La sfida attuale consiste nel contrapporsi al tentativo dei dominanti di estendere la mercificazione del bene acqua in tutto il pianeta. L’attualità di questa manovra è svelata dal fatto che tale mercificazione sia all’ordine del giorno del WTO; né si può dimenticare che, già nel settembre scorso, era ai primi posti dell’agenda dei trattati sul libero commercio di Cancùn; né si può non evidenziare, d’altronde, che proprio in quella occasione l’UE, che dovrebbe essere paladina della sua civiltà millenaria, aveva richiesto la liberalizzazione dei servizi idrici di 72 paesi, tra i più poveri della terra, nell’intento di avvantaggiare le sue multinazionali.
Il tentativo di portare a compimento la mercificazione universale del bene acqua viene condotto attraverso tre processi distinti.
Il primo processo si concretizza attraverso la privatizzazione dei servizi idrici dati in gestione alle multinazionali.
Il secondo si realizza attraverso la vendita di acqua di rubinetto imbottigliata, con un fortissimo innalzamento del prezzo (da 0,50 euro/mc a 0,30 euro/litro). In Europa e in Italia non solo l’acqua del rubinetto viene data in concessione alle multinazionali (Nestlè, Danone, Coca Cola) ma si sta anche verificando la tendenza a dare la concessione di captare dalle sorgenti e immettere sul mercato, anziché in rete, l’acqua con le migliori caratteristiche. Si va, così, innescando un processo di degrado delle qualità specifiche dell’acqua degli acquedotti e un ricorso sempre più considerevole all’acquisto di acqua imbottigliata. Un’ulteriore riprova della grande diffusione della vendita di acqua in bottiglia la si ha proprio nei paesi del terzo mondo dove ormai si beve, quasi esclusivamente, acqua imbottigliata dalla Coca Cola, nonostante il costo incida intorno al 20/30% del reddito di quelle popolazioni.
Il terzo processo della privatizzazione dell’acqua si realizza attraverso la costruzione dei grandi invasi che, finanziati attraverso la Banca Mondiale, riescono a favorire le imprese transnazionali idroelettriche e della grande adduzione piuttosto che le popolazioni locali. La realizzazione di tali grandi opere, infatti, comporta, oltre allo spostamento di popolazioni povere in regioni non ospitali, dove non sono previsti né alloggi né riconversione del lavoro, anche negativi mutamenti climatici e, soprattutto, variazioni estreme della portata dei grandi fiumi che attraversano più nazioni, innescando così situazioni di crisi internazionali (guerre dell’acqua).
Il tentativo di imporre la privatizzazione, portato avanti da partners potenti (multinazionali, governi nazionali, UE, intellettuali del pensiero unico, etc.), induce estrema preoccupazione in tutti coloro che ritengono che l’affermazione del principio dei “diritti fondamentali” e dei “beni comuni” costituisca una discontinuità positiva per il grado di civiltà dell’umanità.
Tuttavia, così come spesso avviene in situazioni drammatiche, cominciano a manifestarsi, in Europa, ma anche in Italia, alcune piccole, significative vittorie. L’11 marzo 2004, a Strasburgo, il Comitato Internazionale per il Contratto Mondiale dell’Acqua è riuscito a far ribaltare la proposta della Commissione Giuridica dell’UE (Rapporto Miller: “Strategie per il mercato interno- priorità 2003/2006”), raggiungendo due significativi risultati: l’approvazione di un emendamento che chiedeva di escludere l’assoggettamento della gestione delle risorse idriche dalle norme del mercato interno; l’approvazione di un secondo emendamento che ha rigettato la richiesta della Commissione di accogliere con favore le proposte di continuare la liberalizzazione, segnatamente nel settore dell’acqua e dei servizi postali (art. 10).
Questo successo (il parlamento europeo ha, comunque, sempre la possibilità di ritornare sulle sue decisione) è stato ottenuto con due azioni combinate: una di lobbing da parte della società civile (invio di e-mail ai parlamentari europei con le quali venivano richiamati alla propria “responsabilità”, avvisandoli anche che il voto sarebbe stato nominale per cui la cittadinanza ne avrebbe preso atto anche ai fini delle prossime elezioni); l’altra, personale, condotta da tre esponenti della lotta per il diritto alla vita, Daniel Mitterand, Alex Zanotelli e Riccardo Petrella, attraverso l’audizione concessa loro dal Parlamento europeo.
In Italia, negli ultimi tempi, sono state registrate altre piccole/grandi vittorie. La situazione al 2003 era drammatica: con l’art. 35 della Finanziaria del 2003 che imponeva la privatizzazione, l’Italia si proponeva a livello europeo come paese leader nel campo della privatizzazione della gestione dei servizi idrici (introdotta in Europa sin dal 1994, con la ratifica dell’UE degli accordi dell’Uruguay Round).
In questa fase il Comitato Italiano per un Contratto Mondiale dell’Acqua è stato il “collante” culturale di azioni che venivano intraprese in tutt’Italia. Alla strenua difesa della sana gestione pubblica dell’acqua da parte del Consorzio di comuni (circa 50) della provincia di Ascoli Piceno, si aggiungeva, infatti, la protesta di circa 150 sindaci lombardi, quasi tutti del centro-destra, contro la legge regionale di attuazione della legge Galli. Essi non capivano perché, trattandosi di comuni pedemontani (Alpi), con acqua di buona qualità e a basso costo (non c’è bisogno di sollevamento), dovessero affidare la gestione dei sistemi idrici ad aziende esterne.
