La frase finale del manifesto del Partito della Sinistra Europea racchiude l’aspirazione legittima del dopo ’89: la fine delle esperienze del socialismo realizzato, visivamente rappresentata dall’abbattimento del muro che divideva Berlino e delimitava i due mondi, est e ovest, contrapposti e l’un contro l’altro armati, ha lasciato negli anni Novanta lo spazio dell’elaborazione del lutto. Il Secolo Breve si è concluso con ampi interrogativi cui sono seguite differenti risposte, ovvero diverse elaborazioni del lutto: da un lato hanno predominato largamente nelle formazioni socialdemocratiche spinte verso una terza via, tanto fittizia quanto impraticabile, tendente al governo della globalizzazione e alla democratizzazione del mercato unico; dall’altro, forze dell’alternativa e antagoniste si sono divise in più percorsi affermando rigide ortodossie, oppure cercando nuove alleanze politiche e sociali. In alcuni casi si è quasi fuggiti dalla forma partito o dalle forme organizzate della politica.
Lo scenario, però, è cambiato e la storia non è finita, come qualcuno ha pensato e sperato. Si è, infatti, affacciato sulla soglia della storia mondiale e d’Europa, un nuovo modo della politica, un’onda fresca, anomala e insperata, di rinnovamento: le donne e gli uomini hanno ripreso la parola inducendo le strutture tradizionali a rivedere le loro rigidità organizzative e politiche. Il movimento dei movimenti si è espresso proprio nel cuore dell’Impero a Seattle e ha bloccato la riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, organismo sovranazionale le cui decisioni hanno immediata esecuzione per i paesi che vi aderiscono. Le istanze del movimento sono così divenute ineludibili per la politica “ufficiale”, tanto da contrapporsi alla logica guerrafondaia dello sceriffo planetario Gorge W. Bush costituendosi come “seconda potenza mondiale”.
L’Europa si è rifondata a Genova nel 2001: per quelle strade annebbiate dai lacrimogeni e segnate dalla violenza e dalla repressione brutale delle forze dell’ordine, è circolata la nuova Europa, la stessa che aveva manifestato a Nizza nel 2000 contro la prima bozza di Costituzione europea e che si è ritrovata a Firenze nel 2002 e in Francia nel 2003 per affermare e costruire un’altra idea di Europa.
Una fitta cronologia, dunque, che ha indotto le forze dell’alternativa europee a vivere questa nuova stagione, non più resistente ma finalmente costituente. È giunto, infatti, il momento per ripartire e dare senso e corpo all’alternativa non come rigida rielaborazione delle esperienze comuniste pregresse. Non è più in questione il dove e come si è sbagliato, valutazione che toccherebbe non solo a chi si definisce ancora “comunista” ma forse, soprattutto, a chi ha messo in soffitta troppo velocemente la propria base ideologica cucendosi altrettanto velocemente un abito che si è rivelato inadatto per l’auspicato governo della globalizzazione. Ora si discute sul come e dove progettare una nuova idea che abbia in sé alcune parole d’ordine necessarie come il rifiuto della guerra e del neoliberismo.
In questa epoca c’è solo l’Europa unita nell’euro ed è obbligatorio porsi l’interrogativo su cosa accadrà quando sarà definita la struttura politica del Vecchio Continente. I presupposti attuali parlano di un’Europa incapace di dire una sola parola circa i conflitti in atto e sulle loro sbrigative soluzioni (Afghanistan, Iraq, Palestina); allo stesso tempo l’Europa entra pervasivamente nei sistemi economici e legislativi degli stati membri attraverso direttive, quote produttive e manovre, sebbene inesistenti allo stato attuale, sul tasso d’interesse. Infine l’Europa apre le sue porte ad Est, allargando il suo mercato, la sua popolazione e soprattutto i suoi bisogni. Si allarga soprattutto a dieci nuovi paesi segnati dalla ristrutturazione economica dove parlare di “transizione” verso il mercato liberista è una menzogna, poiché una “transizione” implica un passaggio graduale e, invece, i governi di quei paesi hanno proceduto a tappe forzate sotto il vincolo dei prestiti del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS).
Un partito per la sinistra europea
La fondazione è partita a gennaio, in una Berlino commossa per l’anniversario dell’omicidio di Rosa Luxemburg e Karl liebknecht: undici partiti hanno dato vita ad un progetto grande e nuovo che vuole aprire spazi a sinistra e mettere a valore il lavoro sin ora svolto nel GUE-NGL, ovvero il raggruppamento europeo dei partiti comunisti e della sinistra verde nordica. Il Partito Socialista Europeo e il Partito Popolare Europeo hanno fino ad ora detenuto un duopolio che nei fatti non ha prodotto alcuna visione altra dell’Europa. La politica estera e i rapporti di ponte che finora c’erano stati con situazioni vicine di conflitto come i Balcani e il Medio Oriente, si sono assurdamente sopiti: pochi i casi in cui l’intervento è stato pronunciato in maniera forte e chiara ma molte le circostanze in cui le bacchettate americane hanno sminuito le risoluzioni del Parlamento europeo.
La costituzione di un soggetto europeo non è un’operazione facile: le difficoltà, non solo ideologiche, sono evidenti ma non per questo devono costituire un ostacolo insormontabile. È vero che i partiti costituenti hanno avuto esperienze di governo in alcuni casi discutibili per i risultati conseguiti con le socialdemocrazie ed anche posizioni differenti sull’ultima guerra del secolo avvenuta in Europa (la guerra nella residuale Federazione jugoslava). Queste sono solo buone ragioni per intensificare il processo fondativo della sinistra europea per evitare, cioè, che ci siano nuovamente divergenze su questioni così discriminanti.
