Che cos'è una rivista di sinistra. Ricordando "Praxis"
di Alberto Altamura

Quarant’anni fa, nel 1964, veniva pubblicato in Jugoslavia il primo numero della rivista Praxis. Ripensarne, oggi, la storia non significa soltanto tributare un omaggio doveroso agli intellettuali che con passione, per un decennio, da quelle pagine sostennero le ragioni di un marxismo aperto e alternativo a quello propugnato dal socialismo burocratico di stampo sovietico; ma significa, soprattutto, ritrovare il senso autentico di una rivista di sinistra.


1. L’equivocità della “destalinizzazione”
Dal 5 marzo 1953, giorno della morte di Stalin, al 1956, l’anno del XX congresso del Partito comunista sovietico, diventato celebre per la seduta “a porte chiuse” in cui Nikita Kruscëv denunciò i crimini staliniani, si verificarono nell’Europa orientale una serie di eventi che, subito, dimostrarono il carattere equivoco della “destalinizzazione”.
Nel giugno del 1953, gli operai berlinesi furono i primi a tentare una rivolta contro il regime instaurato dalla SED (Partito di Unità Socialista) nella Repubblica Democratica Tedesca, ma nulla poterono contro la repressione condotta dalle truppe sovietiche. Nella primavera del 1955, facendo tramontare la linea dettata da Stalin, che dal 1948 aveva sostenuto la tesi del “complotto titoista”, l’URSS sembrava pronta per una ricomposizione dei rapporti con la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, ma essi erano destinati a ritornare tesi dopo il Congresso della Lega dei Comunisti Jugoslavi tenutosi a Lubjana nel 1958. In Polonia gli scioperi e le proteste operaie, serpeggianti già dal 1954, culminarono nella rivolta di Poznan esplosa nel giugno del 1956; stroncata dalle truppe sovietiche, la rivolta polacca non diventò il pretesto per un’invasione militare solo grazie all’azione di Gomulka, che come perseguitato politico dell’epoca staliniana godette presso il popolo della credibilità necessaria per svolgere una preziosa opera di mediazione con il governo sovietico. In Ungheria, dopo l’esaurimento del “nuovo corso” inaugurato da Imre Nagy nel 1953, le tensioni antisovietiche sfociarono nella rivolta di Budapest nell’ottobre del 1956; in questa occasione l’intervento delle truppe sovietiche fu durissimo: gli esponenti più in vista della rivolta e i membri del governo in carica furono giustiziati o deportati.
L’ambiguità della “destalinizzazione”, del resto, era possibile coglierla già nell’azione di Kruscëv, che l’aveva avviata per meglio condurre una resa dei conti interna al gruppo dirigente sovietico. Come opportunamente osserva Kolakowski, dal rapporto Kruscëv, ad esempio, non venivano riabilitati gli oppositori di Stalin, come Bucharin o Kamenev, ma solo le vittime che avevano fatto parte dell’entourage stalinista; la stessa mancanza di una analisi storico-sociale del sistema stalinista serviva ad occultare le ragioni di una mai realizzata opera di democratizzazione, nonostante si procedesse alla liberazione di milioni di internati politici dell’epoca staliniana e si rinunciasse al terrore di massa. “La rinuncia al terrore di massa – scrive Kolakowski – fu essenziale per la sicurezza degli uomini, ma non intaccò la posizione di onnipotenza dello Stato rispetto all’individuo: non accordò ai cittadini nessun diritto istituzionale, né privò lo Stato e il partito del monopolio dell’iniziativa e del controllo in tutti i settori della vita”.(1)
È importante osservare, tuttavia, che, nei succitati contesti territoriali, la critica del “socialismo realizzato” venne sviluppata, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, proprio dagli intellettuali marxisti.
Rispetto alle analisi sviluppate in Occidente, sia dagli intellettuali attestati su posizioni ideologiche anticomuniste che da quelli di sinistra, e rispetto a quelle elaborate in Europa orientale da intellettuali nazionalisti o cattolici, le analisi critiche formulate dagli intellettuali marxisti dell’Est europeo hanno un valore particolare sia perché non sono “critiche esterne”, sia perché, scaturendo sullo stesso terreno ideologico, ci consentono di valutare lo “scarto” esistente tra quanto si era andato storicamente realizzando e il pensiero di Marx e, allo stesso tempo, ci permettono di dimostrare la validità dell’apparato concettuale marxiano anche nella critica delle varie modalità di “socialismo reale”.
