I. In mezzo
La democrazia non è all’altezza del terrore. Questo sospetto non è nuovo: nella Repubblica Federale Tedesca degli anni Sessanta/Settanta i Notstandsgesetze (leggi d’emergenza), varati per contrastare gli attacchi di gruppi estremistici come la RAF (era in gioco il consensus democratico di tutta una generazione), hanno prodotto una infiltrazione clandestina di misure di ordine, che non trovano legittimazione se non nella difesa di un sistema statale incontestato perché conveniente alla maggioranza della popolazione. Oggi questo sospetto si ripresenta di fronte alla minaccia di un terrorismo più potente perché universalmente preparato.
Questo terrorismo rivendica a sé il diritto di amministrare la giustizia, pretende di conoscere la via più diretta, se non l’unica, per raggiungere uno stato giusto, negato oppure mancato dalle rappresentanze istituzionali che dovrebbero costituire la garanzia di un sistema democratico. E proprio su questo punto cruciale la strategia terroristica si è dimostrata “superiore” alle forze democratiche, poiché le ha costrette a intervenire sui principi di legalità che fondano la democrazia. Poiché non riguardava che una minima parte dei cittadini, nessuno ha messo in evidenza la contraddizione inerente alle restrizioni imposte nell’area delle libertà civili (si pensi al cosiddetto Lauschangriff, cioè al diritto concesso allo stato di sorvegliare la sfera privata di persone sospette, senza che il sospetto venga motivato).
In una situazione in cui il governo di uno degli stati più potenti prescinde dal mandato dell’ONU per iniziare una guerra (definita ‘preventiva’); in un tempo in cui il presidente del consiglio di un stato europeo cambia la legislazione ad uso personale, comportamento comunque già anticipato da un esponente statale (di diverso colore politico) con l’affermazione, pronunciata in un contesto apparentemente secondario, “purtroppo la costituzione prevede...”; appare quasi insignificante occuparsi della continua pressione che in Germania i dirigenti socialdemocratici esercitano sul proprio partito allo scopo di ottenere il consenso necessario a sostenere un piano di riforme ritenute inevitabili in base al sistema economico adottato. Il ricorso alla permanente minaccia di dimissioni da parte del Kanzler Schröder, presentate come una perdita di potere, costituisce l’arma di ricatto. I risultati delle ultime elezioni in Germania dimostrano che la maggioranza degli elettori ha ormai smesso di sostenere un governo che non può fare altro che limitare i danni, e lo fa persino con una certa presunzione.
Le elezioni degli ultimi anni — come è avvenuto palesemente negli Stati Uniti in occasione delle ultime elezioni presidenziali — non solo non rispecchiano le scelte della popolazione, ma, nel migliore dei casi, rappresentano uno strumento di difesa di una volontà generale preoccupata solo di evitare il peggio.
In circoli privati da parecchio tempo si progetta un sistema elettorale che consenta di votare non a favore, ma “a sfavore” di un determinato partito, per conservare un momento di sincerità e per soddisfare un minimo bisogno di espressione nel voto, salvando così la propria Stimme. Siamo al punto che per un democratico della prima ora, come Günter Gaus, giornalista liberale e per sette anni capo della Ständige Vertretung (Rappresentanza Permanente, poiché per motivi di riconoscimento non era possibile avere consolato, né ambasciata) della Repubblica Federale nella Repubblica Democratica Tedesca, è ormai giunto il momento di dire che “das Spielchen ist aus” (“il giochetto è finito”). Con queste parole Gaus ritiene, infatti, ormai superato il ragionamento del tipo: “io non vado a votare, ma poi mi duole la coscienza democratica, quindi ci vado comunque e voto questi per punire gli altri” (in “Süddeutsche Zeitung” del 24-VIII-2003).
Visto che la democrazia tedesca è stata un regalo degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, è norma di buona educazione che un dono si custodisca gelosamente, non si butti, non si trasferisca, non si distrugga né dolosamente, né colposamente, e non se ne chieda il costo. Diventa, quindi, un segnale inquietante se Gaus, ciononostante, confessa di “non essere più un democratico” (“Ich kein Demokrat mehr bin”).
