Necropolis ludens
di Giuliana Tatulli

È un pomeriggio d’inizio marzo. C’è sole, ma l’aria è fredda. Percorro il viale alberato che porta al piccolo cimitero di San Vito d’Altivole, nei pressi di Asolo, diretta alla Tomba Brion di Carlo Scarpa. C’è silenzio, e non potrebbe essere altrimenti, tuttavia c’è un discreto traffico di persone, sembrano studenti stranieri, provengono da quello splendido esempio di architettura contemporanea che è la tomba Brion, luogo ben conosciuto e molto visitato dagli stranieri, un po’ meno forse dagli italiani. Io sono qui per la prima volta, pur avendo percorso in lungo e in largo il Veneto in svariate occasioni. Accompagno una scolaresca in viaggio di istruzione e un collega architetto ha inserito nell’itinerario questa meta. La tomba fu realizzata a partire dal 1969 su una vasta area, circa duemila metri quadri, un terreno demaniale che forma una L attorno a due lati del piccolo cimitero del paese. Ci sono due ingressi, uno direttamente sulla strada, l’altro dall’interno del cimitero, alla fine del viale centrale. Entriamo dal primo. La tomba è celata allo sguardo dall’esterno da un muro perimetrale costituito da lastre di cemento grigio inclinate verso l’interno. Per questo la sorpresa è totale, dopo aver varcato la soglia ( e nell’architettura di Scarpa una particolare attenzione è posta alle soglie e il tema del passaggio da uno spazio all’altro è fonte inesauribile di soluzioni) si entra in un giardino, una sorta di labirinto definito necropolis ludens, in cui materiali diversi, prato e acqua dialogano tra loro, in un continuo saliscendi, per via di una serie di gradoni, in un percorso che non è lineare, ma come la vita, è tortuoso ed imprevedibile. Si ha subito l’impressione di essere in un luogo prezioso, impressione accresciuta dal silenzio quasi irreale che ci circonda. Alzando lo sguardo si vede attorno la campagna veneta densa di vapori all’orizzonte, poche case lontane, qualche capannone. In realtà è tutto molto semplice, un muro tutt’intorno, uno stagno, un arcosolio con le tombe, una cappella, un prato. La cappella è di tutti, non è uno spazio privato della famiglia. Cerchiamo di entrare, ma è chiusa. C’è un biglietto col numero di cellulare del guardiano. È da noi in pochi minuti. Inganno l’attesa passeggiando guardandomi attorno. Il cemento ha un aspetto inconsueto, sembra legno, assi di legno grezzo sovrapposte e, cosa ancora più sorprendente, anche al tatto sembra tale. È noto l’amore di Scarpa per i materiali e il dialogo continuo che instaurava con le maestranze in un proficuo scambio di saperi, base costruttiva del suo linguaggio. Del resto Scarpa non era propriamente un architetto, non fu mai iscritto all’Albo professionale, non avendo conseguito una laurea in architettura, dovette anche difendersi in tribunale dall’accusa di esercitare la professione di architetto senza aver conseguito né la laurea né l’abilitazione. Nel 1926 si era diplomato in disegno architettonico all’Accademia Reale di Belle Arti. La consumata abilità artigianale insieme al disegno, alla cura per il dettaglio, alla luce, non è un limite, ma il suo tratto distintivo, qualcosa che lo rende una figura piuttosto isolata nel panorama dell’architettura contemporanea, anche se molti storici spesso hanno inserito Scarpa nell’ambito dell’Architettura organica. Dopo la sua morte avvenuta improvvisamente nel 1978 in Giappone, dove era molto apprezzato, è cominciata la grande fortuna critica alimentata dal gran numero di progetti mai realizzati e testimoniati da numerosi disegni, non sempre di facile lettura, dall’insegnamento basato sul contatto personale (nel 1962 diventa professore ordinario di Decorazione e nel 1972 rettore della facoltà di architettura), dai rapporti non sempre facili con la committenza: è così cominciata la costruzione del mito, del poeta isolato. In realtà Scarpa appare come personaggio profondamente radicato nel suo territorio, ultimo epigone di una lunga ed antica tradizione artigiana veneta costituita da falegnami, marmisti, vetrai, fabbri, stuccatori.
