Per amministrare una città bisogna innanzi tutto capirla. Capire una città significa capire la gente che ci vive, conoscerne le narrazioni e il mondo immaginario, ossia le idee, le ideologie, le religioni, le concezioni dell’universo sociale.
Tra i particolari dello stile di vita di un Paese mediorientale da me visitato c’è la pacifica convivenza, nella città più grande di questo Paese, di gente di fede diversa. In un contesto in cui predominano sottocomunità di fede musulmana, le sottocomunità di fede cristiana possono non solo praticare in libertà il proprio culto, ma anche proiettare la loro specificità religiosa nell’organizzazione dello spazio. Nel grande quartiere di Bab Tuma, a Damasco, è possibile trovare chiese, monasteri e conventi appartenenti a varie sette cristiane a pochi metri di distanza da moschee e scuole coraniche. Le minoranze cristiane, insomma, nella capitale siriana non sono costrette a praticare la loro fede in sordina, dentro garage o sottoscala. La domenica mattina gli abitanti di Bab Tuma e delle zone limitrofe vengono svegliati dal suono delle campane, mentre gli altri giorni a scandire i momenti della giornata sono i moetsin, che invitano i musulmani alla preghiera. Nella stessa area vivono anche diverse famiglie di fede ebraica.
Le città pugliesi offrono diversi ‘racconti del territorio’, storie che permettono di capire come la vita della gente cambia nel tempo. Recentemente mi sono interessato a una delle storie o, meglio, “microstorie” raccontate dalle strade, dalle piazze, dai documenti e in parte dagli attuali abitanti: la storia degli Ebrei vissuti ad Altamura.
Gente influenzata nello stile di vita dalla fede ebraica visse in Puglia, come nel resto dell’Italia meridionale, sin da tempi remoti e mitici; la loro presenza ad Altamura è testimoniata durante le dominazioni sveva, angioina, aragonese e spagnola, dal XIII al XVI secolo. Pare che la città sia nata per volere di Federico II, che fece convenire sul luogo gente addetta ai lavori di costruzione della Cattedrale, che sarebbe dunque l’edificio più antico della città. Diverse erano le provenienze e origini di questi lavoratori; col tempo attorno ad essi si sarebbero costituiti vari gruppi con interessi comuni di vario genere, non ultimo la fede comune. Esistevano un gruppo di Cristiani fedeli al papa ed uno di Cristiani vicini all’Imperatore e decisi a sottrarsi al controllo pontificio, un gruppo ebraico, un gruppo legato al rito greco-ortodosso. Questi gruppi presero a vivere secondo il sistema del vicinato, diffuso nell’area del Mediterraneo; si andarono così organizzando zone cittadine influenzate da un certo stile di vita: la gente di fede cristiano-ortodossa prese a vivere nei pressi della chiesa di San Nicola; gli Ebrei si riunirono in alcune strade e, col passare del tempo, si stabilirono in una ‘giudecca’.
La microstoria di questa gente fa riflettere sui concetti di identità e alterità. In una società come quella medievale, in cui la vita quotidiana era influenzata in maniera preponderante dall’onnipresenza del messaggio religioso, il principale fattore identitario per i gruppi era proprio la particolarità della religione.
Per quanto concerne la relazione identità/alterità tra la società cristiana e il gruppo ebraico, la distinzione religiosa fu l’unica possibile: in mancanza di elementi utili all’immediato riconoscimento della differenza (quali il colore della pelle, particolari tratti fisici, la lingua parlata, eccetera), si insistette proprio sulla differenza del credo. Tale insistenza fu quanto mai necessaria per la maggioranza cristiana nel mantenimento dei suoi steccati identitari, in quanto le somiglianze tra le due fedi erano tali da creare pericolose mescolanze: il pericolo era rappresentato dalla possibilità di smarrire la percezione di sé in rapporto all’Altro. L’indifferenziazione è pericolosa perché l’ordine sociale si fonda proprio sulla differenza e sul ruolo che ognuno ricopre in questo ordine. Dalla distinzione di ordine spirituale derivavano alcune differenze in certi aspetti della vita quotidiana, quali l’alimentazione e, in misura minore, l’abbigliamento.
