L'Utopia razionale e i bisogni radicali. Ripensare Agnes Heller
di Rossana De Gennaro

“Le illusioni e gli altri mali sono volati fuori dal vaso di Pandora , ma è rimasta la speranza, assolutamente fondamentale per poter rendere l’uomo al mondo ed il mondo casa dell’uomo”

Ernst Bloch, Il Principio Speranza


1. Una pensatrice “eretica”
A proposito della dottrina del materialismo dialettico e del totalitarismo comunista sovietico la filosofa ungherese Agnes Heller si esprimeva con queste parole nel suo scritto La dittatura sui bisogni:
“Le due funzioni principali della dottrina (totalizzazione e controllo della totalizzazione) si risolvono in un processo che può essere chiamato de-illuminismo. […] Se illuminismo implica l’uso della propria ragione, de-illuminismo significa non usarla, ma affidarsi all’intelletto collettivo del partito che pensa al posto del singolo individuo. […] L’illuminismo esalta la libertà personale, il de-illuminismo sostituisce ad essa la mera obbedienza. Il de-illuminismo libera l’umanità dalla libertà morale, intellettuale e politica. Nulla esprime meglio lo spirito anti-illuministico dello slogan del Komsomol, l’organizzazione della gioventù comunista, “la scuola preliminare” per i futuri membri di partito: “Il partito è la nostra ragione, onore, coscienza”. In questo slogan il de-illuminismo svela il suo segreto: L’auto-alienazione diventa un credo pubblicamente professato”.(1)
La società socialista sovietica è considerata una “dittatura sui bisogni”, un disvalore, una negazione di quell’idea di “libera associazione” tra individui che rappresentava – sia per Marx che per i socialisti – l’ideale stesso della società emancipata .
Meglio di altri pensatori dissidenti dell’Est europeo la Heller rappresenta l’autocritica degli intellettuali al fallimento dell’esperienza socialista sovietica; non manca d’altra parte nei suoi scritti un costante riferimento polemico alle anime belle dell’Eurocomunismo per la mancata ricezione delle esperienze dei filosofi dell’Est e del loro tentativo di pensare un marxismo aperto.(2)
Nata nel 1929 a Budapest, Agnes Heller è stata una singolare testimone del nostro tempo: ebrea, sopravvissuta alla barbarie nazista, sin dal 1956 risultò “scomoda” per il regime del socialismo reale che l’accusò di revisionismo, cacciandola dall’Università di Budapest, dove lavorava, e dal partito, quando in Ungheria la repressione militare sovietica mise fine all’illusione degli intellettuali di potere trovare una “via ungherese al Socialismo”.
La maturazione, negli anni successivi al ‘56, dei temi fondamentali del suo pensiero: il tema dell’etica nella prassi sociale, il tema della vita quotidiana, l’idea di un soggetto che si presenti come una mediazione di felicità e valore, bisogno e significato, si verificò negli anni bui in cui agli intellettuali ungheresi era proibita la libertà di espressione delle proprie idee.
Con la sua ricerca che ancora oggi, a settantuno anni, conduce tra Budapest e New York, ha posto con forza le ragioni dell’etica nell’ambito del pensiero politico intendendo la prassi fondata sul valore irripetibile dell’essere personale, sul soggetto inteso come relazione e comunità con gli altri soggetti.
La sua riflessione, incentrata su un duplice asse: la possibilità di fondare una antropologia marxista ed il riferimento costante della politica all’ambito dei valori, ha conosciuto svolte teoriche ed esistenziali cruciali: negli anni tra il ’65 ed il ’68 partecipò all’esaltante esperienza della scuola di Budapest(3), quel circolo di filosofi che tentavano di approfondire il pensiero di Marx partendo da una rilettura dell’opera di Lukàcs.
Fu , questa, una delle esperienze su cui si fondò, in quegli anni, una rinascita del marxismo, insieme alla rivista jugoslava “Praxis”(4) e alla scuola estiva di Korçula, alle cui discussioni sui testi del giovane Lukàcs partecipavano anche Bloch e Goldmann. Nella scuola di Budapest e nella scuola estiva di Korçula, invece, si rileggeva Storia e coscienza di classe: si verificava in queste sedi un approfondimento verso la formulazione di una “filosofia positiva”, fondata su una nuova ricezione del marxismo, inteso come teoria pluralistica all’interno di un movimento mondiale.
