L’origine peculiare della comparsa dell’uomo sulla Terra, intesa questa come uno spazio aperto e indeterminato, spazio-nomade, è segnato, a partire da circa dodicimila anni, in quel processo di radicale trasformazione di questo spazio. Tale trasformazione, definibile come il passaggio dallo spazio-Terra a un nuovo spazio - uno spazio antropologico che possiamo individuare nell’espressione che ri-definisce lo spazio, creandone uno nuovo, sovrapposto allo spazio-Terra che viene via via marginalizzato - si chiama territorializzazione. Si tratta del processo di trasformazione antropologica dello spazio-Terra, occupato progressivamente da un uomo che arando, delimitando, costruendo, manipolando lo spazio, crea di esso una nuova dimensione: il Territorio. Con la “nascita” del Territorio nasce l’idea di linea, di segno, di confine. E’ l’irruzione dell’ambiguità: “La linea di confine […] presenta sempre un duplice aspetto e significato: per un verso è linea di demarcazione e di separazione, per l’altro il luogo del contatto e del reciproco scambio tra ambiti diversi”(1). Come spazio di demarcazione esso si costituisce come Territorio differenziato verso l’esterno, l’estraneo; come luogo del contatto, esso si costituisce come orizzonte di comunicazione. La cultura, in questo senso, nasce attraverso la costruzione di Territori che sono tali in quanto sono istituzione di confini estranianti e comunicanti al tempo stesso. L’antropologizzazione della Terra si realizza attraverso l’attività di “segni-ficazione” (signum facere), cioè di costruzione di limiti, confini - segni - dello spazio-Terra che viene “fatto” Territorio: “Il Territorio si sovrappone alla grande Terra nomade, la respinge ai margini”(2). Il Territorio diventa gradualmente il “testo del mondo”. L’uomo si fa produttore di Territori, di mondi particolari, costruiti e “segni-ficati” a che siano leggibili – produttori di dimore - per coloro che abitano quel Territorio ma estranei per coloro che non abitano quel Territorio, che non partecipano alla sua “segni-ficazione”. Al tempo stesso, in quanto segnati da linee di confine, i Territori sono pure “aperture” comunicative.
La leggibilità è attività discriminativa che si raffina poderosamente nell’uomo attraverso quella funzione irriducibile che è l’attività riflessiva - il pensiero - vera attività costruttiva(3). Quest’ attività, che nasce nel nuovo rapporto instaurato tra Terra e Territorio dall’uomo, rompe la muta unità dell’Essere e avvia il vociante discorso del divenire. “Pensare non è un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno intorno all’altro. Il pensare si realizza piuttosto tra il territorio e la terra”(4). Il sapere, allora, per quanto irriducibile a méro significato, è il prodotto dell’attività di territorializzazione compiuta dall’homo sapiens sopra lo spazio-Terra. Il sapere, la cui radice sap- è la stessa di “sapore” da sapidus – salato - che ha sapore, si realizza nel processo di de-limitazione e costruzione di differenze – discriminazioni - che inventano Territorio, testo leggibile. Si tratta, cioè, di quel processo che inventa tradizioni, storia, tempo. “Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire: “Questo è mio”, e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile”(5): siamo di fronte al “fondatore” del Territorio. Sta qui l’origine del sapere.