Si può affermare che tali elementi non sarebbero bastati da soli a radicalizzare la percezione dell’alterità ebraica; se tale radicalizzazione si verificò, questo fu dovuto essenzialmente al particolare atteggiamento delle autorità (da Federico II a Ferdinando il Cattolico) che, per fini di protezione o di persecuzione, e comunque di controllo sociale, introdussero legislazioni atte ad approfondire la distinzione dell’elemento ebraico dal resto della società, e dunque a facilitarne la discriminazione. Infatti i rapporti quotidiani tra gente di fede diversa ad Altamura, come si può desumere da alcuni documenti, era fatta di rapporti di amicizia, unioni matrimoniali, rapporti commerciali, clientelari e di buon vicinato. A mantenere in vita il senso della diversità furono per lo più provvedimenti quali l’obbligo per gli Ebrei di indossare certi segni distintivi o la loro identificazione come categoria sociale omogenea a cui affidare certe mansioni lavorative e precluderne altre.
Così, se le misure discriminatorie di Federico II miravano alla protezione dei sudditi di fede ebraica, cionondimeno esse facilitarono la violenta azione di sovrani angioini antigiudaici; similmente, molti sovrani aragonesi, pur dichiarandosi amici degli Ebrei e proteggendoli contro le violenze antigiudaiche, mantennero alto il senso della distinzione tra gruppi ebraici e altri gruppi affidando ai sudditi di fede giudaica particolari compiti quali il prestito a interesse e invitandoli ad abitare tutti insieme in certi quartieri; i sovrani e viceré spagnoli, cattolici, non ebbero difficoltà, nella prima metà del XVI secolo, a identificare, tra i sudditi del Regno di Napoli, quelli di fede ebraica e ad espellerli quasi tutti dai propri domini dopo aver tollerato le violenze antigiudaiche in molte località. A partire dagli Anni Dieci del Cinquecento spariscono le tracce di Ebrei ad Altamura. Le città, secondo Robert Mc Adams, non sono degli insiemi isolati ma flussi complessi di persone, sistemi d’autorità, simboli culturali, innovazioni. La ricerca antropologica contemporanea che si svolge in ambito urbano ha come oggetto le forme sociali presenti nelle città, ossia quelle forme dalla cui interazione risulta lo svolgimento ordinato della vita cittadina: famiglie, matrimoni, clan, associazioni, formazioni politiche, amministrazione pubblica, gruppi religiosi e così via. Inoltre un oggetto fondamentale dell’antropologia urbana è costituito dalle percezioni culturali che danno sostanza a quelle forme sociali: si studiano cioè i discorsi che le persone fanno a proposito della propria organizzazione.
Alcune percezioni culturali relative al modo in cui gli individui interagiscono, in altre parole alcune nozioni culturali dell’ordine sociale, non danno necessariamente forma a classi o a gruppi sociali organizzati, ma si manifestano nelle percezioni e nell’uso che la gente fa dello spazio. Così diventano oggetti della ricerca antropologica abitazioni, palazzi e quartieri.
Un insieme di strade, piazze e costruzioni può essere definito “quartiere” in maniera diversa a seconda di chi parla. Non sempre due persone diverse definiscono con lo stesso nome una zona della città. Questo è particolarmente vero per le città mediorientali. Una sera mi è toccato accompagnare per chilometri un’amica, che mi aveva detto di abitare nel mio stesso quartiere, Bab Tuma. In realtà abitava in una zona che avevo sentito definire in altri modi.