In questo scritto vorrei soffermarmi su alcuni aspetti della riflessione sviluppata da ‘Agnes Heller intorno agli anni’70 sul tema filosofia e politica, per metterne in evidenza l’attualità. Può essere utile rileggere il pensiero della Heller e ripercorrere l’esperienza del marxismo ungherese che, nell’ambiente ostile dell’Università di Budapest, si confrontava con l’esperienza pluralistica dei movimenti sorti in Francia, in Germania, in America e in Italia a partire dal ’68, perché in quella esperienza si legge il tentativo di pensare nei termini di un marxismo aperto, metodo critico di trasformazione permanente dell’esistente a partire dalle strutture della vita quotidiana: la famiglia, le comunità, il lavoro.
Parto dalla convinzione che rimettere in discussione categorie che appaiono ovvie come quelle di bisogno, di eguaglianza, di partecipazione, alla luce di un pensiero che si presenta come filosofia radicale, forse può essere utile per ripensare il progetto di società di una sinistra che voglia assumere dal proprio passato non solo la pesante eredità del fallimento dei comunismi ma un metodo radicalmente critico di lettura e di trasformazione.
Non rientra fra gli intenti di questa breve ricognizione, l’indagine sui rapporti fra la filosofia radicale della Heller ed il pensiero di Lukàcs, ma ai fini del nostro discorso basti dire che, già in questi anni, la filosofa ungherese non si riconosceva più lukacsiana. In una intervista rilasciata non molti anni fa ai redattori del Manifesto, in occasione del suo arrivo a Parigi per partecipare a un convegno su “ Il ’68 nella cultura politica europea”, sostiene che il ’68 è stato dappertutto un movimento contro le grandi narrazioni, che, pur difendendo valori della modernità anche diversi fra loro, aveva alla base la difesa vitale della libertà .
“Alla fine degli anni ‘60, inizio ‘70, eravamo alla scuola di Lukàcs . Ma né io, né i miei amici, eravamo impegnati nel movimento di rinnovamento del marxismo che proponeva il ritorno alle radici, alle fonti marxiane.Quello che ci sembrò evidente, era il venire alla luce di molte varianti del marxismo, di molte interpretazioni possibili, in competizione tra loro: ed era precisamente questo ciò che più mi interessava”(5).
Così si esprime la Heller a proposito del clima culturale in cui nacque la sua riflessione e quella dei suoi compagni della scuola di Budapest: Mihàly Vayda, Giorgy Bence, Jànos Kis.
Erano gli anni in cui gli echi della mobilitazione degli studenti americani contro il Vietnam, il maggio francese, l’esperienza delle comuni in Germania si propagavano sino nella cultura e nella politica di un’Italia perbenista e conservatrice. Contemporaneamente, i movimenti introducevano il germe della critica alla struttura centralistica e dirigistica del partito comunista, ne mettevano in discussione il modello togliattiano e la funzione di “cerniera” della trasformazione rivoluzionaria.
È tanto più comprensibile che in quegli anni si rinnovasse la speranza della realizzazione di una società socialista aperta se si pensa che i protagonisti della scuola erano intellettuali ai quali i dieci giorni della rivolta ungherese del ‘56 avevano dato una lezione formidabile, insegnando loro che il socialismo è un movimento reale che parte dal basso e non un processo importato dall’alto, da una èlite rivoluzionaria . Dopo quei dieci giorni, “vissuti come una catastrofe”, molti intellettuali rinunciarono all’idea di un socialismo ungherese e presero a difendere i metodi repressivi del sistema sovietico, altri scontarono con l’espulsione dall’Università l’espressione delle proprie idee libertarie, e, fra questi, la Heller.
L’esperienza dell’eresia rispetto alle direttive del partito si rinnovò nel ‘68 quando lei e gli altri della scuola di Budapest parteciparono al movimento cecoslovacco della Primavera di Praga e firmarono, dopo la repressione con i carri armati da parte dell’Unione Sovietica, il manifesto degli intellettuali della scuola estiva di Korçula. La sua protesta verrà pagata di persona con il licenziamento dalla Accademia delle scienze dove lavorava come sociologa. Fu la scuola di Budapest nel suo complesso ad essere investita dall’interdetto: i suoi esponenti vennero accusati di pluralismo, accusa da cui discenderebbero altre forme di deviazione: antisocialismo, antimarxismo, identificazione dell’atteggiamento radicale con gli hippies.