Il sovrano non é più disposto “a impegnarsi qualche volta nel prendere cognizione del fare (e non fare) politico e delle cospicue conseguenze”, ma si concede ‘dall’alto’, dall’altezza del sole, di cui già la maestà aveva bisogno quando si trattava di rimanere all’oscuro circa le mene antidemocratiche e gli svolgimenti erronei della politica guglielmina: “Majestät braucht Sonne”.
Soffocando la voce - non violentemente - la democrazia è diventata l’altoparlante dell’incompetenza retriva.
II. Prevenzione e ultima ratio
La democrazia è tecnicamente alla retroguardia.
Dietro il fronte della modernità, lo sviluppo di nuove forme di una volontà politica democratica è reso necessario dalle possibilità di manipolazione biologica. Laddove esiste la possibilità di intervenire sulle facoltà individuali tramite manipolazioni del codice genetico, la nozione di un soggetto libero, autodeterminato e autocritico, cioè il soggetto su cui si fonda il pensiero liberale e democratico, viene meno. Il doping genetico rende desueta l’autoaffermazione del soggetto produttrice in un concorso di efficacia. Koch parla della morale produttrice della società industriale, che politicamente si gestisce mediante la democrazia rappresentativa (Claus Koch, “Der neue Phosphoros”, 15. Ausgabe, 24-X-2003).
Il progetto di una Bürgerrente (reddito di cittadinanza) prende certamente atto delle sempre più carenti risorse finanziarie disponibili per mantenere il sistema sociale attuale (basato sull’idea della compensazione statale dei bisogni di chi è socialmente debole e di chi non può più mantenersi con il proprio lavoro), ma anche del sempre più precario concetto di una rete solidaria di previdenza con cui uno Stato, come intera unità dei suoi cittadini lavoratori, assicura la sua permanenza e garantisce un sostegno alle aspettative della collettività (Koch).
Poiché il senso democratico non è diventato Geist, cioè movente spirituale, nell’area delle istituzioni formative viene ottusamente ripetuto il principio di rendimento, cosa che rispecchia il reduping caratteristico della discussione circa la “formazione” (Bildung). Si deve, tuttavia, sottolineare che proprio nella Germania postbellica, a prescindere dagli intransigenti (Unbelehrbaren), in un caso unico la democrazia è stata assunta dal basso come dall’alto — così come Thomas Mann sostiene: “La democrazia […] viene dall’alto, non dal basso, o almeno dovrebbe essere così. Non dovrebbe essere pretesa impostazione, rivendicazione impertinente, ma dimissione, pudore, rinuncia, umanità.” (Considerazioni di un impolitico, 1915-1918). Ivan Nagel, d’altra parte, osserva, nel suo discorso di ringraziamento per il conferimento del Premio Moses-Mendelssohn (6-IX-2000), che la malattia della democrazia tedesca, ciò che la denigra da fronti opposti, consiste nella “mancanza di rispetto per il popolo da parte dei politici e nella diffidenza del popolo verso i politici”.
Viste le dimensioni dell’alto e del basso, di chi concede e di chi assume, egualmente deluse e conciliate in un insieme di passatismo (Gestrigkeit), l’unico strumento di compatibilità, nell’insanabile distacco tra pretese dall’alto e rivendicazioni dal basso, rimane la Corte Costituzionale, l’istanza dello stato legale.
Ne consegue il “sì” al foulard dell’insegnante di fede islamico nella scuola tedesca, il “no” alla presenza del crocefisso nelle aule scolastiche: essendo il primo una manifestazione personale, indossato come segno di una convinzione individuale che non ha pretesa di condivisione, mentre il secondo, avvalendosi di uno spazio pubblico per esibire una confessione singola, finisce con l’imporsi su chiunque si veda costretto a frequentare quell’ambiente per doveri legali, come, ad esempio, l’obbligo scolastico.
Oltre l’ideale di Bildung (ancora proposto e fortificato da Jürgen Habermas in linea con una corrente di moderata sinistra intellettuale che si rifà a Goethe e a Kant), se non è il genoma “ciò che tiene insieme il mondo nel suo intimo” (“was die Welt im innersten zusammenhält”, Faust), è lecito chiedersi se il principio di “guadagnare per possedere” (“erwirb es, um es zu besitzen”) possa ancora tener testa al cocktail di predisposizioni circa l’intelligenza e le facoltà di apprendimento, o se, invece, esso non sia già superato, fino al disprezzo aperto, come l’espressione ultima ratio, iscritta sui cannoni sin dai tempi del cardinale Richelieu e, in seguito, a partire dal 1742, su tutti i pezzi d’artiglieria del regno illuminato di Federico il Grande? - Ammesso che anche la Bildung arrivando dall’alto, come Goethe presuppone con l’introduzione della Gesellschaft vom Turm (la società della torre) alla fine del percorso formativo del suo protagonista Wilhelm Meister, non dipenda da un’istituzione altrettanto fantasmatica quanto l’io rifatto, se non clonato.