Addirittura una strada può essere chiamata in modi diversi: a Damasco è usuale che uno straniero chieda a un tassista di andare in una strada il cui nome ha letto sulla mappa della città, ma che il tassista conosce con un altro nome. Come scrive Dale Eickelman, nelle città mediorientali è possibile orientarsi in certe zone solo se ci si è già stati.
George E. Marcus definisce le città contesti “multilocali”. Chi studia la vita della gente nelle città deve praticare un “attivismo circostanziale”. In altre parole deve prendere parte man mano alle attività svolte dalla gente che studia. In contesti complessi come le città contemporanee la gente svolge solitamente diverse attività, e dunque un solo individuo, lungi dall’essere interessante solo come elemento di un sistema che lo sovradetermina, riveste un interesse multidimensionale, come dire “multilocale” - dove per luogo si intende azione, attività, elaborazione intellettuale. Un tassista può essere interessante perché è un conoscitore dei luoghi di una città e anche perché magari è un attivista politico e religioso e un attore di una compagnia teatrale che si riferisce a una certa corrente artistica. Richard Sennet richiama l’attenzione degli studiosi dei contesti urbani su questa particolare qualità dell’abitante della città, ossia di poter essere diverse cose contemporaneamente. Uno nessuno e centomila. Un compositore contemporaneo, Marco Castoldi, definisce questa qualità il “sovrappensiero”. Sovrappensiero si possono fare tante cose contemporaneamente, raggiungere alti livelli di concentrazione, assistere a una spiegazione e alterarne il contenuto. Un soggetto interessa a chi studia la città perché partecipa a matrimoni e funerali di propri familiari, va alle processioni o a un concerto, percorre certe strade mentre magari pensa all’amore, alle proprie ossessioni, alle immagini e visioni che ha in mente.
Un classico dell’antropologia della contemporaneità, “Non luoghi” di Marc Augè, parla proprio di quei luoghi delle nostre città che si percorrono sovrappensiero. Si tratta di luoghi urbani come i centri commerciali, oppure delle strutture che permettono gli spostamenti rapidi; di luoghi in cui si è fatto scomparire ogni riferimento al contesto locale. Questo è stato sacrificato all’esigenza economica ed estetica della funzionalità dell’eccesso. Si tratta infatti di luoghi in cui si assiste a un eccesso di spazio, dovuto essenzialmente - paradossalmente - al suo restringersi: infatti gli aerei collegano in fretta i luoghi più lontani del pianeta; inoltre in questi luoghi ci sembra di trovare la stessa familiarità che proviamo nel guardare serial televisivi o film che ci mostrano la vita quotidiana in America o nelle metropoli indiane.
Anche le strade dei centri cittadini delle città occidentali tendono all’uniformità: gli stessi negozi, gli stessi colori, le stesse offerte promozionali, gli stessi messaggi culturali.
Al contempo, però, emerge l’esigenza di una caratterizzazione identitaria del luogo: accade così che negli aeroporti internazionali si installino cose come pub di stile scozzese o caffè italiani. Anche questi sono non-luoghi: sono luoghi nati in conseguenza dei processi postmoderni di dislocazione (di messaggi, capitali, ecc.) e deterritorializzazione (di persone). Lo scopo di questi non-luoghi con pretese fortemente identitarie è di richiamare allo spirito sensazioni di localizzazione in contesti fortemente delocalizzati.
E un altro tipo di non luoghi emerge dagli stessi processi di dislocazione e deterritorializzazione: i campi profughi, collocati spesso nelle vicinanze di o dentro altri non luoghi come porti o aeroporti, come nel caso di Bari-Palese. Strutture nate da un’esigenza di identificazione a priori, esigenza in base a cui la differenza viene stigmatizzata prima ancora di essere conosciuta e viene rinchiusa in ghetti fisici.
Pretendere di conoscere una cultura a priori, prima ancora di interpellare gli individui che reclamano la propria appartenenza ad essa, è un fenomeno che in antropologia si chiama “essenzializzazione”: in uno dei tratti anche più superficiali di una cultura si pretende di vedere la sua essenza.