2. Sulle tracce di un marxismo etico
Ad una sintetica ricostruzione della genesi della filosofia radicale può fornire un utile contributo un’intervista che la Heller rilasciò nel 1978 ad Amedeo Vigorelli e Laura Boella sui temi della sua riflessione e i problemi del marxismo nei paesi dell’est, pubblicata in seguito in un agile libretto dal titolo Morale e Rivoluzione, uscito nelle edizioni Savelli. Lei stessa sottolinea il rapporto tra il suo pensiero e la rivolta giovanile del ’68.
“In quegli anni avevo appena terminato di scrivere La rivoluzione della vita quotidiana: ero giunta alla conclusione che presupposto di un’autentica società socialista avrebbe dovuto essere la rivoluzione delle forme di vita, la creazione di nuove comunità. E proprio allora in Europa ci fu un movimento di estensione mondiale che incarnava le stesse aspirazioni. Quei giovani si accingevano a realizzare nuove forme di vita. Erano l’utopia “materializzata”. Lo slogan della rivolta francese: Siamo realisti, tentiamo l’impossibile, mi commosse fino alle lacrime. Finalmente si trattava dell’espressione non più di una dialettica negativa, bensì positiva.”(6)
Pur non essendo d’accordo con tutto quello che avveniva nei movimenti giovanili, nell’insieme li riteneva un inconfutabile segno dell’emergere di un nuovo concetto e di una nuova prassi della rivoluzione “che non si doveva identificare con l’accezione politico-giacobina nel senso stretto della parola, ma doveva intendersi piuttosto come rivoluzione della società civile, delle forme di vita”.7 Rimanendo fedele all’idea che la trasformazione delle forme politiche non sarà mai sufficiente a determinare un vero mutamento sociale, immagina la rivoluzione della vita quotidiana come un processo di lunga durata che si svolge sul terreno della società civile ed è correlato alla trasformazione del sistema dei bisogni.
Con la ricchezza interpretativa dei movimenti la Heller avrebbe fatto i conti anche in seguito, negli anni ’70, quando, sulla scorta di una interpretazione anti-economicistica di Marx, lavora infatti intorno al progetto di un’antropologia marxista che si concretizza in parte nella sua indagine sulla teoria dei “bisogni radicali”, uno dei nuclei fondamentali della sua riflessione.
Sin dall’inizio degli anni ’60, intendendo superare l’antinomia weberiana tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità, si mette sulle tracce di una tradizione di pensiero che fondi la sua scelta per un pensiero marxista etico e la trova nel pensiero filosofico greco, nella filosofia del Rinascimento, nelle idee di Rousseau. Si fa strada nel suo pensiero l’idea che le premesse per costruire una vita umanamente degna sono la democrazia e la comunità. In questa fase, in cui scrive L’Etica di Aristotele (1959), e L’uomo del Rinascimento (1963), non considerava “ancora adeguata ai problemi e ai bisogni del nostro tempo la teoria di Marx e le sue interpretazioni”; non aveva ancora rinvenuto una teoria alternativa al Diamat che rifiutava come forma di materialismo volgare.
Le scelte teoriche di questo periodo sarebbero state ricche di conseguenze per la formulazione successiva del suo pensiero: dalle ricerche su Aristotele, sul Rinascimento e su Rousseau, nasceva l’invito ai marxisti dell’Occidente ad esercitare una funzione critica nei confronti del proprio passato, a comprendere che la trasformazione delle forme della politica suppone una critica della razionalità strumentale e l’assunzione di una prospettiva razionale che includa i valori.(8)
Come la stessa Heller chiarisce nell’intervista, si trattava di progettare l’etica senza scivolare nell’ontologia, di creare un modello teorico che permettesse lo spostamento dall’idealismo etico allo spazio politico. La sua “filosofia radicale” prende quindi le forme di una critica del modello scientifico avalutativo che domina nell’ambiente delle accademie e che suppone una netta separazione tra il momento etico e quello razionale e si struttura come una ricerca dei fondamenti materialistici della teoria del valore(9); da queste premesse nasce l’incontro con i testi di Marx nei quali rinviene la categoria dei bisogni radicali quale fondamento storicamente determinato dei valori a cui la teoria e la prassi si devono riferire.