Il guardiano è persona garbata e gentile e descrive il luogo con grande competenza, è informatissimo e non sembra affatto il solito cicerone, scopriamo che appartiene alla famiglia Brion. Entriamo nella cappella, la luce vi gioca un ruolo essenziale, come del resto in tutte le realizzazioni di Scarpa, soprattutto quelle museali, dalle finestre entra la natura. Anche la cappella ha due ingressi, uno è costituito da una pesante porta in ferro riempito di cemento, ma che scivola agilmente su un poderoso cardine dalle dimensioni davvero inconsuete. La cappella è un ambiente quadrato in calcestruzzo dominato dal tema delle sagome a dentelli che definiscono la cupola realizzata in legno e da cui pende un portacandele anch’esso in legno. L’ambiente è apparentemente spoglio, in realtà cornici, finestre e fessure sapientemente distribuite lo decorano, la luce sottolinea tutte le variazioni tattili e cromatiche, il grigio del cemento, il marrone del legno, l’argento dell’acciaio, l’oro dell’ottone, il bianco venato di giallo del marmo. Del resto decorazione e ornamento sono elementi essenziali dell’architettura di Scarpa, il quale sosteneva che la perdita dell’ornamento rendesse muta l’architettura. L’attenzione è posta soprattutto sui punti d’attacco, di giunzione, tra la parete e il pavimento c’è uno scarto, una scanalatura di pochi centimetri che crea una profonda ombra, che rompe la scatola. In un angolo un’acquasantiera di porcellana bianca e liscissima, un semplice catino. I ragazzi si distribuiscono in gruppetti e guardano in silenzio e con attenzione i più piccoli particolari, non c’è dubbio che sono soggiogati dalla particolare atmosfera del posto. Sull’altare c’è un quaderno per le firme dei visitatori, vengono da tutto il mondo, soprattutto dagli USA e dal Giappone, le frasi che accompagnano le firme sono elogi e commenti entusiastici.
Usciamo, fuori il prato, data la stagione invernale ( e quale inverno!) non è proprio verde. In un angolo il luogo destinato alla sepoltura. In un’area circolare ribassata di qualche scalino, in pieno sole, di qui si gode una vista panoramica. Sotto un arco molto ribassato, quasi un ponte, le tombe dei coniugi Brion, una citazione dell’arcosolio delle catacombe dei primi cristiani, la nicchia ad arco entro la quale erano posti i sarcofagi destinata alla sepoltura degli uomini importanti o dei martiri. L’arco è in cemento armato e Scarpa per attenuare l’effetto ponte decora la volta, tante piccole mattonelle gialle, lucide, che creano un mosaico, una reinterpretazione personale della tradizione veneta. La guida ricorda che le mattonelle non sono di misura standard, ma furono realizzate apposta e ci furono lunghe e animate discussioni con chi dovette farle, fino a quando non fu raggiunto l’effetto desiderato. Scarpa non doveva avere un carattere molto amabile, preciso e puntiglioso faceva rifare lo stesso dettaglio più volte fino a quando non era soddisfatto del risultato, per fortuna Brion lo aveva assecondato dandogli carta bianca non badando al denaro. Le due tombe bianche e grigie, decorate col tipico motivo a dentelli, i sarcofagi in palissandro con i nomi incisi in avorio e ebano, sono inclinate una verso l’altra, è Scarpa stesso che racconta è bello che due persone che si sono amate in vita si pieghino l’una verso l’altra per salutarsi dopo la morte. Dalle tombe si vede l’ingresso verso il cimitero attraverso un dettaglio decorativo: due cerchi incrociati di mattonelle, uno blu e uno rosso, l’uomo e la donna.
Nel giardino una grande vasca interrata. Anche qui sotto l’acqua si vedono gli scalini, d’estate galleggiano le ninfee. Nell’acqua c’è l’unico luogo privato, reso inaccessibile ai visitatori, se non condotti dalla guida. Si tratta di un padiglione di meditazione posto al centro dello stagno, l’acqua attraverso un piccolo canale scorre fino alle tombe dove si ferma. Si accede a questo spazio attraverso una singolare porta, un’altra delle molteplici interpretazioni del tema del passaggio, testimonianza della consapevolezza dell’attraversare. La porta è di vetro. Invano si tenta di spingerla, per aprirla bisogna azionare un complesso sistema di contrappesi e pulegge a vista che la fanno immergere totalmente nell’acqua rendendo possibile il passaggio.
Ritorniamo sui nostri passi. In un angolo più appartato, lontano dalle sepolture dei committenti, la tomba di Carlo Scarpa, il quale aveva chiesto di essere sepolto in questo luogo, progettata dal figlio Tobia.
Dopo quest’ultima sosta usciamo dal complesso. Salutiamo la guida così prodiga di informazioni. Ci avviamo verso il pullman.
Il sole è più basso, il freddo si è fatto più pungente.

maggio - agosto 2004