Ha, quindi, perfettamente ragione Johann P. Arnason quando afferma che “la riscoperta di Marx nell’Europa orientale è stata dappertutto ispirata a uno spirito critico superiore a quello che si è manifestato in Occidente”(2).

2. Il marxismo jugoslavo: una via nazionale al socialismo
Stretti, all’inizio del Novecento, fra il feudalesimo dell’impero ottomano e il dominio austro-ungarico, i popoli balcanici si costituirono come stato unitario di Jugoslavia soltanto al termine della prima guerra mondiale. L’unificazione, tuttavia, non modificò l’assetto economico che continuò ad essere, fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale, quello di un paese semicoloniale e arretrato, con una popolazione per tre quarti occupata in agricoltura. In questo contesto, il pensiero marxista, divulgato già nella seconda metà dell’Ottocento, sperimentò tutte le fasi di un movimento rivoluzionario costretto a svilupparsi in condizioni di arretratezza economica, come quelle che funestavano una campagna composta da una moltitudine di piccole e frammentate proprietà rurali a fronte di pochi grandi latifondisti, e di subalternità al capitalismo europeo, come attestato dalla totale dipendenza dell’industria locale dagli investimenti francesi, inglesi e, col passare degli anni, soprattutto tedeschi.
Il pensiero marxista dovette fare i conti con gli attacchi che colpivano duramente l’azione politica del Partito Comunista Jugoslavo (PCJ), che fu costretto, fino alla seconda guerra mondiale, ad operare in clandestinità.
La forza della struttura organizzativa del partito, che dal 1937 era guidato da Josip Broz-Tito (1892-1980), venne messa alla prova, in modo decisivo, nell’aprile del 1941, quando, all’inizio dell’occupazione fascista, Tito lanciò un importante appello all’insurrezione.
Il 17 aprile del 1941 i territori della Jugoslavia, costretta alla capitolazione, vennero divisi tra i governi fascisti tedeschi, italiani, ungheresi e rumeni, oppure sottoposti a regimi da loro totalmente dipendenti. Il 1 maggio dello stesso anno il PCJ annunciò l’intenzione di organizzare la resistenza per la liberazione nazionale, passando così ad una vasta iniziativa di lotta armata che coinvolse, fino alla fine della guerra, circa 800.000 combattenti.
Negli anni del dopoguerra, il PCJ, ormai al governo in una coalizione “frontista”, si trovò a dover fronteggiare non solo una situazione economica disastrosa, ma anche le accuse che venivano mosse dall’URSS.
Affermatosi come forza di governo all’interno di una lotta di liberazione nazionale, il socialismo jugoslavo metteva implicitamente in discussione il dogma staliniano dell’“unica via al socialismo”. Per questa ragione, dopo il rapporto Zdanov sulla situazione internazionale, che nel 1947 condannava il socialismo jugoslavo in quanto compromesso con il capitalismo, non tardarono a manifestarsi accuse più esplicite, che culminarono nelle lettere di Stalin (20 marzo 1948) e Molotov (4 maggio 1948), nelle quali si condannava Tito in quanto fautore di una politica antisovietica, come liquidatore del partito nel Fronte Popolare, e, soprattutto, come un opportunista interessato a sviluppare elementi capitalistici all’interno di una economia socialista.
Le dichiarazioni pubbliche con le quali il Comitato Centrale del PCJ replicò a Mosca portarono il 28 giugno del 1948 alla condanna del PCJ da parte del Cominform. Il sostegno offerto al proprio Comitato Centrale dal V congresso del PCJ (21-28 luglio 1948) sancì, poi, definitivamente la rottura con l’URSS di Stalin.
Predrag Vranicki ha letto questa rottura come la dimostrazione della presenza di due diverse concezioni del marxismo, quella burocratica staliniana e quella dell’autogestione jugoslava: “Vedendo che il rafforzamento del centralismo statale implicava di necessità il consolidamento degli elementi burocratici e statalistici, i comunisti jugoslavi cominciarono a decentrare l’apparato statale e a lottare contro il burocratismo”(3). In questa prospettiva, Vranicki individua nel 27 giugno del 1950 una “data importante per la storia e la teoria del socialismo moderno”, perché segnò l’avvio in Jugoslavia di una legislazione volta a trasferire la direzione delle imprese economiche statali ai collettivi operai e, quindi, a realizzare, di contro a un “socialismo burocratico”, un “socialismo autogestito”.
