuttora sprovvisti, a stanziare fondi per mettere in campo i seggi elettorali e tutta l’organizzazione elettorale, forse attuando anche una modifica della legge elettorale in senso garantista e muovendo verso l’adozione di una nuova Carta Costituzionale.
Poi, se è vera la stima di 15 milioni di mine disperse in tutto il territorio, occorre dare la priorità allo sminamento di strade e ponti, rendere accessibili tutte le strade di collegamento tra le varie parti del territorio nazionale, riprendere la manutenzione della rete ferroviaria, ferma nella gran parte al 1975, anno dell’indipendenza. È questa una condizione necessaria perché non ci siano territori chiusi alla civiltà, terre di nessuno, paradisi della criminalità organizzata e della complicità delle grandi imprese internazionali.
Ciò che, però, rappresenta la massima preoccupazione è la gestione poco trasparente delle risorse petrolifere, dal momento che nel 2001 sono spariti miliardi di dollari dai conti dello stato, perduti tra la Sonangol, che è la società petrolifera statale senza controllo interno, la BNA, la banca nazionale di Angola che adotta pratiche sospette di corruzione, e il Palazzo presidenziale. Oltre al governo angolano, anche le compagnie petrolifere americane sono refrattarie a pubblicare i conti.
E occorre anche sottrarre qualunque credenziale istituzionale ai mercanti d’armi. Come non preoccuparsi davanti alla notizia che uno di questi, Pierre Falcone, sospettato di commercio illecito di armi, abuso di fiducia e frode fiscale, sia stato sottratto alla giustizia francese e, dal presidente Jose Eduardo Dos Santos, sia stato nominato ministro plenipotenziario all’Unesco e, dunque, protetto da immunità parlamentare?
Spero di sbagliarmi, ma non sono cose confortanti per il futuro di pace in Angola. Sottrarre fondi alle casse dello stato significa stornare soldi da infrastrutture pubbliche, acqua potabile, scuole, ospedali. E significa corruzione e grossi conti bancari all’estero.
In un clima di sospetto di corruzione, non sarà facile preparare a Bruxelles l’annunciata “Conferenza internazionale dei finanziatori per la ricostruzione e le elezioni”. E ci sono sospetti a carico di Falcone, per un presunto conto aperto presso la Banca Internazionale del Lussemburgo, così come a carico dell’ambasciatore itinerante Elisio de Figueindo, del ministro dell’industria Joaquim David e del segretario del consiglio dei ministri Josè Leitao.
Forse è per questo che la sanità pubblica non è qui priorità nazionale, caratterizzata com’è e come ho potuto vedere con i miei occhi, da una straordinaria disorganicità. Per giunta l’élite locale scarica il problema sulle organizzazioni internazionali, sulle cooperazioni bilaterali, sulle organizzazioni non governative, oppure persino sulle istituzioni caritatevoli o confessionali.
Ovviamente, poichè la situazione sociale non è delle migliori, c’è anche una certa ripresa del conflitto sociale, che non è affrontato nel quadro di una sana contrattazione sindacale e neppure nel rispetto di corrette relazioni industriali. Recentemente, gli infermieri di Luanda hanno scioperato per sostenere la lotta per la regolarizzazione di tremila colleghi che lavorano da tre anni senza paga negli ospedali della capitale.
Ma oggi, capodanno, è giornata di pace e di speranza. Alle 10, nella vicina chiesa di San Francesco, gremita di gente vestita a festa, la messa è celebrata dal vescovo di Uige, un uomo coraggioso, il cui ruolo è stato fondamentale per raggiungere la tregua nell’ultimo conflitto civile.
Davanti ad un’immagine a colori di “Gesù, principe della pace”, si celebra con canti e percussioni una messa gioiosa e molto partecipata. Durante il rito delle offerte, mi colpisce la totale partecipazione dei fedeli che lasciano i banchi per mettersi in fila a versare qualche soldo in un cesto proprio davanti all’altare. I banchi si svuotano letteralmente, lasciando seduti solo i bimbi più piccoli. Alla fine della messa il vescovo saluta, con manifesta riconoscenza, le autorità militari che riempiono, in divisa, le prime file dei banchi. Saluta con una stretta di mano coloro che hanno contribuito a raggiungere la pace tra le due parti in conflitto, oggi significativamente uniti per il primo giorno dell’anno.
Ottavia dirà poi che il vescovo, un “giovane” di settantanni che diffonde intorno una fiducia comunicativa, è stato candidato a diventare cardinale, ma ha preferito rimanere nelle sue funzioni pastorali, distinguendosi per la tenacia con cui ha costruito ad esempio una casa per giovani colpiti da “feitisò”, giovani su cui si riversa il male liberato dal corpo di altri ammalati e trasferito con effetti gravissimi, secondo una pratica demoniaca esercitata da guaritori ed esorcisti.
Enzo è instancabile ed oggi, a capodanno, dopo aver trascorso ventiquattro ore di seguito in ospedale, si offre a ricondurre a casa il corpo di una malata terminale, ormai prossima a morire. All’arrivo in auto del corpo della donna ormai deceduta, tutta la gente del bairro popolare si è riversata per strada per partecipare al dolore, con urla strazianti e rotolamenti disperati per terra, ad annunciare la perdita.