Il nuovo Manifesto
Lo spettro che si aggirava, ora inizia a progettare un’altra Europa. Le discriminanti sono precise e qualificanti: il soggetto europeo si costituisce sul rifiuto netto del neoliberismo e della guerra proponendosi come obiettivo la “costruzione di un’ampia alleanza politica e sociale per un cambiamento radicale che sviluppi alternative e proposte concrete per la necessaria trasformazione dell’attuale società capitalistica”. Allo stesso tempo la Sinistra Europea si propone di aumentare il potere attivo e di controllo delle istituzioni elettive europee e dei comitati rappresentativi.
L’Europa è lo spazio in cui il rifiuto della servitù militare e della sudditanza al capitalismo attuale possono realmente condizionare gli assetti del mondo unipolare. Ma soprattutto è lo spazio in cui concretamente possono realizzarsi le istanze degli ultimi due Forum Sociali europei. Beninteso non si è costituito il “partito del movimento”, tutt’altro: è il movimento che condiziona a tal punto i partiti da chiedere loro una nuova sostanza, poiche la forma, la scelta organizzativa che un soggetto politico compie, non è in discussione essendo parte del movimento.
A Roma, l’8 e 9 maggio si aprirà un nuovo percorso che non ha potuto esimersi dal suscitare ampi dibattiti sia interni alle strutture partitiche europee che vi faranno parte, sia esterni, a tutti quei soggetti con i quali in questi anni si è compiuto un cammino. Nel nostro paese la costituzione del Partito della Sinistra Europea ha introdotto un’elemento dinamico di discussione che risponde alla forte domanda di unità. Come si è detto in più circostanze la scelta è tra l’unità come valore assoluto contro le politiche di uno schieramento avverso, oppure, l’unità da perseguire è radicale, capace di cogliere quanto di innovativo e propositivo si muove nel paese e in Europa. È su quest’ultimo aspetto che si incentra la scelta della sinistra europea. Come è evidente non si tratta di un’operazione alchemica che pone forze di tradizioni diverse in un unico contenitore meramente elettorale, come avverrà per la lista “triciclo”. Si tratta, invece, di un’opzione per un’azione politica non solo circoscritta ai temi della politica nazionale ma ampliata all’Europa per contrastare su quel terreno non le solo tutte le forme del “berlusconismo” quanto l’idea neoliberista che genera governi di destra come quello italiano ed ex-spagnolo.
Cambia il vento…
È obbligata una riflessione su quanto hanno detto le ultime elezioni in Spagna, Francia e Grecia. Le elezioni spagnole dimostrano come non sia stato sufficiente per il Partito Popolare cavalcare l’ondata emotiva generata da un sanguinoso attentato per poter mettere in cassaforte un risultato elettorale. È chiaro ai più che le attribuzioni iniziali all’ETA dell’attentato a Madrid dell’11 marzo si siano ritorte con violenza contro il governo uscente di Aznar. La vera vittoria è data però dall’avanzamento del PSOE non come mera opzione d’alternativa ma come forza che, una volta al governo, avrebbe richiesto il ritiro della truppe spagnole che dalla prima ora hanno appoggiato la guerra di Bush in Iraq.
In Francia, invece, il governo Raffarin sconta le politiche antisociali attuate nei suoi primi due anni e riporta in tutte le regioni, salvo una, un governo di coalizione tra Partito Socialista, Partito Comunista e Verdi (anche se questo accordo non è realizzato in tutte le regioni a causa del mancato raggiungimento del quorum da parte di Verdi e Comunisti).
La Grecia paga, invece, uno scontento sociale di fondo e l’ipoteca sulle grosse questioni irrisolte ovvero il conflitto in Cipro e la lentezza dei lavori per le Olimpiadi 2004 a Atene. La Grecia, forse, è leggibile come l’Italia del 2001, quando cinque anni di governo di centro sinistra non avevano compiuto quanto ci si era aspettato sul versante del cambiamento sociale, e a nulla è servito il volto nuovo di Papandreu, figlio dello storico leader del Pasok.
Queste elezioni possono leggersi, in parte, come anticipatrici delle prossime elezioni europee ma è indicativo come le formazioni di sinistra radicale abbiano riscontrato una tenuta importante sebbene non illuminante. Le prossime europee diranno sicuramente quanto è necessario ancora fare per ampliare il consenso per un’altra idea d’Europa.
Quale sinistra e quale Europa
L’Europa si allarga e soprattutto si struttura. Si allarga sul miraggio del benessere per i paesi dell’Est che hanno inasprito i provvedimenti per la loro transizione e si struttura sempre di più come un fortezza impenetrabile agli extra-comunitari, intesi non nell’accezione di soggetti singoli privi di cittadinanza ma di popoli interi estromessi da un’idea potenzialmente includente come quella dell’Europa. Le guerre prodotte unilateralmente e scelleratamente nel mondo non possono non cambiare le sorti di milioni di donne e uomini che si vedono costretti alla peggiore delle sorti ovvero all’abbandono delle loro dimore per sfuggire dalla devastazione bellica. Se l’Europa persegue una politica estera occasionale, che lacera i suoi membri in schieramenti dettati dall’opportunismo più che dal rifiuto della guerra come opzione, si costruirà sulla sabbia, anche se protetta dalle solide mura di Schengen. L’altra Europa nasce dall’abbattimento di questi bastioni, dal perseguimento di una politica di pace e dalla riproposizione di un modello europeo progressivo e partecipato che non si limiti ad assistere e elemosinare una fascia sempre più larga di “bisognosi”, ma compia quel passo necessario verso una più equa distribuzione delle risorse scongiurando una crisi sociale crescente che ha già da tempo soppiantato, per la sua gravità, la sempre lamentata crisi economica.