3. La teoria dei bisogni radicali
Il breve saggio La teoria dei bisogni radicali in Marx, del 1974, era in origine un frammento di uno studio più ampio sull’antropologia.(10) Tradotto in molti paesi europei e in America, costituisce una lettura a dir poco eretica di Marx, nella chiave dei bisogni radicali. Si tratta di una lettura che non ha interessato molto gli studiosi di Marx, ma piuttosto alcuni livelli del movimento della sinistra rivoluzionaria.
L’oggetto teorico – la teoria dei bisogni in Marx – si presta a fare esplodere le contraddizioni dell’Accademia dove impera la versione riduttiva di un Marxismo economicistico e l’idea che la scienza marxista sia depositaria della verità.
La Heller sostiene di volere analizzare la tendenza principale negli scritti del pensatore di Treviri poiché è consapevole che la natura “non sistematica” delle opere di Marx, specie dei Grundrisse, rende possibili molteplici interpretazioni; non esiste un’interpretazione”vera”, però è possibile riscontrare una tendenza principale che è l’umanesimo, una concezione antropologica che pone i bisogni radicali come la espressione qualitativa dell’uomo.
È opportuno ricordare la interpretazione che la Heller fornisce della prospettiva marxiana sui bisogni:
“Secondo Marx la riduzione del concetto di bisogno al bisogno economico è una espressione della estraneazione (capitalistica) dei bisogni, in una società in cui il fine della produzione non è il soddisfacimento dei bisogni, ma la valorizzazione del capitale, in cui il sistema dei bisogni è fondato sulla divisione del lavoro e il bisogno compare soltanto sul mercato, nella forma di domanda solvibile”(11).
Seguendo le oscillazioni della teoria fra economicismo e prospettiva filosofico-antropologica, Heller nota che, dai Manoscritti economico-filosofici sino ai Grundrisse e al Capitale, Marx concepisce la categoria di “bisogno” come categoria di valore,“base e metro per qualsiasi raggruppamento o classificazione dei bisogni”.
La studiosa ungherese cerca di dimostrare che in Marx ogni giudizio riguardante i bisogni è misurato in base al valore positivo di “bisogni umani ricchi”, categoria che rappresenta, secondo lei, la prospettiva critica adottata da Marx per proporre un modello positivo di sviluppo.
“Per Marx […] la categoria di valore più importante è la ricchezza; ciò costituisce anche una critica dell’uso che l’economia politica classica faceva della categoria “ricchezza”, identificandola con la ricchezza materiale. Per Marx il presupposto di questa ricchezza umana è solo la base per il libero sfogo di tutte le capacità e i sensi umani, cioè per l’esplicazione della libera e molteplice attività di ogni individuo. Il bisogno come categoria di valore non è altro che il bisogno di questa ricchezza.”(12)
I bisogni radicali sono il piano qualitativo da cui nasce il bisogno di comunismo: nascono nell’ambito di rapporti di produzione estraneati ma li trascendono perché non possono essere soddisfatti in una società fondata su rapporti di subordinazione e di dominio. Il bisogno di estrinsecare la ricchezza delle possibilità umane, conduce verso quella che Marx chiama la società dei produttori associati.
È il fondamento che consente di respingere la distinzione tra beni/bisogni di lusso, beni/bisogni necessari, di rifiutare una società che da un lato crea ricchezza e dall’altro crea un’assoluta miseria, di condannare la struttura economica capitalistica perché la sua dinamica è motivata dai bisogni di valorizzazione del capitale e non dai bisogni di sviluppo, di proporre un modello positivo del futuro dove il lavoro assurge a bisogno vitale e il tempo libero è destinato ad attività multiformi.
I bisogni umani ricchi possiedono un carattere storicamente determinato perché sono prodotti dalla stessa struttura capitalistica: è lo sviluppo delle forze produttive, che nasce dall’estensione della socializzazione della produzione, ed entra in contrasto con la concentrazione del possesso dei mezzi di produzione nelle mani di pochi capitalisti, che produce la dinamica di polarizzazione di ricchezza/miseria e tutte le antinomie che derivano dalla generalizzazione della forma - merce.
I bisogni radicali quindi nascono nella coscienza della estraneazione, quando la produzione di massa fa sorgere un bisogno di universalità e di tempo libero che non si può soddisfare entro il capitalismo.