Questi 150 comuni, attualmente, stanno riscrivendo, insieme con i rappresentanti della regione Lombardia, la legge di applicazione della legge Galli, nella quale introdurranno i criteri enunciati nell’art. 14 della Finanziaria del 2004 (altro risultato ottenuto dal Comitato di cui si parlerà in seguito). Tutto ciò consente che il dibattito rimanga aperto anche nei grandi comuni di quella regione.
Altro importante risultato ottenuto è la costituzione, avvenuta nell’autunno del 2003, dell’Associazione, trasversale, dei parlamentari (Folena, Realacci, Vendola, etc.) che intende battersi in Parlamento per l’affermazione dell’acqua come diritto universale inalienabile, con riferimento ai principi del Manifesto dell’Acqua, redatto nel 1998.
L’azione combinata di queste varie forze sensibilizzate ha indotto il governo a modificare la normativa italiana. La legge 326, promulgata il 24/11/2003, infatti, comprende l’art. 14 che, abrogando l’art. 35 della Finanziaria 2003, consente di realizzare in house, in consorzio o attraverso S.p.A. totalmente pubbliche, la gestione delle risorse idriche. Fino al 31/12/2006, dunque, non esiste più l’obbligo di privatizzare.
A questi successi se ne deve aggiungere un altro; nei primi giorni del marzo 2004, a Bedonia (in provincia di Parma), si sono riuniti i rappresentanti di quasi 1.000 comuni, i più piccoli del Piemonte, della Toscana, dell’Emilia - Romagna, della Lombardia, etc., per dar vita ad un coordinamento di comuni che intendono ribellarsi alla privatizzazione della gestione delle risorse idriche. Ciò porterà sicuramente a una serie di conquiste che permetterà, con l’applicazione dell’art. 14 nelle leggi regionali, di poter gestire la risorsa idrica in consorzio e in house. Inoltre le regioni, per consentire ad alcuni di questi comuni di potersi consorziare, saranno costrette a determinare dei sub-ambiti, andando così in deroga alla legge Galli.
A questo punto, in modo provocatorio, c’è da chiedersi se esistano ancora i presupposti per l’attuazione della legge Galli, o se, invece, non sarebbe il caso di propendere per l’emanazione di una nuova legge che regolamenti la gestione dei sistemi idrici integrati.
È, dunque, più che mai il tempo di rilanciare la campagna contro la privatizzazione dell’acqua in qualsiasi forma, e, sempre di più, avvalendosi dell’apporto e dell’interlocuzione con gli amministratori locali, i politici, le organizzazioni sindacali, l’associazionismo e la società civile, continuando simultaneamente sia l’azione educativa nelle scuole che i dibattiti nei quartieri, poiché questo è il processo che ha determinato uno scontro politico nel Paese sulle posizioni riguardanti la privatizzazione.
Poiché l’art. 14 blocca le privatizzazioni, si ha la possibilità di riflettere sul significato della presenza delle S.p.A. nella gestione dell’acqua. È persino superfluo sottolineare che se si affida la gestione del servizio idrico anziché ad un ente pubblico, ricadente nella sfera del diritto pubblico, ad una S.p.A., per sua natura afferente alla sfera del diritto privato, assurgerebbero come predominanti non già i diritti dei cittadini, ma quelli degli azionisti. Una S.p.A., inoltre, non può consentire in alcun modo il fiorire della nuova idea di pubblico consapevole attuata attraverso la democrazia partecipata dei cittadini. L’unica dottrina che ispira una S.p.A. e il suo Consiglio di Amministrazione, è la remunerazione del capitale investito.
È utile, invece, sottolineare che le multinazionali già in varie occasioni hanno dimostrato tutta la loro fragilità. Gli esempi sono numerosi: è accaduto con il crollo in Borsa della Vivendi (una holding ingranditasi a dismisura acquisendo altre S.p.A.), e stava accadendo alla stessa ACEA che occupa nuovi mercati all’estero spacciandosi per cooperazione internazionale (gestione dei servizi idrici di Lima, di Tirana, etc.). Il caso più eclatante, tuttavia, rimane il crac Parmalat, emblematico per il capitalismo contemporaneo pervaso da un problema etico mai verificatosi prima: i capitalisti rubano a se stessi e alla propria azienda.
È importante che la gestione dei servizi idrici non preveda l’ingresso dei privati né attraverso le multinazionali né tramite S.p.A. al 51% pubbliche come l’ACEA. Proprio la fuoriuscita da questa logica costituisce l’elemento culturale che consente di battere la tendenza mondiale alla privatizzazione della risorsa.
È altrettanto importante che si arrivi alla costruzione di un nuovo pubblico fondato sulla partecipazione dei cittadini, cercando contemporaneamente anche nuove forme di finanza cooperativa attraverso le quali i cittadini possano concorrere salvaguardando il proprio risparmio.
Proprio in quest’ottica il Comitato Territoriale di Potenza ha deciso di intraprendere, insieme alle associazioni, alla società civile, a eventuali sindacati, e a tutti i cittadini che sostengono la stessa causa, una lotta per chiedere la modifica dello statuto di Acquedotto Lucano S.p.A., nato in funzione dei dettami dell’art. 35 della finanziaria 2003 ed, eventualmente, la legge regionale di attuazione della legge Galli.
Che cosa decideranno di fare i cittadini pugliesi se veramente sono consapevoli di essere dinanzi a una crisi di civiltà?