La lotta al burocratismo non poteva risparmiare la stessa funzione del partito, che doveva smettere di essere l’organo supremo di amministrazione politica ed economica. Non a caso, nel 1952, il PCJ con un atto di forte valore simbolico si trasformò nella Lega dei Comunisti Jugoslavi (LCJ).

3. Il socialismo autogestito jugoslavo
La descrizione dei fondamenti teorici del modello di “socialismo autogestito jugoslavo” è contenuta nel “Programma di Lubjana”, elaborato nel 1958 dalla LCJ (Program saveza komunista Jugoslavije).
I teorici jugoslavi muovevano nelle loro considerazioni dalla nozione marxiana di “socializzazione dei mezzi di produzione”, non esaurendola nella “nazionalizzazione socialista” di stampo sovietico: “La dottrina del partito jugoslavo non nega il carattere sociale della proprietà nazionalizzata dei mezzi di produzione, ma la considera come una forma più bassa, embrionale, di possesso sociale”(4).
Adottata nella fase di rovesciamento dello Stato capitalistico, la nazionalizzazione dei mezzi di produzione nello Stato socialista poteva trasformarsi in una forma di “proprietà sociale indiretta”, che non abolisce il lavoro salariato.
Gli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, nei quali l’essenza del comunismo veniva individuata nella “libera associazione dei produttori diretti”, portavano i teorici jugoslavi ad affermare, nel Programma di Lubjana, che “Il socialismo è un sistema sociale basato sulla socializzazione dei mezzi di produzione, in cui la produzione sociale è guidata dai produttori diretti associati”.
Rispetto alla proprietà statale si puntava ad una “autogestione dei produttori”: “L’essenza economica del processo di autogestione, secondo la dottrina jugoslava, consiste in una limitazione dell’attività economica diretta della Stato e in una estensione del terreno delle decisioni autogestite attraverso un crescente decentramento del controllo sull’economia”(5).
Il decentramento avrebbe aperto la strada ad un “mercato socialista” i cui protagonisti non dovevano essere soggetti privati, ma produttori associati, collettivi di lavoratori. Allo Stato venivano lasciati compiti di previsione di linee di sviluppo, di lotta a comportamenti monopolistici, di conseguimento di obiettivi sociali di lungo periodo, come lo sviluppo di aree arretrate o la promozione di politiche atte a sanare problemi sociali acuti.
Le posizioni teoriche sviluppate nel Programma del ’58 trovarono una prima realizzazione, alla metà degli anni Sessanta, nella riforma economica del 1965 e, poi, nella Costituzione del 1974.
In questo stesso decennio sorge e si consuma l’esperienza della rivista filosofica “Praxis”

4. L’autogestione integrale: la rivista “Praxis”
La rottura con il socialismo sovietico, maturata nel 1948, e l’avvio, nel 1952, del processo di critica del burocratismo che sarebbe, poi, sfociato nella teorizzazione dell’autogestione socialista, avevano bisogno di una legittimazione teorica di stampo marxiano. Non è, quindi, un caso che nel 1953, l’anno della morte di Stalin, comincino a circolare, tradotte in serbo-croato, le opere giovanili di Marx e che, di conseguenza, si avvii rispetto ad esse una discussione e una “rilettura” di tutta l’opera marxiana.
Negli anni Cinquanta, in quella fase che Vranicki ha definito del “marxismo creativo” jugoslavo, si promossero, pertanto, discussioni e convegni che potessero accompagnare, sul piano della riflessione filosofica, il superamento della tradizione sovietica. Eventi importanti di questa stagione furono la nascita, a Belgrado nel 1959, della rivista Filosofija e il convegno, tenutosi a Bled nel novembre del 1960, per ridiscutere la teoria leniniana del rispecchiamento.