Il modo caricaturale con cui si sostiene che “i disoccupati diventano sempre più eruditi” segnala la debolezza di un’utopia formativa.
“Riducendo la mia esistenza al genoma sono costretto ad attraversare la stoffa fantasma di cui il mio ego è fatto, e soltanto così la mia soggettività emergerà propriamente” (Slavoj Zizek a proposito di bioetica, Bring me my Philips Mental Jacket, “London Review of Books”, vol. 25, n. 10, 22-V-2003).
III — Melodramma – “nell’anime nostre non entra terror”
“Blu combatte Yellowbelly ammalato, il cui alito fetido copre gli alberi di un giallo febbrile. L’ossigeno del suo essere diabolico è il tradimento. Ti pugnalerà alle spalle. Yellowbelly manda un bacio itterico nell’aria, la puzza del pus acceca gli occhi di Blu. Il male galleggia nella bile giallognola. Gli occhi da serpente di Yellowbelly spruzzano veleno. Simile a una vespa egli striscia sulla mela di Eva. Veloce come il fulmine punge Blu nella bocca — “AAAHH!” — le sue legioni infernali bisbigliano e ridacchiano nell’iprite. Pisceranno su di te. Denti aguzzi macchiati di nicotina - digrignati. Blu trasformato in un killer d’insetti, l’aura sua blu mette i nemici in fuga” (D. Jarman, Blue).
Lo scenario è quello di un bio-organismo in cui - vista la minaccia di una infezione da HIV-virus - ha luogo un intervento preventivo e non più l’ultima ratio di una medicazione ugualmente devastante. Per esempio, gli effetti collaterali del DHPG (il Dihydroxy Phenyl Glicol è utilizzato nella terapia dei malati di Aids per rallentare l’accecamento che avviene col progredire della malattia), a prescindere dalla sua natura cancerogena, sono: anemia, febbre, edema, parestesia, diarrea, emorragia intestinale, irregolarità nelle funzioni cardiache, flebite e mancanza di fiato. Sorge allora la questione: l’intervento di elementi geneticamente controllabili, in grado di attaccare tutti questi vili nemici prima della loro diffusione, non potrebbe rappresentare una salutare difesa preventiva?
Se nella battaglia contro l’infezione virale, che sta per distruggere il sistema immunitario dell’organismo, invece di un vaccino che agisce secondo il principio similia similibus, ci fossero, chiamiamoli così, ratti remote control, disponibili per inibire l’intrusione aggressiva dei nemici vili, non ci sarebbe permesso di fare a meno dell’utopia blu, con il tempo dilazionato tra la malattia letale e una medicazione devastante, a favore di una radicale estinzione preventiva della sofferenza?
Occorre, quindi, far crescere il ratto in se stessi per disporre del medium anti-catastrofico e anti-vile?
Ma la coltivazione del ratto — paziente di manipolazione genetica in noi, l’assimilazione al ratto apre all’idea della piaga e conduce al concetto di estirpazione in genere.