Durante il pranzo si discute di Savimbi e della sua morte, avvenuta il 22 febbraio 2002. Dalle mie letture su Guerra&pace (N. 1 e 6 del 1993, N. 54 del 1998 e N. 89/90 del 2002), sapevo di Savimbi come l’uomo di tutte le situazioni, abile opportunista che non ha mai perso di vista il proprio scopo primario, il potere assoluto.
Aveva fatto parte prima dell’FNLA, installato nel Nord, inseminando nelle popolazioni kikongo, riserva privilegiata di quel partito, odio e ostilità e soprattutto discriminazione verso i lavoratori umbundo. Dopo aver creato l’UNITA, fu alleato dei portoghesi colonialisti, e, durante la transizione verso l’indipendenza, non esitò ad appellarsi ai piccoli coloni bianchi sul tema dell’anticomunismo, nonostante tenesse pubblicamente discorsi razzisti incendiari anti-bianchi. Ciò non gli impedì affatto di cercare e di trovare un’alleanza con l’esercito del Sudafrica, il paese dell’apartheid, e di mostrare la propria amicizia con i più ferventi adepti delle teorie razziste. Civili sottoposti a continue violenze, uomini e donne imbrigliati nell’UNITA, raccontarono le loro sofferenze, gli stupri, la sottomissione assoluta alla quale venivano costretti, spesso sotto minaccia di morte, per loro e i loro parenti. Savimbi si accaniva contro i suoi potenziali rivali, contro i suoi militanti più brillanti. L’eroe della guerra fredda era in realtà un tiranno d’altri tempi. Chi poteva piangerlo?
Qui si è convinti che ad ucciderlo siano stati gli stessi americani, liberatisi così di un alleato scomodo, e che sia stato in seguito ad una segnalazione degli americani che fu organizzata l’imboscata in cui perse la vita. Ad ucciderlo sembra sia stato Carlos Wala, uno degli umbundo, di cui era in gran parte composto l’esercito angolano. L’hanno ucciso le informazioni dei servizi segreti occidentali, dopo averlo usato.
Oggi al governo, ancora appoggiato dagli Stati Uniti, è un presidente che non può dirsi al di sopra di ogni sospetto, di sicuro inaffidabile quando promette elezioni che dal 1992 non fa, e intanto aumenta il suo controllo sull’opposizione, anche con l’organizzazione dei servizi segreti. Qui si è convinti che esiste una rete fittissima di informatori e agenti segreti che controllano tutte le pieghe della vita civile e politica. Anche all’interno dell’ospedale di Uige, i lavoratori si sentono braccati e controllati da agenti camuffati, che formalmente svolgono un lavoro pubblico, ad esempio dentro la stessa equipe infermieristica.
Venerdì, 2 gennaio, sexta feira, quale futuro spetta all’Angola?
Svegliato poco dopo le quattro dal canto del gallo, aspetto a letto l’alba, che arriverà subito dopo le cinque, come ogni mattina, come tutti i giorni dell’anno. Sotto la tenda antizanzariera, alla luce incerta della torcia elettrica, scrivo. È tempo di bilanci.
Ieri Enzo ha simulato una “riunione di famiglia” per discutere di prospettive. Sembrerebbe che avverta che, dopo sette anni, la missione a Uige, e in Angola, stia finendo, e che da “medico missionario con l’Africa” sia arrivato il momento di trasferirsi altrove, in altri scenari dove è carente l’assistenza medica per causa di guerre e conflitti. Trasferirsi per continuare l’aiuto umanitario. Sempre senza divisa né fucile. Un aiuto non discriminatorio. Un intervento senza eserciti, perché i militari non aiutano a raggiungere la sicurezza.
Enzo sta pensando ad altri paesi africani, il Sudan e la Liberia, ad esempio, ma non esclude i Balcani, la Bosnia o la Serbia. Non capisco se ne parla seriamente oppure è soltanto un assaggio, giusto per verificare le reazioni dei figli. Ottavia ascolta in silenzio. Spesso e in molti passaggi usano la lingua portoghese, a sottolineare la loro integrazione, il loro “viverci in mezzo”.
È difficile immaginare come andrà a finire, dove saranno a vivere il capodanno 2005. Dopo essere stati in Mozambico e Tanzania, hanno ormai raggiunto qui in Angola un forte radicamento e, soprattutto Francesca, hanno stretto solidi legami qui a Uige. E poi ci sono i ragazzi che hanno adottato e non possono abbandonare alla loro sorte, specie il più piccolo, Benjamin, che lo chiama regolarmente “papà”.
Ma al mondo ci sono troppi scenari di guerra dimenticati. C’è la Somalia. C’è il Congo, dove negli ultimi anni ci sono stati tre milioni di morti. Ci sono troppe emergenze, troppe guerre dimenticate, troppi luoghi con bambini, denutriti, sotto peso.