In questo fermento di riflessioni teoriche, nel 1963, venne fondata nell’isola di Korcula una Scuola estiva di filosofia aperta a intellettuali europei, da cui nacque, l’anno successivo, la rivista Praxis. Pubblicata in serbo-croato dalla Società Filosofica Croata di Zagabria, la rivista avrà dal 1965 una edizione internazionale, sostenuta da un comitato di redazione del quale faranno parte anche alcuni intellettuali italiani come Cerroni, Paci e Zanardo(6).
L’obiettivo fondamentale della rivista era così riassunto da Vranicki: “Proclamando il principio della critica di tutto l’esistente, i collaboratori di Praxis proposero un principio fondamentale e indispensabile per lo sviluppo stesso del socialismo, il principio cioè che il socialismo è una società aperta e che per il marxismo non esistono sfere che possano sottrarsi alla critica dialettica”(7).
Questa dichiarazione di principio portava Vranicki a sottolineare la specificità del legame che univa i marxisti jugoslavi alla politica del “socialismo autogestito” promossa dalla LCJ. Infatti, nella sua Storia del marxismo, egli affermava esplicitamente che “[…] i filosofi jugoslavi hanno visto nella realizzazione dell’associazione dei liberi produttori (Marx) e dell’autogestione operaia e sociale la sola possibilità storica di superare il lavoro salariato e le varie forme di alienazione della società moderna” e, allo stesso tempo, insisteva sulla necessità di non ridurre il tema dell’autogestione ad una scelta di natura economica volta ad aumentare la redditività del sistema produttivo. Il senso autentico dell’autogestione andava, quindi, ricercato nella “creazione di una nuova persona storica e di rapporti sociali nuovi, capaci di abolire la dipendenza dell’uomo da singoli, da gruppi o gerarchie”(8).
L’essenza rivoluzionaria del socialismo autogestito, sottolineata da Vranicki, veniva rivendicata in modo ancora più forte e diretto da Gajo Petrovic, capo redattore di Praxis, nel saggio scritto, nel 1971, per il numero internazionale della rivista dedicato a Un moment du socialisme yugoslave. In un intervento intitolato Burokratischer Sozialismus?, Petrovic metteva esplicitamente in discussione la dimensione parziale dell’autogestione: “L’autogestione parziale nelle singole imprese, l’elezione ‘democratica’ dei piccoli funzionari, la libertà per l’arte e la letteratura moderna, la tolleranza verso tutti gli indirizzi filosofici (con una sola eccezione, quelli marxisti), il culto della cultura nazionale, l’apertura delle frontiere ai turisti stranieri, la grande varietà di vestiti di ogni colore esposti nelle vetrine e la quantità di automobili che riempiono le strade, tutto ciò può essere soltanto un belletto con il cui aiuto la burocrazia cerca di nascondere la vera natura del suo dominio”(9).
La “velenosa” affermazione messa in parentesi denunciava il disagio degli intellettuali marxisti raccolti intorno a Praxis, delusi dagli attacchi che venivano loro mossi, nella Jugoslavia socialista dell’“autogestione parziale”, in quanto fautori di una “autogestione integrale”.

5. L’equivocità del riformismo: la fine di “Praxis”
Gli attacchi a Praxis vennero mossi fin dai suoi primi anni di attività.
La rivista fu duramente criticata da Tito già al terzo plenum del CC della LCJ nel febbraio del 1966 e, nel giugno dello stesso anno, dovette sostenere l’offensiva avviata dal croato Bakaric, capo della Lega, che, dopo aver descritto, in un articolo pubblicato sul giornale zagrebino “Vjesnik”, le posizioni di Petrovic e di Milan Kangrga, altro importante redattore di Praxis, “non in armonia con la prassi dello sviluppo socialista in Jugoslavia”, si impegnò a sospenderne la pubblicazione per otto mesi.
Dal momento che Bakaric rappresentava la posizione dei riformisti impegnati nella modernizzazione del sistema economico jugoslavo, i suoi attacchi costituiscono una interessante manifestazione del carattere equivoco della posizione riformista.
Nel 1967, un attento studioso marxista come Iring Fetscher riconosceva al marxismo aperto jugoslavo il merito di essere riuscito a cogliere e a denunciare l’ambiguità di un riformismo socialista che, nella ricerca di utili economici, finiva con il guardare ai cittadini come a dei semplici “consumatori” da soddisfare attraverso il potenziamento dell’efficienza economica del sistema e, quindi, con il rappresentare una variante di mercato alla disumanizzazione staliniana: “Spesso i modernizzatori – scrive Fetscher – non sembrano preoccuparsi delle conseguenze sociali delle innovazioni, così come prima di loro gli stalinisti non si preoccupavano delle vittime fatte dalle loro misure amministrative”(10).