Nella interpretazione della Heller i bisogni sono misura critica nei confronti dell’alienazione capitalistica e termine di riferimento dei valori per la prassi e la teoria comunista di trasformazione dell’esistente. I valori non sono dunque concepiti in base ad una visione statica ed essenzialistica della natura umana ma come il carattere qualitativo di un determinato tipo di bisogni che si danno storicamente.
Il piano qualitativo dei valori quale fondamento della prassi totalizzante e verifica pratica della teoria introduce un nuovo criterio di scientificità: questo è la capacità e il rigore dell’interrogazione sul comunismo come bisogno. La capacità di cogliere questo livello teorico dentro il modo della contraddizione deve caratterizzare la teoria nella fase attuale del capitalismo: riferirsi ai bisogni significa dare risposte sull’individuo, sul sociale, sul lavoro, sul senso della ricchezza, sulla qualità della vita.

4. La rivoluzione della vita quotidiana
La teoria dei bisogni non è priva di conseguenze per la formulazione dei compiti e delle modalità della prassi politica marxista; i bisogni radicali rimandano all’altro nucleo fondamentale della filosofia radicale, l’idea che la trasformazione della politica e delle sue forme non sia sufficiente ad operare un significativo mutamento. L’attenzione degli studiosi della scuola di Budapest come la Heller, Bence e Kis all’argomento della vita quotidiana si collega alla diffusione dell’opera di Lefebvre e Goldmann, i cui scritti erano molto conosciuti. Negli studi dei filosofi ungheresi si tratta di demistificare le forme reificate che l’esistenza immediata dell’uomo assume tanto nei paesi capitalistici dell’Occidente che in quelli socialisti dell’Est.
Nei loro scritti la critica delle forme alienate del quotidiano non assume solo un carattere di critica del feticismo e delle forme della coscienza estraneata ma è anche il presupposto per una sua radicale ristrutturazione.
“La riproduzione costante della vita quotidiana” non può essere superata o annullata poiché è una struttura fondamentale dello sviluppo storico per quanto ad essa ineriscano l’alienazione, la ripetizione e l’oggettivazione; essa è: “La somma complessiva di quelle attività che esprimono la continua possibilità di riprodurre una società tramite atti individuali di autoriproduzione”.(13) Nella prospettiva etico-politica della Heller, essa è il regno della convenzione, dell’adattamento passivo allo status quo, del pragmatismo, dell’opinione, in sostanza, di quell’insieme eterogeneo di forme di attività che non sono mai immediatamente correlate al complesso della praxis umana.
All’interno dell’apparato concettuale del marxismo - nota la Heller - l’attualità del tema è legata all’imporsi di nuovi problemi alla prassi rivoluzionaria, sia nei paesi socialisti che in quelli capitalistici. In Occidente, finita l’era dell’ottimismo e delle illusioni del dopoguerra - quelle della battaglia collettiva contro l’oppressione - si assistè alla restaurazione del mondo della vita quotidiana borghese. Le stesse “forze sociali rivoluzionarie” sembravano essersi integrate nell’ordine capitalistico, accettando il compromesso per cui l’innalzamento del tenore di vita e la possibilità di soddisfare i bisogni essenziali assicuravano l’integrazione. Anche nel mondo socialista la destalinizzazione non era certo sufficiente ad assicurare la formazione di un modo di vita socialista.
La radicalità della proposta consiste nella critica alla versione dogmatica del marxismo che passa per scienza e suppone l’ineluttabilità e l’automatismo della trasformazione in senso socialista: democratizzare la sfera del lavoro non è sufficiente ad eliminare le forme dell’alienazione nella vita quotidiana.
