Narra il mito che in origine esistevano soltanto gli dei. In seguito, quando la terra partorì le stirpi mortali e si dovette dotare ciascuna dei naturali mezzi che ne assicurassero la sopravvivenza, l’incauto Epimeteo (provvisto del solo ‘senno di poi’, come suggeriva il suo nome), giunto dinanzi agli uomini, si accorse di aver già distribuito agli animali tutte le doti naturali - denti, artigli, vista acuta, velocità nella corsa - e di aver, dunque, lasciato gli esseri umani (“creature ragionevoli”) sguarniti di ogni cosa. Rimediò a questa improvvida scelta di Epimeteo, il savio fratello Prometeo che soccorse gli uomini donando loro il fuoco e il sapere tecnico (Éntechnos sophía), entrambi sottratti, con empio furto, agli dei. Ben presto, però, fu chiaro quanto i singoli ‘saperi’ non fossero sufficienti a far sopravvivere gli uomini: provvisti ciascuno delle proprie speciali competenze, non riuscivano a interagire tra loro. Tentavano di radunarsi (perché naturalmente portati a farlo) ma, quand’anche aggregati, prendevano a nuocersi l’un l’altro fino a isolarsi nuovamente e a perire ogni volta in ragione del loro isolamento. Mosso dal timore di un’imminente estinzione della razza umana, Zeus inviò Ermes sulla terra a portare tra gli uomini Pudore (Aidós, cioè la facoltà di provare vergogna di sé dinanzi agli altri) e Giustizia (Díke). Allora il dio ‘dai piedi di vento’ così interrogò Zeus: “Che io debba, come furono distribuiti i saperi, così distribuire anche queste cose? I saperi furono distribuiti così: uno solo che possiede la medicina basta a molti che non la possiedono; e così anche gli altri cultori di un sapere. Devo dunque così distribuire Pudore e Giustizia tra gli uomini oppure distribuirne a tutti?”. “A tutti”, rispose Zeus, “e che tutti n’abbiano a partecipare, ché non potrebbero esistere le città, se ne partecipassero pochi come degli altri saperi”. (Plat. Protag. 322).
Nel racconto che Protagora espose al cospetto di Socrate, Zeus in persona intervenne a integrare l’opera del “tecnico” Prometeo: il padre degli dei, pur in maniera non conflittuale, rese manifesta l’insufficienza di un sistema fondato sull’ ‘oligarchia dei saperi’ e pose le basi per la ‘democrazia della politica’, resa possibile perché tutti, proprio tutti, ne avrebbero posseduto le qualità fondamentali. Il Pudore e la Giustizia, appunto.
Al di là dell’assunto sofistico sul quale poggiava il discorso di Protagora (secondo cui la città è spazio convenzionale e la politica, come arte e sapere supremo in discreto possesso di ognuno, può essere perfezionata anche a mezzo dell’insegnamento), il mito solleva oggi importanti interrogativi. Sul rapporto fra tecnica e politica, sulla relazione necessaria fra i saperi e il governo democratico del territorio, e (visto che da molti secoli ormai ad erogare l’éntechnos sophía non è più il ‘divino Prometeo’ ma una ‘umana istituzione’ qual è l’Università), sui modi presenti e futuri di interazione fra il mondo della ricerca e l’accidentato terreno della politica.
Territorializzare i saperi: l’Università incontra il mercato e non la comunità.
È strano, ma l’unico terreno sul quale oggi l’Università riesce (e vuole) ‘farsi territorio’ è il mercato del lavoro. La “nuova Università”, che dialoga con la società che le sta intorno, è quella che “non intende più sottoporsi a critiche di autoreferenzialità, ma vuole assolutamente aprirsi a un dialogo su un terreno di comprensione… con il mondo della produzione e con il mondo del lavoro”. E, ancora, si rileva da più parti che il perseguimento di simili obiettivi “presuppone un’adeguata programmazione dell’offerta formativa, il più possibile rispondente alle esigenze del mercato globale e del contesto locale”: nuove figure professionali, nuove e aggiornate competenze saranno, allora, la risposta ai “rapidi cambiamenti prodotti dalle nuove tecnologie e [al]la pressante competizione derivante dall’esistenza di un mercato globale”. Sono queste le ragioni (i bisogni espressi dal mondo socio-economico e le risposte che l’Università è ‘obbligata’ a dargli), per le quali oggi occorre prestare “particolare attenzione ai contenuti e alle modalità dei percorsi formativi”. Infine, se il “rapporto Università-territorio è di grandissimo rilievo” (e, si badi bene, questo “non diminuisce il carattere universale dell’Università, ma al contrario lo rinforza”), è perché la meta finale che ci si è dati è “un nuovo modello di rapporto di collaborazione tra università e mondo del lavoro”.