Difficile è anche fare previsioni sul futuro dell’Angola, immaginare come evolverà la situazione generale. È vero che la guerra è finita, e ieri, a mezzanotte, per la prima volta l’anno nuovo non è stato salutato da colpi di arma da fuoco, ma le prospettive a me sembrano ancora molto incerte. Adesso la parola spetta alla politica. In qualche modo, dalle armi si è già passati alla politica, ma è ancora elevato il rischio che il conflitto, non ancora risolto a livello di villaggio, a poco a poco vada a proiettarsi nella scala nazionale, facendo scivolare lentamente i partiti in logiche di appartenenza geo-etnica, rispetto ai principali gruppi etnici del paese, ad esempio con una prevalenza di bakongo al nord con il FNLA, di kimbundo al centro con il MPLA e di umbundo al sud con l’UNITA.
Resto convinto che le tensioni di tipo etnico, quando e se ci sono, sono in primo luogo le conseguenze della guerra piuttosto che la sua causa profonda. I portoghesi non avevano mancato di applicare la buona vecchia tattica coloniale che consiste nel dividere per regnare, soprattutto nel conflitto dell’amministrazione portoghese con le popolazioni delle regioni produttrici di caffè del Nord. Poi le contraddizioni regionali e sociali, che esistevano alla vigilia dell’indipendenza, furono sapientemente amplificate da Savimbi per i propri interessi, sfruttando le situazioni esistenti.
Ma oggi il governo sta impegnandosi a superare la frattura sociale e regionale che la guerra ha creato? Sta impegnandosi a ridurre le fratture tra città e campagne, ad assicurare finalmente un’equa distribuzione delle ricchezze? Costituito soprattutto dalle élites urbane “detribalizzate, l’MPLA poteva diventare il fattore unificante, un partito sovraetnico, un partito che poteva creare le basi per una coscienza nazionale.
E ho visto che non sono uno scherzo le enormi difficoltà amministrative, i problemi di governo del territorio, inesistente com’è il sistema stradale in molte province, carente l’energia elettrica e l’acqua potabile privilegio di pochi. Qui si muore ancora di dissenteria e, in molti ambienti che ho visitato, è scarso il senso dell’igiene, impossibile la pulizia. Il rischio di colera e di altre epidemie è sempre molto elevato, nonostante i tanti, indiscutibili, progressi.
Alto è anche il tasso di malnutrizione tra i bimbi. Aveva ragione John Fitzgerald Kennedy a dire tanti anni fa che “la guerra contro la fame è in realtà una guerra di liberazione dell’umanità intera”, ma non aggiungeva che essa va combattuta senza armi e solo con le nostre mani e i nostri corpi, a costruire laboratori di pace.
In Angola c’è spazio e terra buona per l’agricoltura e l’allevamento di bestiame, c’è acqua in abbondanza, sufficiente anche per la stagione secca, la costa è pescosa e produttiva. C’è tanto diamante e petrolio da garantire allo Stato le entrate finanziarie per passare finalmente da un’economia di guerra ad un’economia di pace e di sviluppo sociale. Basterebbe che i furfanti che si nascondono nel governo e tutti gli esponenti del sottopotere burocratico e affaristico la smettano di trasferire ricchezze sui propri conti presso le banche straniere, sottraendo risorse ai programmi di sviluppo ed alle speranze di un’economia alternativa.
Anche stanotte c’è stata la corrente elettrica in tutte le ore, e stamattina sto scrivendo alla luce della lampada sul comodino; è forse anche questo un segno di ripresa, anche se, alle sei del mattino, cesserà l’erogazione elettrica e riprenderà solo al tramonto.
Tutta la mattinata è dedicata alla revisione finale del progetto water and sanitation, ormai predisposto con la relazione, le quattro mappe e il conto economico con la previsione dettagliata delle spese.
Quando non tocca ad Enzo di correre in ospedale di notte, è Ottavia ad essere chiamata d’urgenza, e stasera, mentre gustiamo a cena le frittelle molfettesi che lei ha voluto preparare in nostro onore, un’infermiera viene a prelevarla in auto e portarla ancora una volta d’urgenza in ospedale. E vi resterà fino a notte fonda.
Sabado, 3 de Janairo, l’ONU, l’Africa e il petrolio dell’Angola.
Talvolta sembra che l’ONU non abbia percepito bene quali compiti spettino alla comunità internazionale per aiutare l’Angola ad uscire dallo stato di guerra e riprendere il cammino dell’indipendenza e dello sviluppo, interrotto venticinque anni fa con i conflitti della guerra interna.
Mentre aspetto, con speranza, che al rubinetto arrivi l’acqua mancata nell’intera giornata di ieri, rifletto sulla definizione di carrozzoni che Enzo ha dato alle agenzie ed ai programmi dell’ONU, che qui operano. Ne abbiamo contati più di cinque. L’UNDP, che è il programma di sviluppo delle Nazioni Unite. L’UNHCR, che è il programma per i rifugiati. Il WFP, world food program. L’UNICEF, che è agenzia onlus e non riceve fondi dalle Nazioni Unite bensì da governi, associazioni, cittadini, aziende. Infine, il SAVE THE CHILDREN, in danese red barnet. Ma sono spesso immobili, inefficaci.
C’è il coordinamento dell’OCHA, ma ci sono anche le inadeguatezze dell’IMF, il Fondo Monetario Internazionale, che non riesce ad ottenere dal governo angolano l’impegno a rivelare agli “auditor” esterni il modo in cui impegna e spende l’oil money.