È necessario piuttosto realizzare una democrazia di base sviluppando il bisogno di comunità, adottare “forme istituzionali che permettano la fruizione di una democrazia diretta da parte di tutta la società”(14), operare una “umanizzazione della vita” che “si attua con la partecipazione effettiva e non soltanto manipolata”(15), con l’estensione delle forme di vita comunitarie, l’allargamento degli spazi di democrazia e di dialogo, la corresponsabilizzazione di tutti i soggetti, la lotta contro il partitismo, il centralismo democratico, la concezione delle élites ed ogni forma di visione gerarchica, autoritaria ed élitaria della prassi politica. La trasformazione delle forme sociali e politiche si attua nell’ambito dello stato democratico e pluralista ed è un processo aperto e permanente che si radica nel mondo della vita - in cui l’individuo non è sussunto e risolto in una totalità sovraordinata in quanto è concepito come esserci nella comunità della comunicazione.(16)
La fondazione della teoria è nel livello immanente del “mondo della vita”, dove si radicano i bisogni, e nello spazio relazionale in cui si definisce la validità intersoggettiva delle norme etiche, pena il rischio dell’abbandono della prassi alla irrazionalità, sostiene la pensatrice ungherese. Prende forma sin dagli anni ’70 un’utopia radicale che vuole costituire un fondamento idealistico-trascendentale della politica, dove il principio speranza è dato dalla possibilità di assumere un orizzonte etico collettivo (dove le norme siano condivise dalla comunità umana), che non sia un orizzonte metafisicamente fondato ma condizione di validità e di possibilità della comprensione intersoggettiva del senso e del consenso.

5. Recupero della memoria e radicalismo
Quale senso può assumere rispolverare la interpretazione di un marxismo aperto e plurale e di una filosofia radicale, oggi che la morte delle ideologie e il fallimento del comunismo dell’Est hanno sgomberato la strada al pensiero unico?
Oggi che, avendo accantonato - forse troppo in fretta - la questione dell’alternativa tra socialismo e barbarie, finita l’era del primo, ci rimane soltanto la barbarie.
Oggi che - su scala planetaria - il mondo ci appare ossessionato dall’emergenza del terrorismo, la faccia speculare e connaturata alla globalizzazione, il destino della politica sembra quello di ridursi a strategia del governo dell’emergenza affidata ad oligarchie ristrette, mercantili, tecnocratiche o militari. Di fronte all’insicurezza dilagante le teorie della “guerra preventiva”, dell’aggressione necessaria, si rafforzano e pretendono di ridisegnare lo spazio possibile della prassi politica.
Forse è il momento di prendere posizione prima che questo bisogno collettivo di sicurezza declini verso la costituzione ed il rafforzamento di scelte politiche di forza che puntino all’ordine e verso la costituzione di “attori sovranazionali” - l’Europa anzitutto - che rappresentino un semplice contrappeso alla politica della “superpotenza americana”.(17) Riflettere sul senso della politica e sulla possibilità di farne un patrimonio di idee e di progetti condiviso ed “agito” dal protagonismo dei popoli, significa per la sinistra rivisitare la propria storia ed attingere al proprio patrimonio di idee senza coltivare il complesso del ripiegamento nostalgico sul proprio passato se è vero che la perdita della memoria è una delle forme della reificazione della coscienza. Come invita a fare A. Cavarero in un recente articolo comparso sul “Manifesto”(18), porsi sul serio il problema della pace significa pensare un’antropologia completamente nuova rispetto a quella della tradizione politica occidentale, significa esprimere un’idea del mondo diversa da quella incentrata sul nesso politica/violenza/guerra. Significa ripensare alla radice l’essere umano e il suo condividere il mondo, concepire il soggetto come essere-insieme-con-gli-altri nel suo essere-al-mondo, cosa piuttosto familiare alla teoria e alla pratica delle donne. Ripensare la politica in relazione alla “misura umana - se si intende l’uomo, con Hanna Harendt, unicità incarnata, fragile e bisognosa di senso - significa trasformare il nostro linguaggio; pensare che la rivoluzione non è l’assalto armato al “Palazzo d’Inverno”, ma la trasformazione della vita quotidiana, la prassi rivoluzionaria che investe le forme dell’agire e del pensare che stanno alla base del mondo della vita.
Ciò può significare una politica che ha a cuore la pace, e non la guerra. All’interno di questo solco assume il suo significato la proposta di un’utopia razionale in cui la filosofia radicale si mette alla prova avendo come unico metro non “i limiti della ragione” ma la propria missione de-feticizzante nei confronti del mondo contemporaneo. La misura critica rispetto alle forme dell’alienazione sono i bisogni radicali, storicamente determinati e materialisticamente fondati, la cui realizzazione è anche la meta, poichè trascendono le forme storiche assunte dal mondo dell’alienazione capitalistica; il primo veicolo tramite cui si realizza la trasformazione sono le “comunità”, “istituzioni della vita quotidiana”, dove gli uomini possono e devono sviluppare la capacità di dialogo e la libera comunicazione sul piano sociale, deterrente contro la burocratizzazione e la estraneazione della politica nell’ambito del partito e garanzia di una democrazia pluralistica.