“Nel capovolgimento (letteralmente: nella perversione) dell’auto-conservazione in auto-distruzione è il calcolo politico e la follia che fa scendere le sue radici nel male, giù fino al ratto specie (das Rattenhafte), che fermenta nel fondo della nostra anima e lì si raduna in putridume. Solo l’ideologia che si traveste da idea sceglie l’istinto pervertito facendone terreno propizio e palude proliferante. Fa sì che il riflesso anticipi ogni riflessione, che il pregiudizio superi non solo il nostro giudizio, ma la nostra percezione stessa — una percezione che viene affidata, invece che all’occhio filtrante e paragonante, tutta al naso, al mero fiuto, affinché venga confermato da questo la già deliberata decisione di linciaggio. Il razzismo, quel che di ratto vi è nell’uomo, prende le sue certezze da sempre dall’odore di stirpe dello straniero, del nemico. Così il foetor judaicus diventò il più vecchio e il più recente cliché di scritti diffamatori a caccia degli ebrei. Lo zingaro puzza d’aglio, il canaco di grasso di montone, l’omosessuale di profumo di donna, l’ebreo d’ebreo, il negro di negro. Tale ideologia interviene nel corpo di coloro che vuole possedere, che vuole rendere ossessionati. I suoi dogmi non penetrano nelle nostre teste, ma s’infiltrano nello stomaco, negli intestini per impiantare lì una nausea automatica.” (I. Nagel, Toleranz und Intoleranz: Erfahrungen, discorso di ringraziamento all’occasione del premio Moses-Mendelssohn, 6-IX-2000)
La nausea che si prova di fronte a ratti che si possono eliminare soltanto per mezzo di ratti.
“Nel maggio 2002 si diffuse la notizia che scienziati della New York University avevano attaccato un computer-chip direttamente al cervello di un ratto, per pilotarlo come una macchina giocattolo telecomandata. […] Per la prima volta la ‘volontà’ di un agente vivente, la decisione ‘spontanea’ circa i suoi movimenti erano assunte da un’agenzia esterna. La questione è, in questo caso, “se il ratto sfortunato fosse cosciente che qualcosa non andava (that something was wrong)”. Nel caso di un essere umano la questione si porrà in questi termini: “sarà egli cosciente se è una forza esterna a decidere sui suoi movimenti?”, e se è così: “questa forza verrà sentita quale impulso interno irresistibile, oppure quale coercizione?”. È sintomatico che le applicazioni immaginate di tale meccanismo […] abbiano a che fare con l’aiuto umanitario e le campagne anti-terrorismo: i ratti pilotati, infatti, potrebbero essere utilizzati per entrare in contatto con le vittime di un terremoto, sepolte sotto le macerie, o per attaccare terroristi senza rischiare vite umane.” (Zizek, cfr. sopra)
La prevenzione basterà appena a proteggere una civiltà non resistente a meccanismi di auto-eliminazione (Selbstauslöschung) contro attacchi di matrice terroristica-autoritaria.
L’autodistruzione del kamikaze (Selbstmordattentäter) e quella dell’individuo completamente soggetto alla prevenzione e trasparente alla predizione della ‘previdenza’ — per non introdurre il caso dell’eutanasia — convergono: in entrambe le condizioni si avverte l’eliminazione di fattori vitali quale l’abilitazione o la costrizione alla sofferenza. Lontana dallo slancio, disastroso e comunque materiale, della trasformazione meontica in rinoceronte (immaginata da Ionesco all’esordio di una società amministrata), la rattizzazione dell’umano (die Verrattung der Menschheit), non potendo distinguere la vittima di un terremoto da un terrorista “in sonno” (Schläfer), ratifica la abdicazione di ogni forma contrattuale.
Nel finale di 1984, i ratti, che minacciano di lanciarsi sulla faccia del protagonista, cominciando dagli occhi, per scavare attraverso le guance e divorare la lingua (cfr. Gorge Orwell, 1984, cap.5, scritto nel 1949), servono a indurre al tradimento di un patto. Il regresso pre-illuministico che Prantl riconosce nell’atteggiamento del governo statunitense, che ignora i contratti passando sopra il diritto internazionale in vigore, procede di pari passo con il logoramento dell’individuo sociale: “Se si prendessero sul serio i principi dei processi per crimini di guerra di Norimberga, elaborati con la partecipazione guida degli Stati Uniti e poi radicati nelle norme centrali della carta dell’ONU — allora i responsabili per la guerra nell’Iraq verrebbero già oggi, citati in giudizio.” (cfr. H. Prantl, Krieg als letztes Mittel?, in “Suddeutsche Zeitung” del 24-II-2003). Il fatto che un tale processo non abbia luogo caratterizza il momento di dissociazione d’ogni soggettività consolidata in termini di testimonianza.
“Tocca a me la parola, l’ho presa dalle mani del lutto, indegnamente […]; col mio respiro, che restituirò a prova che la mia bocca non ha chiesto della mia vita, e a quelle condizioni saremo costretti a testimoniare per la creatura” (I. Bachmann, Un monologo del principe Myskin per il balletto-pantomima “L’Idiota”).