Dopo la Nigeria, il paese maggior produttore di petrolio dell’Africa subsahariana è proprio l’Angola. La gran parte del suo greggio viene prodotta offshore a Cabinda, ma molte riserve si trovano intorno alla città di Soyo, nel Kwanza Basin a nord di Luanda e lungo la costa settentrionale. E sembra si tratti di petrolio di alta qualità.
In alcune aree di Cabinda, le tensioni politiche sono elevate, là dove sono in azione gruppi di separatisti, che chiedono per la popolazione di quella provincia una maggiore condivisione delle rimesse del petrolio. La provincia riceve il 10% delle tasse pagate dalla Chevron Texaco e dai suoi partner operanti al largo di Cabinda. Dal settembre 2002, il governo angolano ha promesso di aprire una trattativa con i separatisti per offrire a quella provincia some measure of autonomy.
La SONANGOL è la compagnia nazionale del petrolio, istituita nel 1976. Una legge del 1978 le ha concesso il monopolio esclusivo, rendendola la “sole concessionaire for exploration and production”. Le associazioni con compagnie straniere sono in forma di joint ventures e di production sharing agreements. Le principali compagnie petrolifere straniere operanti in Angola sono, oltre alla Chevron Texaco, anche la Total Fina Elf e la Exxon Mobil.
Eppure qui mancherà l’acqua tutto il giorno e bisognerà sperare che almeno venga domani, al terzo giorno. L’acqua è il fattore che di più condiziona l’intervento umanitario del Cuamm ed è così che, nel pomeriggio, dopo il solito acquazzone quotidiano, Enzo ci coinvolge in un altro sopralluogo all’ospedale di Songo, per un rilevamento delle capacità di raccolta d’acqua piovana dai tetti e dalle altre superfici scolanti del complesso ospedaliero ai fini di un accumulo in serbatoio. È in vista un ulteriore finanziamento europeo, da non perdere.
Tempestivi anche questa volta e felici di dare una mano, ci mettiamo al lavoro e proseguiamo fino al tramonto. Torniamo a Uige, quando è già sera, dopo aver bevuto un’ottima birra belga nel bar di Songo, l’unico locale pubblico esistente, il primo luogo pubblico che frequentiamo per un po’ di svago, in tanti giorni di permanenza in Angola.
Con soddisfazione e orgoglio, Enzo ci racconta dei progressi che in un anno ha fatto anche la situazione di Songo, sia in ospedale che nella vita ordinaria del paese. L’ospedale fu preso in consegna da Ottavia un anno e mezzo fa in condizioni penose, riorganizzato, anche ampliato con la messa in funzione di alcuni altri padiglioni circostanti. Oggi non si può dire che sia stata fatta neppure una minima parte di quello che è richiesto dalla situazione igienica, logistica, organizzativa, assistenziale e anche strumentale. Tuttavia l’ospedale, con i suoi limiti, ha svolto un ruolo fondamentale di rassicurazione, un punto di approdo per i profughi e gli sfollati, che ancor oggi continuano a rientrare, a guerra finita.
E per Ottavia sfuma il ricordo dei primi giorni del loro intervento. Quanto coraggio, senza spaventarsi molto alle difficoltà che aveva da superare! Si mise alla ricerca di un edificio, in cui attivare il centro logistico del Cuamm. Accettò di essere ospitata alla meglio in uno sgabuzzino inospitale nella missione di ingenerose suore presenti a Songo. Prese a dormire cercando di vincere il ribrezzo di decine di topi che circolavano intorno al letto. Provò a non farsi mangiare dalle zanzare la notte successiva in cui, per evitare i topi, preferì dormire all’aperto. Decise di accontentarsi di un locale senza porte né finestre, vivendo per molti giorni sotto i tuoni minacciosi della guerra che si combatteva nelle montagne tutt’intorno a Songo.
A cena, siamo all’escritorio di Uige, ospiti di Ornella e Annarita, che vivono nella guesthouse del Cuamm. Mentre ho visto spesso Ornella al lavoro nell’amministrazione delle attività dell’intervento del Cuamm, conosco solo ora Annarita, biologa, proveniente da Lecce, che lavora nel laboratorio di analisi dell’ospedale di Uige. Da loro assumo altre notizie sul gruppo di azione del Cuamm: è presente in Angola una forza attuale di circa venti italiani, tra medici, logisti, amministrativi, biologi. Ma la presenza del Cuamm/medici con l’Africa, è più estesa, perchè tuttora perdura in Tanzania, Mozambico, Uganda.
Ieri, a Songo, in una piacevole passeggiata di lavoro con Enzo, lungo un piccolo sentiero che conduce al fiume vicino, attraverso una fitta campagna di mandjoca e mais, gli ho chiesto se sta pensando sul serio a un suo futuro nei Balcani e mi ha confessato che non ha dubbi che la sua vita resterà nella sua Africa, subsahariana. Forse, però, dopo sette anni di Angola, è giunto il momento di pensare a trasferirsi in un altro paese africano, in cui più forte è l’emergenza post-bellica e più gravi sono le conseguenze del rientro di sfollati e rifugiati.
In Enzo e Ottavia c’è il senso vero del vivere, forse l’aspirazione a non sentirsi mai allineati, ma soprattutto un forte rigore morale e l’orgoglio di rendersi utili all’umanità più debole e infelice. E mai l’angoscia di una vita minacciata dalla morte.