Il virgolettato, naturalmente, non è nostro, ma raccoglie numerosi luoghi comuni radicati in larghissima parte dell’ambito accademico, ormai da lungo tempo: il fatto che in questa sede di queste voci non si precisi la provenienza, non muove dal disprezzo delle più comuni regole del dovere di cronaca, ma dalla presa d’atto che, in tema di “necessario raccordo tra Università e mondo del lavoro”, il repertorio di topoi di tale specie è veramente patrimonio condiviso dai più. Senza distinzioni di particolare rilievo. Con rare, pochissime eccezioni.
Del resto anche quando l’Università con orgoglio si definisce “officina dei saperi”, rifiutando a fatica l’etichetta di “fabbrica delle professioni”, difficilmente si sottrae ai criteri-imperativi, ai binari senza vie di fuga entro i quali già ora viaggia lo sviluppo presente e futuro dell’Accademia: “formare attraverso la ricerca” e “incentivare il trasferimento di tecnologie dall’Università all’Impresa”.
La ‘ricerca’ lentamente deve farsi ‘formazione’, per fornire risposte il più possibile tempestive (o, ancora meglio, ‘anticipate’) alle richieste sempre diverse e cangianti provenienti dal mondo dell’economia e della produzione.
In quest’ottica ‘territorializzare’ i saperi significa farne sempre e comunque delle professioni. Circoscritte, determinate, chiaramente e univocamente orientate alla vocazione aziendale, e, per questo, anche flessibili, pronte ad adattarsi e a ripensarsi in funzione dei tempi rapidissimi imposti dal mercato. Unico lo scopo, unico il senso della relazione tra saperi e territorio: dai bisogni dell’Impresa (globale o locale) all’Università. Dalle “sfide” del mercato alla ricerca.
Si spiega, a questo punto, non solo la fastidiosa e per certi versi sgradevole definizione di “laurea debole” riservata ai diplomi di laurea in scienze umanistiche e, più in generale, ai titoli di studio universitario non immediatamente spendibili nel mercato del lavoro. Il binomio ricerca-mercato chiarisce anche i funesti contorni del processo di deformazione regressiva che oggi interessa alcuni saperi. Basti l’esempio delle stesse discipline umanistiche, che, per loro ineludibile natura, difficilmente possono fornire veloci e immediate risposte al mondo della produzione. Cosa accade, allora, se il mercato non chiama? Se l’Impresa non avanza richieste cui dare risposte? Se nulla di aziendalistico hanno, neppure nel nome, studi di antica tradizione, come quelli filologici, archeologici, persino storici o filosofici? Niente paura. Basterà ‘ri-acconciare’ queste discipline, investirle di nuovi orizzonti, ‘convertirle’ e scoprirne (come per incanto) inedite propensioni aziendali: oggi molte ‘lauree deboli’ fingono maldestramente di “aprirsi al mercato” solo per via di poco interessanti e persino poco spendibili cialtronerie che vivono spesso di fascini anglofoni e sempre di false speranze. E’ la ragione per cui sempre più Lucrezio, Dante e Kant lasciano il posto al ‘marketing’, alle ‘human resources’, alla ‘net-economy’.
Non si fraintenda: l’Università non ha affatto bisogno di nostalgiche apologie dei vecchi saperi, né della rievocazione conservatrice e spocchiosa dei ‘tempi andati’. Quel che si vuole qui sottolineare è, piuttosto, il perverso meccanismo all’interno del quale un oggetto estraneo qual è il mercato arriva a imporre la banalizzazione e persino lo scardinamento di un sapere che, invece, dall’interno può e deve innovarsi. Nei contenuti, nei metodi. Senza inseguire l’Impresa su un terreno che lo vedrà sempre perdente. Senza vestirsi di abiti che non gli sono propri. E che, a ben guardare, gli stanno pure male.
Che c’entra tutto questo con la relazione indispensabile tra saperi e territorio? E soprattutto con il curioso mito narrato da Protagora? Dinanzi ai rischi fortissimi che il non neutrale rapporto tra Università e Impresa comporta, occorre modificare il senso e il tipo di ‘territorializzazione’ delle scienze coltivate dal mondo della ricerca. Non il mercato dovrà essere il luogo dell’incontro tra saperi e territorio, ma la comunità. Cioè la vita reale di tutti. “La politica”, avrebbe detto in una parola Zeus al petulante Ermes.
