Come ebbe modo di affermare Gilles Deleuze, che se ne intendeva, “il cattivo cinema passa sempre attraverso circuiti interamente di basso-cervello, violenza e sessualità in ciò che è rappresentato, un miscuglio di crudeltà gratuita e di debolezza organizzata”.
Non sappiamo se Mel Gibson abbia mai visto “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, ma certamente come regista del suo film sulla crocifissione di Cristo, “Passion” - proiettato nelle sale italiane in occasione della Pasqua cristiana a tutto detrimento dei “costruttori di pace” - mostra di aver sperimentato sulla propria pelle sin da piccolo, e poi come cittadino americano, tutta la violenza che impregna la falsa-politica e la pseudo-cultura del suo infelice Paese. La spettacolarità del sangue con tutti i suoi annessi e connessi di torture, crudeltà, sadismo, maschia prepotenza e militar sopraffazione, non è qualcosa di marginale nella filosofia di vita degli USA e lo si può vedere, in una evidenza al limite del sopportabile, nel film di Gibson, la cui visione privata ha lasciato “senza parole” (cioè ammutolito!) perfino il Papa.
Basso-cervello e bassa macelleria, sebbene, è lui che lo dice, lo abbia girato sotto la guida dello Spirito Santo! Per noi, che non andremo a vedere il film per volontario boicottaggio alla simil-arte del cinema hollywoodiano, e che di ben altre cinematografie ci alimentiamo, dopo la compiaciuta violenza dei bombardamenti sull’Afghanistan, dopo lo spettacolo della sedicente democrazia esportata in Irak e dopo le informazioni su quanto il governo fascista dei petrolieri texani sta facendo a Guantanamo, per noi, questa messa in scena di fondamentalismo splatter alla Mel Gibson, non è altro che l’espressione tardiva degli incubi di un signore a cui sono state impartire sin da piccolo lezioni sistematiche di sadismo religioso, studiando sui banchi di scuola i fondamenti sottostanti alla ben nota legge del Far West (quella del più forte!), su cui si costruì tutta la storia americana (con le sue appendici di sistematica strage di pellerossa e di bisonti), piuttosto che quei messaggi di giustizia sociale e di umana comprensione che ci suggerisce invece il capolavoro artistico del nostro Pasolini.
In una ben riuscita operazione mercantile alla “body art”, in cui il linciaggio del corpo tormentato del Cristo riporta alla memoria i mille linciaggi razzisti perpetrati alla popolazione afroamericana nel cuore violento dell’Alabama da parte del famigerato Klu-Klux-Klan, il Gibson rivela, come qualcuno ha notato, “lo stesso glamour dei fondamentalisti islamici nemici della cristianità”, facendo da ruota di scorta figurale alle parellele paranoie “letterarie” della scrittrice neo-con Oriana Fallaci.
Svilito l’alto concetto del “sacro”, caro a Georges Bataille, alla famosa pratica didattica anglosassone delle salutari scudisciate sulla pelle nuda degli innocenti, nella rivisitazione spettacolare della tanto attuale lotta tra il bene e il male, nulla trapela in questo film di un qualche evangelico rispetto per la persona umana, neppure il più minimo accenno ai diritti dell’uomo alla vita e all’autodeterminazione; la “parola di Cristo” è annullata, solo l’introiezione supina della nenia quotidiana del “predicatore” Bush a cui il film fa, volente o nolente, da diretta cassa di risonanza: “Non gli daremo tregua” – “Li prenderemo tutti” – “Non ci sfuggiranno” – “Stiamo facendo la «cosa giusta»”.
Visionata nell’occasione di una pasqua che non è mai stata così intrisa di sangue come quella appena trascorsa, lontanissima dal messaggio di una qualche redenzione, senza che nessun segnale di resurrezione si riesca a intravedere al fosco orizzonte di tale monolitica volontà imperiale, la pellicola di Gibson non è altro che la fotocopia del globale film horror che la superpotenza americana ci trasmette sotto gli occhi tutti i “santi” giorni. A questo “bad boy” della grigliata filmica servita a crudo, ci sentiamo in dovere di riconoscere un solo merito: quello di esser riuscito a trasferire nei collaudati moduli del verbo hollywoodiano la “via crucis” dei detenuti di Guantanamo, esempio supremo del totale degrado morale di un “modello” di democrazia.