Domingo, 4 de Janairo, la festa della liberazione dalla colonizzazione portoghese.
Anche lo stadio principale di Uige è denominato “4 de Janairo”, per ricordare il giorno della liberazione dalla colonizzazione portoghese. Colonizzata nei secoli dai portoghesi per rifornire di schiavi i loro possedimenti brasiliani, l’Angola ha vissuto quindici anni di guerra per conseguire l’indipendenza dal Portogallo, a cui non è seguita però la pace ma una lunga guerra civile tra le fazioni in lotta.
Oggi, dunque, è una delle feste nazionali, festa di tutti gli angolani. Ma è anche domenica, giornata di festa cattolica e nella chiesa accanto si ripete il rito della messa, per gli adulti in prima mattina, poi quella dei bimbi, alle 10 quella dei giovani. La chiesa è gremita di angolani vestiti a festa, gli uomini in camicie bianchissime, anche in jeans, qualcuno più grande anche in cravatta, sempre pulitissimi e ben curati, con le ragazze dai capelli intrecciati in mille modi diversi, con vestiti dai colori vivaci.
Una suora della missione della Misericordia ci porta, di prima mattina, il progetto della scuola di formazione civica per i reclusi del carcere di Uige. Il progetto, redatto dal direttore dell’istituto di pena, è una previsione di spesa, con un elenco di costi dei materiali necessari per costruire tre aule nell’atrio del carcere che visitammo qualche giorno fa. Il costo previsto è di cinque mila dollari e promettiamo ad Enzo il nostro impegno per una raccolta di fondi a Molfetta.
Poiché oggi sono invitati i passionisti per la focaccia a pranzo, occorre della legna per il forno, che andiamo a comprare in un villaggio vicino, distante qualche chilometro sulla strada per Luanda. Non appena ci fermiamo in un villaggio di capanne a chiedere a un giovane il costo di una piccola catasta di cinque robusti tronchi, compaiono alla spicciolata donne che portano sul capo altre cataste di legna. La terra di tutti. Nel villaggio s’è sparsa la voce della nostra richiesta e presto si accumula nel land cruiser tantissima legna accatastata a caso. Con ciascuna di loro avviene una confusa contrattazione sul prezzo, tra le 100 e 150 kuanzas, per ciascuna catasta, ma proviamo ad accontentare un po’ tutte.
Nel pomeriggio è in programma una partita di calcetto: la famiglia Pisani contro il resto del Cuamm in Angola. Con la felicità di Enzo, che è raggiante nel vedere unita e anche vincente la sua famiglia, si gioca su un campo di cemento, affollato di giovani. Il campetto fa parte di un vecchio complesso sportivo polivalente, con piscina, fornita di trampolini e scivoli, in disuso e decadente, abbandonata nella sporcizia e nel degrado, e poi una palestra coperta e persino un bel laghetto. Fa davvero impressione vedere alcuni ragazzi che si tuffano nella piscina, nuotano e giocano chiassosi in un mezzo metro di acqua lurida, torbida e piena di rifiuti.
Alla fine della partita, Enzo, tornando da solo a casa dopo aver accompagnato tutti gli altri in macchina, s’imbatte in un gruppo di persone che a piedi portano in barella di corsa all’ospedale un uomo accoltellato, con un coltello ancora infisso nella pancia e si offre di caricarlo in macchina, insieme a tutti i soccorritori.
E non è finita, perchè, effettuato il pronto soccorso, mentre prova a distendersi in una conversazione serale, finalmente a casa, è richiamato in ospedale per un intervento di interruzione di una gravidanza ectopica, extrauterina e gemellare.
In Enzo c’è il disprezzo della vita comoda. In tutte le cose, anche nella scelta della casa in cui abitare, nell’organizzazione domestica, nell’attività pratica quotidiana. Massimo e Lucia, a Songo, ma anche Paolo e Roberta, e con loro Valerio, a Negage, pur in condizioni estreme, si sono organizzati in abitazioni confortevoli, così sono anche l’escritorio a Uige, il centro logistico e la foresteria del Cuamm, la missione della misericordia o quella dei passionisti. La ricerca di situazioni estreme in Ottavia ed Enzo si trasforma, invece, in un rifiuto delle pur minime comodità. Non hanno interesse per le cose facili. Ma c’è di più: l’aver superato grossi ostacoli, mentre infuriava la guerra a Uige, li porta a sottovalutare i rischi che ancora oggi corrono e fanno correre, in una città dove c’è ancora disordine, insicurezza, soprusi e violenze, furti, malattie, infezioni ed epidemie, strade incerte, piste minate. Sospetto che essi ritengano pedagogica la paura.
Lunedì, 5 gennaio, terra fertile e ricca, preda di furfanti.
In una situazione di degrado sociale e di povertà, ieri ho avuto la conferma che solo la chiesa cattolica svolge un ruolo di aggregazione ed io stesso mi sono sentito confortato dall’esistenza di un luogo frequentato la domenica da masse di giovani e vecchi, così come dalla ripresa delle attività formative nel Seminario attiguo, oppure anche dai preparativi e dalla baldoria di fine anno. E soprattutto da altre due cose.