Le esperienze di “auto-organizzazione” e dei movimenti - dalla protesta di massa contro il piano di riordino della sanità di Terlizzi al movimento di Scanzano contro la discarica di scorie radioattive, dalla mobilitazione nelle piazze per la pace, ai movimenti contro la globalizzazione - costituiscono una sollecitazione a ripensare i soggetti di una possibile trasformazione delle forme sociali e politiche e costringono a riflettere entro l’orizzonte del riferimento costante della prassi politica ai bisogni della gente. Risalta, nel confronto con queste esperienze, l’attualità di una riflessione in cui il marxismo diventa metodo critico che mette in questione permanentemente le forme reificate ed estraneate dell’esistenza, e determina la prassi e il progetto della politica come aspirazione a rendere il mondo più umano, utopia concreta, alimentata da quello che Ernst Bloch chiamava il principio speranza. Ripensare la politica in termini di riferimento al tèlos e al mondo dei bisogni non significa proporre il ritorno di ideologismi o riaffermare visioni sistemiche che abbiano pretese di verità; piuttosto costituisce il discrimine fondamentale tra lo scadimento delle forme della politica a tèchne e governo dell’esistente - in cui il legame tra potere e violenza resta indiscusso - e la progettazione di forme dell’agire che abbiano come protagonisti i soggetti reali, incarnati e portatori di bisogni. E invita, a partire dai bisogni, a smontare - pezzo per pezzo - la presunta definitività e assolutezza dello stato attuale delle cose.


1) Cfr. A. Heller, La dittatura sui bisogni, SugarCO, Milano 1984, p. 231
2) “Se il pericolo, spesso adottato, di “socialdemocratizzazione” significa una rinuncia ad interrogarsi sui più ampi obiettivi storici del movimento a favore di esigenze puramente pragmatiche, è importante capire che il “silenzio diplomatico” dei partiti eurocomunisti sulle cosiddette società socialiste dell’Est europeo è di per sé un fattore importante che esercita un’influenza proprio in questa direzione”. A. Heller, op. cit., p. 19.
3) J. Arnason, Il Marxismo dell’Est europeo, in Aa.Vv. Storia del marxismo, vol. 4, Einaudi, Torino 1982, propende per un uso riduttivo della categoria:”Se si adopera in senso largo, questa etichetta si riferisce ad un gruppo relativamente eterogeneo unito solo da un comune impegno di critica socialista, anche se l’espressione è stata associata talvolta ad una più specifica posizione filosofica”. (p. 203) Qui preferiamo assumere l’espressione “scuola di Budapest” nella accezione che ne dà A. Vigorelli, il quale ne sottolinea la omogeneità di posizioni rispetto ai temi essenziali della critica al socialismo reale e alla prospettiva di fondare un marxismo etico a partire da una considerazione antropologica. Questa ricezione delle teorie dei marxisti ungheresi è legata alla rivista “aut-aut” - della quale la stessa Heller è stata redattrice dal ’74 - che ha sollecitato l’attenzione sul tema dell’incontro tra Fenomenologia e Marxismo. Cfr., in particolare, il saggio di Laura Breccia Boella, Filosofia e politica nella scuola di Budapest (“aut-aut”, n. 140, 1974) dove l’autrice affronta il nodo filosofia e politica soffermandosi, tra l’altro, sull’incontro di fenomenologia e marxismo nel pensiero di Vajda, dove la filosofia di Husserl viene colta nel suo carattere di critica della coscienza feticizzata e richiamo alla fondazione pre-categoriale nella Lebenswelt (il mondo-della-vita). Sul tema del soggetto e sulla prospettiva socialista nell’antropologia di A.Heller cfr. anche il n. 157-158, 1977.