L’essenzializzazione produce ghetti fisici. In Italia un esempio lampante di ghettizzazione derivata da essenzializzazione sono i campi per i rom e i sinti. Leonardo Piasere sottolinea come queste zone ghetto nascano dall’essenzializzazione del carattere “nomade” di rom e sinti: le autorità prestano fede a priori al luogo comune che vuole questa gente “nomade”, quindi incapace o disinteressata a vivere stabilmente in una città o in una casa.
L’essenzializzazione non produce solo questi non-luoghi fisici: produce anche quelli che - con Pier Paolo Pasolini - potremmo definire “ghetti mentali”. Secondo Pasolini i ghetti mentali della società tollerante sono quei confini dell’immaginazione e del pensiero entro cui forme di pensiero e di cultura divergenti dalla media vengono inscritte e, appunto, tollerate. Una volta superati quei confini, tali forme di pensiero vengono represse e la società in cui ciò accade trova più difficile autodefinirsi “tollerante” e democratica. Superare quei confini significa avanzare istanze che possono risultare scomode e destabilizzanti per la società.
Un esempio di quanto facilmente una società “tollerante” possa diventare intollerante è offerto dall’analisi dei mass-media nel mondo occidentale proposta da Noam Chomsky: le voci più disparate, nel panorama dei mezzi di informazione occidentali, vengono democraticamente tollerate solo fintanto che non cominciano a modificare il comportamento quotidiano della gente; una volta superata questa soglia, esse vengono più o meno delicatamente ostacolate, boicottate o represse in quanto “massimaliste” e “sovversive”.
Per tornare alla microstoria degli Ebrei in Italia meridionale e ad Altamura, si è notato come la loro essenzializzazione come gente con determinate caratteristiche sia stata un fenomeno particolarmente carico di conseguenze nei periodi di crisi economica e sociale dei Regni, quando le istanze avanzate da persone che praticavano uno stile di vita influenzato dalla fede ebraica potevano essere destabilizzanti. Il senso della diversità era diffuso e latente in una società così eminentemente multiculturale come quella altamurana da organizzare il proprio spazio urbano in base alle diverse provenienze della gente: la sensazione di avere a che fare con gente diversa emerse e si trasformò in azione violenta in tali circostanze critiche.
È possibile proporre sommessamente questa microstoria come esempio da cui partire per pensare diversamente la società contemporanea? L’ideale progressista del multiculturalismo è destinato a fallire sia come strumento concettuale per interpretare la realtà urbana contemporanea, sia come strumento d’azione su di essa. La realtà non è fatta da compartimenti a tenuta stagna separati l’uno dall’altro da linee di confine; le città non sono costituite da comunità separate, chiuse nella loro identità (o cultura o etnia). Ovunque, invece, ci sono frontiere. Si può sostenere che la realtà contemporanea è una realtà di frontiera.
Le frontiere, secondo Michel Wiewiorka, sono i luoghi in cui quotidianamente persone diverse - più che separarsi - si incontrano per dar vita a emergenze inedite, forme nuove di socialità, di arte, di spiritualità, di fisicità. Si tratta dei luoghi - difficili da analizzare in quanto in continuo cambiamento - in cui il fermento creativo propone in tempo reale narrazioni e istanze di cui non si conosce la fine, ma di cui si può tentare di comprendere l’evoluzione costante.
Tale compito è particolarmente stimolante nei contesti delle città contemporanee. Comprendere l’evoluzione della vita urbana è il punto da cui deve partire chi è addetto all’amministrazione delle città. Che lo si accetti o meno, il sistema globale è penetrato nei contesti locali, in ognuno dei quali sono reperibili tracce del sistema-mondo.
La modernità è andata in polvere: pensare di comprendere e amministrare la realtà con criteri moderni è fuorviante.
Viviamo in una realtà postmoderna. Uno dei suoi aspetti è il carattere diffuso di frontiera. Leonardo Menegola sostiene che dire frontiera significa dire vita.