La prima. Il popolo angolano è popolo di camminatori, attivo fin dalle prime luci del giorno, fiero nella ricerca di un lavoro, di alimenti, materiale e merce da vendere o da rivendere per strada, nei mercati all’aperto, nei negozi improvvisati.
Inoltre, ed è la seconda cosa, il popolo angolano ha la musica nel sangue, canta, ascolta musica tutto il giorno, danza ritmi popolari con grazia ed eleganza. Suoni, musiche, canzoni, contaminazioni, raccontano che l’Angola è un paese plurale. Che tutta l’Africa è un paese plurale.
Qui, la prudenza alimentare e l’essenzialità dei cibi e alimenti riconducono alla sobrietà primordiale ed alla salute naturale che sconfiggono tutte le malattie e il malessere delle società dell’opulenza, nel nord del mondo. E c’è la convinzione dell’immunizzazione. Mangiare il pane venduto per strada e conservato in cesti aperti alla polvere e alle mosche, vivere in promiscuità igienica con gatti e galline, mangiare nello stesso vassoio in cui poco prima aveva leccato un gatto, usare le posate messe a tavola dalle mani sporche di Benjamin, condividere tazze e bicchieri a tavola, sono la vera via per immunizzarti dalle malattie enteriche. Ne è perfettamente convinto Enzo ed ha adottato ferme abitudini, anche radicali. E non c’è contraddizione. Enzo, che è medico specializzato in igiene e successivamente ha conseguito una specializzazione in Inghilterra in salute pubblica, tutte le volte ci invita ad accettare le contaminazioni che tuttavia arricchiscono e fortificano il nostro personale sistema immunitario.
D’altro canto non si può sperare che le cose vadano diversamente. Oggi siamo al quarto giorno senz’acqua e dovremo dar fondo ai bidoni di riserva, dai quali attingiamo ormai dal 2 gennaio. Ma ce la caveremo. Non solo, ma la salubrità ambientale, e poi il clima clemente, il riparo dai veleni della civiltà industriale, sono tutte condizioni che ci salvaguardano da tutte le altre fonti di malattia di cui si muore nel mondo occidentale. Penso al soprappeso, all’epatite, alle sovralimentazioni, al diabete, al cancro, all’alcolismo, alle droghe pesanti.
Mentre mi preparavo per uscire di casa, è sceso giù alle otto del mattino un temporale coi fiocchi, quello che è mancato ieri pomeriggio ed oggi è venuto ad un’ora insolita. Così si cambia programma e si va a Negage, che dista un’ora di macchina. Io invece preferisco rimanere in casa quando mi accorgo che è finalmente arrivata l’acqua dal rubinetto e posso approfittare per una grande lavata e per rifornire i bidoni.
In un’atmosfera da Macondo, con la pioggia che scende a catinelle e il deflusso che invade le strade e ci costringe all’ammollo, si creano invasi naturali, pozze, acquitrini, in tutti gli avallamenti delle strade cittadine. Sono strade che, per rispettare la morfologia del territorio e non turbare il paesaggio, ignorano viadotti e gallerie, rispettano la pendenza naturale con saliscendi, cunette e dossi.
Comincio così a preparare la valigia per la partenza e, intanto, fuori continua a piovere. E piove tutta la mattinata.
La pioggia è la vera ricchezza dell’Angola, che rende fertile il territorio, in particolare la fascia costiera, una pianura larga 150 chilometri. Qui i campi sono ricchi di agricoltura, mentre gli estesi altipiani dell’interno sono coperti da foreste tropicali al nord, da savane al centro e da steppe aride al sud. Qui a Uige, ma anche in tutto il nord e centro-ovest dell’Angola l’agricoltura praticata è agricoltura di sussistenza, anche se diversificata. Nel nord si trovano le piantagioni di caffè, che è il principale prodotto agricolo di esportazione, anche se confesso di non averle mai viste. È il caffè che qui si vende ai mercati in chicchi tostati e non. Sugli altipiani di Benguela e di Huambo prevale la sisal. Sul litorale, la canna da zucchero e la palma da olio. I diamanti sono a Lunda, il petrolio a Cabinda e a Luanda, il ferro a Soyo.
Ma la densità della popolazione è molto bassa (meno di 10 abitanti al chilometro quadrato), anche perché per secoli s’è praticata la tratta degli schiavi, da parte del colonialismo portoghese. E questo, pur di mantenere il suo dominio, non impedì il tribalismo né le divisioni tra le diverse etnie, l’etnia dei bakongo, dei kimbundu, degli ovimbundu ed altre.
La guerra di liberazione è stata lunga, ma ancor più lo è stata la guerra civile. Si può definire civile una guerra? Con un migliaio di morti al giorno, è stata peggio di quella in Somalia, in Bosnia, in Cambogia.
A che serve la guerra? A chi serve la guerra?
È stata guerra interna, ma con molte ingerenze esterne, ed economiche. Nel 2000, il rapporto di una commissione d’inchiesta dell’ONU accusò i capi di stato di Togo, Burkina Faso, Congo, Zaire e Rwanda d’avere scambiato, con l’UNITA di Sawimbi, petrolio ed armi in cambio di diamanti. Poi risultò che anche la Bulgaria aveva venduto armi ai ribelli angolani, che il Gabon aveva fornito carburante ai loro aerei, mentre il Belgio aveva omesso controlli seri sull’affluenza di diamanti ai mercati di Anversa. Risultò che il commercio di diamanti aveva garantito in otto anni all’UNITA oltre 4 miliardi di dollari. È principalmente attraverso la frontiera del Congo che l’UNITA estraeva e vendeva clandestinamente diamanti. La frontiera che Nori, il viaggiatore giapponese incontrato sulla strada da Damba, voleva attraversare per risalire l’Africa, fino al Cairo.