4) La cosiddetta “Scuola di Praxis” costituì il gruppo più importante dell’opposizione marxista jugoslava. L’edizione della rivista uscì dal 1964 al 1975: il suo proposito fu quello di fornire un panorama più vasto della cultura filosofica jugoslava o meglio delle prospettive di analisi che corrispondevano alla cultura di sinistra più avanzata, legata alle università di Zagabria e di Belgrado. Vedi Johann P. Arnason, op. cit., pp.178-185. Sul tema sono interessanti i saggi comparsi su “aut-aut” fra cui quello di P.A. Rovatti, “Praxis” e il nuovo marxismo dell’uomo, in “aut-aut” n. 116, 1970, in cui si sottolinea che la strada di “Praxis” è soprattutto combattere lo schematismo della contrapposizione umanismo/antiumanismo, ponendosi sia contro ogni rinnovato tentativo di rifondare il marxismo sulla base di una essenza dell’uomo, sia contro la versione economicistica o strutturalistica e la sua traduzione in termini di ideologia politica.
5) A. Heller, Morale e rivoluzione, (a cura di L. B. Boella e A. Vigorelli), Savelli, Roma, 1979.
6) A. Heller, op. cit., pp. 46-47.
7) Ibidem.
8) La razionalità formale, che si identifica con un modello di scienza avalutativa e neutrale, implica una visione dell’etica in cui vige la separazione tra pubblico e privato e dove le scelte non sono razionalmente fondate; una dissociazione teoria/prassi. Rifiutando ogni concezione della storia di matrice positivistica - in cui lo sviluppo delle forze produttive debba necessariamente condurre al socialismo - sostiene che: “La critica dell’onnipotenza della ragione strumentale fa parte della teoria radicale, ma solo ove la si intenda come limitazione e controllo della ragione strumentale mediante le discussioni e le scelte di valore razionale di tutti gli interessati. Ma se si rifiuta totalmente o non si prende in considerazione la ragione strumentale o la costituzione di un agire razionale rispetto al valore, l’aspirazione alla trasformazione delle forme di vita all’interno della comunità diventa l’ideologia del sangue e del suolo”. A. Heller, op. cit. pp. 56-57.
9) Le tappe di questa ricerca sono gli scritti: Morale della sociologia o sociologia della morale,1963, Sociologia della vita quotidiana, Ed. Riuniti, Roma 1975; Valore e storia,1969; Per una teoria marxista del valore, Ed. Riuniti, Roma 1974.
10) Sul tema cfr. Laura B. Boella, Teoria del soggetto e prospettiva socialista (“aut-aut”n°157-158, 1977) in cui si mette in evidenza che il progetto di un’antropologia sociale comprendente cinque parti, rispettivamente dedicate agli istinti, alla teoria degli affetti, alla “seconda natura”, alla teoria dei bisogni e alla teoria della personalità, è sostenuto dalla dichiarazione esplicita delle premesse di valore che la guidano, da “un’epistemologia che costruisce il proprio oggetto teorico sulla base di un essenziale riferimento a un ideale di emancipazione”. Sono messi in risalto anche i limiti di questa concezione del soggetto, prigioniera dell’utopia dell’uomo totale goethiano. Sul tema vedi anche, nello stesso numero della rivista, A. Vigorelli, Critica del socialismo burocratico e teoria della vita quotidiana nella scuola di Lukàcs, che invece sottolinea il limite teorico nella mancanza di un’analisi delle classi.
11) A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano 1978, p. 40.
12) Ibidem.
13) A. Heller, La teoria marxista della rivoluzione e la rivoluzione della vita quotidiana in “aut-aut”, n. 127, 1972, pp.58-71.
14) A. Heller, op. cit., p. 48.
15) Ivi, p. 69.
16) Per quanto riguarda il criterio di verità delle idee di valore l’autrice ama richiamarsi alle concezioni di filosofi come Apel e Habermas. La Heller ne condivide l’utopia democratica di una “comunità di comunicazione ideale”, fondata sul consenso intersoggettivo, ma propone di sostituire al criterio del “consenso” quello della “discussione” che sfugge ai pericoli del relativismo etico e allude ad un’utopia radicale fondata sul pluralismo delle forme di vita e sulla massima della tolleranza rivoluzionaria.
17) Mi riferisco all’analisi condotta da I. Mortellaro in Concretezza dell’utopia, “La rivista del manifesto” n.48 - marzo 2004.
18) Vedi A. Cavarero, Una politica oltre il potere, “il manifesto”, 28 febbraio 2004, e in generale tutto il dibattito seguito all’articolo di P. Ingrao su “Liberazione”, 7 gennaio 2004.

maggio - agosto 2004