L’individuo postmoderno, che vive in questa realtà, è percorso al suo interno dalle frontiere che sperimenta nel quotidiano. Il carattere più comune del cittadino postmoderno non è l’isolamento culturale, ma neppure l’egoistico cosmopolitismo o l’ibridismo collezionistico. Il suo carattere più evidente è, secondo Wiewiorka, il suo essere meticcio, ossia il suo essere espressione di una realtà frontaliera fatta di fermento e trasformazione costanti, in cui identità e appartenenze che si ritenevano stabilite una volta per tutte convergono per dar vita a nuovi caratteri ed espressioni culturali.
Se partiamo dal considerare la nostra società una realtà ‘meticcia’ diventa possibile analizzare in un modo inedito una delle questioni che emerge con prepotenza nelle città globali: la questione del riconoscimento identitario di una serie di minoranze, prodotte all’interno dell’Occidente - principale autore/attore della globalizzazione economica e culturale - oppure attratte dall’esterno dei suoi confini.
“L’uscita dall’era industriale s’è rivelata onerosa, e, per molti, brutale, depositando molti scarti lungo i bordi del proprio percorso. La questione sociale ha cessato di essere la questione dello sfruttamento nei rapporti di produzione per diventare la questione dell’esclusione e della precarietà” (Wieviorka 2002, 37).
Uno dei più significativi accordi internazionali in materia di immigrazione, l’ Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (Gatt), intende favorire la mobilità sotto il controllo di entità sovranazionali indipendenti dai governi come il Wto; in altre parole, affida alcuni aspetti della regolamentazione del lavoro transfrontaliero al settore privato. In particolare, vengono privatizzati i settori più redditizi: come sottolinea Saskia Sassen, infatti, questo accordo riguarda le sole componenti della politica di immigrazione caratterizzate da: 1) un alto valore aggiunto - cioè persone dotate di un alto livello di istruzione o di capitale; 2) flessibilità - persone che hanno la possibilità di essere migranti temporanei, che lavorano nei settori di punta dell’economia, quindi immigranti visibili, identificabili e sottoposti a un controllo effettivo; 3) profitto - grazie alla nuova concezione liberale degli scambi e degli investimenti.
I governi statali, in questo modo, conservano solo la gestione degli elementi “problematici” e “a basso valore aggiunto” dell’immigrazione: poveri, lavoratori non specializzati a basso costo, profughi, famiglie dipendenti, donne, bambini, gruppi razzializzati, handicappati, popolazione a rischio, religioni minoritarie e, tra i lavoratori specializzati, solo quelli suscettibili di provocare tensioni di natura politica. Questa selezione tra chi si sposta in cerca di lavoro ha una forte influenza sulle categorie dei cosiddetti ‘immigrati’ ed ‘extracomunitari’.
Su simili categorie si possono applicare logiche di inferiorizzazione, di dominio, di esclusione, di discriminazione e segregazione utili a sfruttare una manodopera ridotta a forza lavoro, oppure a sbarazzarsi di manodopera industriale divenuta superflua.
In una società timorosa o diffidente dell’alterità conviene stabilire quali siano i connotati dell’Altro: così il potere si sforza di stigmatizzarne i tratti inconciliabili con la cultura e la civiltà della maggioranza. La differenza culturale viene trasformata in gerarchia e si crea la subalternità.
I più comuni tratti dell’Altro sono oggi quelli dell’extracomunitario, tanto meglio se clandestino. Si stabilisce un’equazione tra la clandestinità e la criminalità; il principale capro espiatorio per i fatti delittuosi diviene l’immigrato. Nel nostro Paese diventa così possibile emanare leggi lesive dei diritti umani e civili elementari: in nome della ‘tolleranza zero’ si prendono le impronte digitali delle persone che chiedono il permesso di soggiorno in Italia; si dà facoltà alla polizia e alla marina militare di fermare, perquisire e dirottare navi ‘sospette’ nelle acque territoriali e limitrofe; si complicano le regole per ottenere permessi di soggiorno. Si lede il principio di uguaglianza dei cittadini nei confronti della legge, introducendo pene differenziate per lo stesso reato a seconda che il colpevole sia italiano o extracomunitario. Tramite i centri di permanenza temporanea si introduce, solo per gli immigrati, la detenzione amministrativa.