Non deve, pertanto, apparire paradossale che, mentre i membri ortodossi della LCJ, fautori di una rigida centralizzazione e rappresentati da Rankovic, allora capo della polizia segreta (UDBA), non si impegnarono attivamente nella repressione di Praxis, furono proprio i riformisti come Bakaric ad ostacolarla in tutti i modi, sospendendone temporaneamente le pubblicazioni o fondando riviste concorrenti come Encyclopaedia moderna, pubblicata come Praxis anche in edizione internazionale.
Le critiche vennero rinnovate nel giugno del 1968, quando, di fronte alle richieste di democratizzazione della LCJ avanzate dal Movimento Studentesco di Belgrado, i filosofi di Praxis vennero accusati di aver fomentato ed organizzato i moti di protesta.
Nel giugno del 1971, poi, la pubblicazione del fascicolo dedicato alla “crisi del socialismo jugoslavo” portò ad una procedura giudiziaria che si intrecciò all’aggiustamento imposto da Tito alla linea dell’autogestione e consistente nella sottolineatura del ruolo di orientamento che la LCJ doveva avere nel sistema dell’autogestione.
La curvatura centralistica del sistema dell’autogestione veniva giustificata da Tito come un correttivo da adottare per impedire che quel sistema prendesse una piega nazionalistica in Croazia e una liberista in Serbia. In quella occasione a Praxis venne rimproverato aspramente di non aver preso parte alla campagna contro la deriva nazionalista del sistema dell’autogestione.
La resa dei conti definitiva avvenne, a partire dai primi mesi del 1974, con l’espulsione dall’Università di Belgrado di otto professori legati alla rivista Filosofija e collaboratori di Praxis; in seguito dall’Università di Lubjana furono allontanati quattro sociologi collaboratori della rivista; vennero poi sospesi i finanziamenti e, in ultimo, come Gabriella Fusi ricorda, non senza una certa ironia, venne il rifiuto dell’organo di autogestione della tipografia di stampare ancora la rivista(11).
Fu uno dei tanti segmenti di autogestione - segmenti subalterni al dominio burocratico di un apparato statale che si perpetuava proprio grazie alla atomizzazione dell’autogestione, all’isolamento degli operai legati ai particolaristici interessi delle singole fabbriche autogestite -, l’organo di autogestione di una tipografia a contribuire, nel suo piccolo, alla fine di una rivista che, con Gajo Petrovic, aveva sostenuto che scopo del socialismo non è lo sviluppo ottimale delle merci.
L’anima stalinista del riformismo non ha passioni di sinistra.


1) L. KOLAKOWSKI, Nascita sviluppo e dissoluzione del marxismo. La crisi, SugarCo, Milano, 1985, vol. III, p. 410.
2) J. P. ARNASON, Il marxismo nell’Est europeo, in Aa.Vv., Storia del marxismo, vol. 4, Einaudi, Torino 1982, p. 146.
3) P. VRANICKI, Storia del marxismo, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. II, p. 511.
4) W. BRUS, Il funzionamento di un’economia socialista, in Aa.Vv, Storia del marxismo, vol. 4, cit. p. 227.
5) Ivi, p. 229.
6) Della redazione internazionale di facevano parte, solo per citarne alcuni, intellettuali come Bloch, Fromm, Gorz, Habermas, Heller, Kosík, Lukács, Kolakowski, Marcuse.
7) P. VRANICKI, op. cit., p. 563.
8) Ivi, pp. 552.
9) G. PETROVIC, Burokratischer Sozialismus?, in “Praxis” ed. Internazionale, nn.3-4, 1971, pp. 497-494; trad. it. in “aut aut”, n. 145-146, 1975.
10) I. FETSCHER, L’attuale dibattito filosofico nei paesi dell’Europa orientale (1967), in Le scienze nei paesi comunisti, De Donato, Bari 1969, p. 28.
11) G. FUSI, L’opposizione filosofica e politica in Jugoslavia: la rivista “Praxis”, in “aut aut”, n. 148, 1975, p. 37.

maggio - agosto 2004