Le accentazioni verbali e i colori sonori inimitabili di cui la Callas provvede la parola “il fantasma”, nell’aria di follia della Lucia di Lammermoor, ricordano e indicano il modo per attraversare la stoffa fantasma di cui, secondo Zizek, il mio ego è fatto.
IV. Un eccesso metafisico
“Noi tedeschi sappiamo che cosa può succedere, se non si è cauti con la lingua e se non si è precisi e umani nel pensiero”, così sostiene il presidente della Repubblica Tedesca J. Rau in un’intervista rilasciata alla “Suddeutsche Zeitung” del 17.11.2003.
Al contrario, l’estetizzazione del terrore e la giostra commemorativa contrassegnano le due facce di un abbrutimento linguistico.
Così, è caratterizzata da una paurosa imprecisione d’appercezione e d’articolazione l’assenza fatale di giudizio estetico, che, da un lato, spaccia per artificio, esteticamente impeccabile, lo scontro di un aereo con due torri gemelle di solida costruzione, in grado di provocare un crollo accompagnato da un’enorme nuvola di fumo e da macerie mischiate con corpi umani interi o membra disiecta, in assenza assoluta d’immaginazione, mentre, dall’altro lato, si compiace nella monumentalizzazione della colpa, ugualmente priva d’ogni soffio d’ispirazione.
Le querele relative alla erezione di un monumento per gli ebrei vittime del regime nazista (su progetto di Peter Eisenmann), con l’ultima chicca che per la realizzazione dell’opera sembra imprescindibile la collaborazione della Degussa, cioè di una ditta altamente compromessa nell’industria degli armamenti, rappresentano solo un esempio del non liquet: ostentazione per raggiungere una correttezza politica, rimovendo in questo modo l’obbligo alla responsabilità.
Se è vero che la “political correctness” (come osserva Claus Koch in “Der neue Phosphorus”, ed. 17, 21-XI-2003) “è rimasta una passione per la piccola borghesia accademica (con i suoi limiti e la sua tendenza saltuaria ai bei modelli di virtù evangelicali)”, la mera correttezza linguistica sarebbe salutare proprio in quanto non si limita all’osservanza delle regole.
Il fatto che allo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento è inesorabilmente attribuito il termine “olocausto”, quasi si trattasse di una operazione sacrificale, è solo un esempio tra i più grossolani e scandalosi.
“Ma la lingua stessa non può semplicemente entrare in scena e da se stessa, ha bisogno di spazio. […] Non è più possibile introdursi con delle parole tra il potere e la realtà, non c’è più spazio [per la letteratura].” (E. Jelinek, in “Standard”, 7-II-2000).
Geist, oltre che un insieme di immaginazione e ispirazione, è un Moment della lingua specificamente tedesco: “L’impossibilità di trasporre senza violenza in un’altra lingua non solo pensieri altamente speculativi, ma persino singoli concetti abbastanza precisi come quello di Geist, di Moment, di Erfahrung, con tutto ciò che connotano in tedesco, è una qualità specifica oggettiva della lingua tedesca, [cioè] la capacità di esprimere qualcosa che appartiene ai fenomeni, che non si esaurisce nel loro mero essere così, nella loro positività e datità” (T. W. Adorno, Auf die Frage: Was ist deutsch, in Stichworte. Kritische Modelle 2, Frankfurt a. M. 1969, pp.110 e sgg.). Questa “eccedenza metafisica” (metaphysischer Überschuß), che non garantisce però “la verità della metafisica proposta da essa, né la verità di una metafisica in genere”, sarebbe un mezzo da opporre al dogma dell’economicismo, che suppone l’individualismo possessivo. Se rimane un mezzo debole nella concorrenza tra le dottrine di purezza fondamentaliste (di cui appunto l’economicismo liberale, separato dalla democrazia come forma politica, si è mostrata la più potente), tale mezzo deve essere affinato acutamente per consentirci di porre la domanda: “A chi appartiene la vita?” (a questo proposito si veda I. Nagel, Attentat und Euthanasie. Zur doppelten Geschichte des Selbstmords, in occasione del conferimento del Premio Ernst Bloch, 22-XI-2003)
“Immemore l’umanità” (Koch) “nella transizione verso l’umanità” (Adorno).