Mi colpisce la notizia che, nel dicembre del 2000, il figlio dell’ex presidente francese, Mitterrand, fu arrestato per traffico illegale di armi verso l’Angola e il Congo, in seguito ad un’inchiesta in cui furono coinvolti banchieri, mediatori internazionali, scrittori e persino un ex ministro degli interni gollista. Jean Cristophe Mitterrand ammise di avere intascato un milione e 800 mila dollari per la mediazione fornita nella vendita di armi all’Angola, ma negò che si fosse trattato di traffico illegale.
E poi c’è il petrolio. La Chevron annunciò nell’ottobre del 2000 la scoperta di importanti giacimenti di petrolio al largo delle coste angolane: 10 mila barili al giorno. Ma in Angola vengono estratti ogni giorno 700 mila barili di greggio! Dal petrolio, dunque, ha origine la corruzione e, forse, è anche la chiave di lettura della situazione nel paese e del suo governo attuale.
Andrè Tarallo, ex direttore del dipartimento Africa della multinazionale petrolifera francese Elf, oggi Total Elf Fina, davanti ai magistrati che indagavano dichiarò che in 20 anni Elf aveva pagato, tramite un conto in Liechtenstein, circa 40 milioni di dollari per corrompere presidenti, ministri e uomini politici dei paesi esportatori di petrolio. Se ha pagato anche qui in Angola, che razza di presidente è mai questo attuale, che governa ormai da tanti anni e promette elezioni che non indice mai?
Insomma, di sicuro la situazione militare non è difficile com’era ai tempi della guerra civile.
Mi sembra che la situazione umanitaria non sia più catastrofica, come anni fa, ma di certo ancora preoccupante.
Soprattutto resta critica, però, la situazione politica e sociale.
Martedì, 6 gennaio, attraversare la foresta per il ritorno a Luanda
Oggi m’aspetta la quinta dose di antimalarico, la meflochina contenuta nel Larian, indicata sia per la profilassi che per la terapia della malaria. E c’è anche la partenza per Luanda.
Dopo aver ricevuto l’ultimo dono di Ottavia, un libro di salmi in portoghese, dopo i saluti delle suore che ci ringraziano per l’insulina che abbiamo consegnato al nostro arrivo, partiamo alle otto, stracarichi come al solito.
Per una pista piena di buche, riattraversiamo la foresta, la vegetazione fitta di rigogliosi alberi tropicali, incontrando uomini per strada muniti di catana per tagliare i rami e donne con grossi cesti e vassoi sul capo, che agitano un pennacchio per allontanare le micidiali tsè-tsè, passando per villaggi di capanne di paglia e legno, ogni tanto anche villaggi di baracche di mattoni di argilla, scorgendo un cobra che ci attraversa la strada, poi uno scoiattolo incerto e diffidente, costeggiando campi di miglio, sfiorando con la land cruiser la farina di manjoca sparsa ad asciugare ai bordi della strada. Riattraversiamo la zona infestata di tsè-tsè, ingaggiando anche stavolta, inevitabilmente, una lotta contro una mosca entrata, non si sa come, in macchina e poi schiacciata contro il finestrino provocando spruzzi di sangue sul viso di Enzo.
Al suono di una bella canzone, un bel rap angolano, che è un inno alla felice ‘angolanità’, finisce la foresta fitta e inizia la savana. Ripassiamo per Caxito, il primo grosso paese che incontriamo, proprio sul fiume Dange, sempre copioso d’acqua. Poi la strada asfaltata, buona fino a Luanda, ancora attraverso la savana. Infine, i campi coltivati, i villaggi isolati. Di nuovo attraversiamo il Dange, a meandri, e sfioriamo i laghetti collinari.
È una strada di livello nazionale, che percorriamo a 60 km all’ora, un’alta velocità per questi posti, ma un’ambulanza ci sorpassa più veloce. Il traffico si fa intenso, in entrambe le direzioni, a partire dagli ultimi 30 km, quando appare lontano il mare all’orizzonte. Si scorgono lontane alcune navi. Attraversiamo le saline a Cacuaco, poi una caletta graziosa, e giungiamo a Luanda in direzione nord-sud, costeggiando l’atlantico.
Dopo altri check-point della polizia, tra cui il più serio è alla barra di Dande, che Enzo, sempre padrone della situazione, elude cavandosela questa volta con un calendario del 2004, inizia la periferia urbana di Luanda. Un’incerta e confusa urbanizzazione si presenta ai nostri occhi, qualche disordinato ‘complexo residencial’ con case basse di mattoni di cemento e malta cementizia si alterna a periferie industriali e commerciali, con capannoni di costruzioni meccaniche, industria ceramica, vendita di prodotti dell’edilizia, serbatoi di raffinerie, officine meccaniche, evidenziando miseria urbana, traffico lento e confuso, a passo d’uomo agli incroci, attraversando fossi di scolo di liquami a cielo aperto fino al mare, poi anche un canale più grande usato come discarica di rifiuti solidi urbani e percorso dal percolato, che mi fa ricordare che nel 1987 qui ci fu un’epidemia di colera.