Con l’origine del sapere “nato” dalla istituzione del Territorio, nasce, come conseguenza, il tempo. Si tratta del tempo umano, tempo inteso in quanto “senso vissuto” della perdita. Rispetto al Territorio, “il tempo viene dopo. Infatti, il Territorio produce il tempo con lo spazio. Il limes romano, la grande muraglia cinese, tutte le fortificazioni sono baluardi contro la cancellazione e l’oblio, sforzi per durare, resistere, non sparire”(6), sono la storia. Dunque, tempo, sapere, storia, sono “prodotti” della territorializzazione. Una volta avviata, la territorializzazione non ha avuto più sosta. Essa si è trasformata, gradualmente e per strati in una “semiotizzazione”, fatta di “testi di saperi” che man mano “occupavano” sempre più il Territorio. I segni come i libri e poi i segni come le merci hanno sempre più velocemente comportato, da un lato l’occupazione del Territorio, dall’altro un’uscita dal proprio Territorio volta a occuparne altri. Questo processo, dapprima, è avvenuto come un processo tra Territori, attività comunicativa reciproca. Con l’accelerazione iperbolica dello sviluppo tecnico è iniziato lo sviluppo poderoso del processo industriale in un solo Territorio. Lo sviluppo tecnologico del Territorio Occidentale ha avviato, paradossalmente, un processo di de-territorializzazione o, se si vuole, attraverso tecniche e merci si è realizzato lo strumento per invadere altri Territori, per avviare una nuova colonizzazione dei Territori, di tutti i Territori: cos’è il processo industriale capitalistico Occidentale se non un processo di colonizzazione di altri Territori, non occupati fisicamente, che vengono occupati dai “segni-merci” prodotti nel proprio Territorio? La semiosi del Territorio Occidentale è cresciuta a dismisura, grazie alla potenza della tecnica e si è fatta illimitata. Essa si è estesa fino a occupare tutti i Territori estranei che altro non sono, presi nella loro somma, che l’originario spazio-Terra, disperdendo per sempre la funzione di reciprocità propria del secondo significato di confine: non più luogo di contatto, scambio, comunicazione, ma luogo di metaforico incorporamento di ogni confine.
Il sapere Occidentale, tecno-semiosi illimitata, ha ri-costruito il Territorio, occupando tutto lo spazio-Terra, pervadendolo del proprio segno, ma ha dimenticato l’origine del sapere.
“Che cos’è il sapere? Evidentemente non si tratta solo della conoscenza [tecnico]-scientifica […] ma di tutto ciò che qualifica la specie homo sapiens. […] Il sapere, nel senso in cui viene qui inteso, è un saper-vivere o un vivere-sapere, un sapere coestensivo alla vita”(7). Ritorna l’esigenza di rifarsi all’origine del termine sapere, quell’origine che lo connette, attraverso la comune redice sap- al sapore, alla dimensione, cioè, del sentire, dell’as-saporare, al sapere inteso, dunque, non soltanto come orizzonte di significati, semiosi, ma al sapere inteso anche come “saper-vivere” o “vivere-sapere”, come sapere in quanto vissuto, dunque al sapere come senso.
Se, allora, il sapere non si dà come méra semiosi illimitata ma anche e soprattutto come senso vissuto del segno, come l’attività che as-sapora, non l’assenza di Territori può restituire allo spazio-Terra, in-differentemente disseminata di segni, il suo volto di “spazio di vita”. Soltanto, invece, la pratica di una territorializzazione effettivamente “comunicante”, cioè costruzione e superamento continuo di differenze da as-saporare, può restituirle il ruolo fondamentale di dimora dell’uomo – Terra-Patria - luogo dell’essere delle differenze, dell’essere del divenire: un divenire senza paura, senza illusioni. “Il compito è immenso e incerto. Noi non ci possiamo sottrarre né alla disperazione né alla speranza. La missione e le dimissioni sono ugualmente impossibili. Ci dobbiamo armare di una “ardente pazienza”. Siamo alla vigilia non della lotta finale, ma della lotta iniziale”8.
1) Tagliagambe, Silvano, L’epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano, 1997, p. 257.
2) Levy, Pierre, L’intelligenza collettiva, tr.it., Feltrinelli, Milano, 2002, p.139.
3) Goodman, Nelson, Vedere e costruire il mondo, tr.it., Laterza, Roma-Bari, 1988.
4) Deleuze, Gilles - Guattari, Felix, Che cosè la filosofia, tr.it., Einaudi, Torino, 1996, p.77.
5) Rousseau, Jean-Jaques, Discorso sulla disuguaglianza, tr.it., Feltrinelli, Milano, 1990.
6) Levy, Pierre, cit., p.177.
7) Idem, p.144.
8) Morin, Edgar, Terra-Patria, tr.it., Raffaello Cortina, Milano, 1994, p.194.