Senza riscontri nel governo e nella gestione del territorio, nel miglioramento della qualità della vita collettiva (a tutti i livelli e in ogni dimensione possibile) e nella crescita realmente progressiva di una comunità, tutti i saperi si atrofizzano. Diventano lettera morta o, peggio, ferri del mestiere in mano a qualche entità altra (leggi: il mercato). In questo senso il mondo della produzione (globale e locale) non può sostituirsi alla politica, pena l’irriducibile e sclerotica frammentazione dei saperi. Il loro affannoso e vorticoso rincorrere l’economia e la loro incapacità di ‘riformarsi’ per lunghi periodi. E, ancora, la perdita di autonomia del mondo della ricerca. Che, nel frattempo, avrà anche rinunciato a elaborare nuove proposte, nuovi modelli economici, sociali, culturali.
Il sapiente, l’intellettuale, l’uomo di cultura
Chi sono oggi gli attori possibili di questo nuovo necessario processo di interazione tra saperi e territorio? Di nuovo sono gli antichi a fornirci qualche interessante risposta, questa volta, a mezzo del loro sensatissimo vocabolario.
L’italiano ‘sapere’ è, com’è noto, calco dal verbo latino sapere che in origine valeva per “avere sapore”, designando, poi, l’azione e l’abilità di quanti (pochi) sono in grado di “gustare, sentire il sapore” di qualcosa. Di qui il significato traslato di “avere senno, prudenza, sagacia” ovvero “intendersi” di qualcosa, capirla per il fatto di riuscire a coglierla fin nelle sue più profonde qualità (nel suo ‘sapore’, appunto). Dunque, il moderno “sapere” non potrà prescindere dall’intima essenza delle cose e, soprattutto, dovrà riflettersi sul soggetto “sapiente”, cioè assennato, prudente, sagace.
Più chiara la relazione originaria tra ‘saggezza’ e ‘sapere tecnico’ nel greco sophistés (“saggio”, ma anche “esperto, tecnico in un’arte o in un mestiere”) e che, tuttavia, nell’Atene delle professioni (l’Atene del V sec., quella di Protagora, per intenderci), designava più specificamente quanti “agiscono come se fossero saggi”, cioè “fingono di essere saggi”. Il passaggio è chiaro, la differenza netta (né vi saranno espressioni equivalenti nel vocabolario latino): il sofista è l’esperto tecnico, il professionista, ma non il saggio che, pure, finge di essere.
Si dirà, allora, che l’esperto ha bisogno di farsi “intellettuale” (cioè, per tornare all’affascinante gioco degli etimi antichi, “colui che sa scegliere” – da intelligere, “scegliere tra”). Ma, purtroppo, in forza anche delle connotazioni negative di cui all’origine questo vocabolo è stato caricato (il sostantivo “intellettuale” tradusse, all’inizio, quello che i Russi chiamavano intelligencija e che per Turgenev era un gruppo di uomini che si dividevano tra “superflui” e “nichilisti”), e, forse, per il fatto di non essere ancorato (in sede terminologica, s’intende) ad alcun “sapere tecnico”, l’ “intellettuale” non sembra essere, oggi, una soluzione possibile per riportare dentro il territorio il variegato prisma dei saperi.
Non al sapiente-sofista, né all’intellettuale occorrerà allora rivolgersi per avviare una nuova relazione fra la tecnica e la politica, fra i saperi e il territorio, ma agli uomini di “cultura”.
È colere la voce latina da cui l’italiano “cultura” deriva: vocabolo tecnico del lessico dell’agricoltura (nel senso di “coltivare”), colere è anche “abitare” e poi “prendersi cura, occuparsi” di qualcosa, praticarla con dedizione costante, fino in fondo, e con sommo rispetto. A scavare, poi, nel passato più remoto di questa parola, ci accorgeremmo che la radice indoeuropea che sta a monte di colere è *Kwel, che designava il movimento circolare proprio di chi “ha interesse, coltiva, protegge”.
Niente verticalismi (che così tanto hanno già inquinato il mondo degli “intellettuali”), né appiattimenti orizzontali (che riducono le scienze a professioni, la ricerca a strumento del mercato). La moderna cultura dei saperi ha bisogno di moti circolari, di “abitare” tra le persone, di esserne parte e piegarsi a coltivare i loro bisogni, le loro passioni reali. Autonoma e libera da qualsiasi cappio. Orientata soltanto alla sopravvivenza e alla buona convivenza tra tutti gli esseri umani. Proprio come vollero Prometeo e Zeus.