Poi, costeggiamo sulla destra il porto, con la vista dell’Ilha di Luanda, mentre sulla sinistra incombe su un costone alto un quartiere di baracche e immondizia, il quartiere ‘Boavista’. Sul muro di una casa sul porto leggo la scritta con vernice ‘Cuba è e sarà’ e, infine a tutto, attraversiamo la zona ricca del porto, fatta di alberghi e grattacieli, costruzioni coloniali mescolate a moderni palazzi residenziali e ministeriali, banche, uffici, alberghi, anche lidi e spiagge pulite, in cui stazionano fenicotteri bianchi, alternate a frequenti immondezzai.
Arriviamo alle 19, dopo un viaggio durato tutto il giorno e ci sistemiamo nella casa di Dolores e Silla, la coppia di ferraresi della mia età, che ci mettono a disposizione interamente la loro abitazione, mentre loro vanno a dormire nella guesthouse del Cuamm, di fronte, condividendola con gli altri visitatori del folto gruppo.
Mercoledì 7 gennaio, un po’ di turismo e di svago a Luanda
Ieri sera abbiamo cenato da Ines, non un vero ristorante ma una casa privata a due passi dal Cuamm, in cui preparano da mangiare su prenotazione, una casa con un bel giardino, pieno di piante tropicali: cena frugale con arrosto di pollo e di grandi seppie, e patatine fritte. La frugalità qui, oltre ad essere una necessità, è anche una virtù, che aiuta a star bene.
Stamattina, invece, dopo una notte molto calda e afosa, ci concediamo un po’ di svago e andiamo sulla spiaggia all’Ilha do Cabo, che è l’isola di Luanda, una striscia di terra, proprio di fronte al lungomare della città, artificialmente legata alla terraferma da una strada di collegamento a scorrimento veloce. Ci fermiamo sulla spiaggia, in un lido con sdraio e ombrelloni, dove facciamo il bagno divertendoci dopo tre settimane di dura realtà, oggi in una città che sembra lontanissima dalla guerra, ignara delle miserie delle malattie e della fame. La splendida Luanda.
Siamo su una spiaggia in erosione, protetta da una batteria di numerosi pennelli trasversali posti a difesa del litorale e della strada, opere realizzate con enormi massi di cemento gettati alla rinfusa, che turbano la bellezza di una spiaggia bianca, di sabbia piena di conchiglie e bianchi uccelli stanziali, con l’oceano atlantico, vasto e infinito davanti agli occhi. Pian piano la spiaggia si riempie di alcuni bagnanti, qualche africano, studenti angolani, turisti occidentali, qualche bianco straniero.
Come è lontana, qui, la sofferenza di Damba, la precarietà di Uige! Come è lontana la guerra!
E neppure termina qui la nostra breve pausa turistica, perché nel pomeriggio andiamo anche a fare delle compere in un negozio di artigianato, sempre con molta sobrietà, solo per portare qualche piccolo oggetto in Italia, qualcosa che ci aiuti a parlare dell’Angola e dei suoi problemi.
È evidente che Luanda, capitale metropolitana, comincia ad assorbire tutti i difetti della globalizzazione economica. Risulta a Silla che un terzo degli angolani ormai viva nella capitale, attratti a Luanda dagli irrefrenabili processi di urbanizzazione, quasi cinque milioni di persone, una stima superiore a quella ufficiale, su quasi quattordici milioni che vivono in tutto il paese, dopo il rientro di moltissimi rifugiati. Si allontana l’immagine di due angole che si affrontano: quella della costa, meticcia, colta, che ha vissuto più a lungo sotto la dominazione coloniale, e quella dell’interno, più autentica, più radicata nelle tradizioni africane.
Al ritorno in aereo, con l’abbondante cena ritardata e la colazione troppo ravvicinata, cominciano a crollare i muri della sobrietà, del rigore alimentare e della genuinità del vivere misurato, forse anche un certo integralismo puritano. Spero che non crollino anche la pazienza di accettare un pensiero non condiviso, la capacità di mettere in discussione le proprie certezze, a sottoporre sempre a verifica le proprie convinzioni, a confrontare un’opinione, ad escludere il proprio primato, ad accettare la condivisione di sé.
La sera prima di partire da Uige, mentre un grosso scarafaggio volante attirava la mia attenzione, partecipai ad un rito di casa Pisani, durante la cena, un rito obbligatorio per tutti i loro ospiti. Bisognava scegliere una frase, una massima, un pensiero che rappresentasse l’impressione avuta in Angola. Dopo una bella discussione, in cui provai a comunicare in forma di conversazione le mie principali impressioni, me la cavai con un “è vero, l’essenziale è invisibile agli occhi, ma è inutile cercarlo altrove, perché è qui, in Angola” ed avrei voluto aggiungere, sinceramente, “è qui, a casa tua”.
P.S. Mi scuso con i lettori e con le persone citate per le inesattezze, ma in un diario sono inevitabili. Spero solo che non siano tante, né decisive.