Contemporaneamente, tuttavia, la domanda di lavoro aumenta e spesso resta insoddisfatta, per la pesantezza delle mansioni o la modesta entità dei salari: così si ricorre a persone che giungono dall’estero e che si accontentano di poco. La soluzione migliore è quindi proprio il clandestino, che per la sua subalternità non può reclamare diritti o scioperare. Lo straniero deve restare ospite perpetuo: costante è la minaccia della revoca del permesso di soggiorno.
La discriminazione e i plateali provvedimenti mirati a inferiorizzare l’extracomunitario servono dunque a un duplice scopo: da una parte si placa la paura della società maggioritaria, dall’altra si soddisfa con la minor spesa e responsabilità la domanda di lavoro. Così l’Europa e l’Occidente chiudono le porte principali all’immigrazione, lasciando contemporaneamente aperte quelle secondarie, per le quali si entra affrontando rischi e umiliazioni. Le minoranze aumentano e vengono ghettizzate socialmente e culturalmente. Per queste la globalizzazione comporta il delinearsi di due fenomeni complementari: da una parte l’omogeneizzazione definita attraverso la generalizzazione del consumo e della comunicazione di massa, dall’altra una polverizzazione in cui tutti i particolarismi identitari si chiudono in difesa e si rinsaldano. Le diaspore si moltiplicano. Che sorgano da un impatto rilevante quale un genocidio o un’espulsione violenta ‘come nel caso degli Armeni, dei Palestinesi, dei Curdi’ o da scelte volontarie, come la decisione di emigrare in Paesi che offrono più possibilità, esse creano nei luoghi ospiti minoranze culturali spesso facilmente identificabili.
In certi casi, infatti, un impatto rilevante può avere un valore fondante e fare della terra perduta un luogo mitico, un riferimento ossessivo. Ciò conduce a rinnovare gli interrogativi relativi alla propria identità e alla capacità di mantenerla nel nuovo contesto di vita. I soggetti collettivi che si pongono tali interrogativi sono immediatamente identificabili come gruppo etnico-culturale. Nel caso dell’emigrazione voluta, poi, non è escluso che restino legami forti con i luoghi d’origine. Così alcune diaspore, come quella cinese, funzionano secondo il modo dell’“etnia-nazione”: esse si specializzano in attività che associano la loro visibilità culturale a una determinata pratica economica, evolvendosi nella modalità dell’“ethnic business” (Wieviorka 2002, 44). D’altro canto, tutte queste alterità, oggi ancora più che in passato, non rimangono più chiuse, impermeabili agli incroci culturali. La grande sfida che gli Stati occidentali dovrebbero assumere, secondo Wieviorka, è il riconoscimento politico e amministrativo dei processi di mescolanza delle culture, nei quali ciascuna di esse è passibile di alterazione, senza necessariamente giungere all’assimilazione. Orientamenti politici anche tra i più progressisti “senza considerare quelli che mirano direttamente all’assimilazione o, al contrario, alla ghettizzazione della differenza”, nel momento in cui intraprendono il cammino per il riconoscimento culturale, politico e giuridico delle minoranze, rinunciano a considerare la fondamentale dinamica della trasformazione di una cultura in rapporto alle altre. I promotori di questi orientamenti hanno bisogno di delimitare in partenza i connotati della differenza irrigidendo così l’identità interessata. È da questo atteggiamento ‘multiculturalista’ che deriva, nel migliore dei casi, l’offerta di trattamenti particolari e mezzi preferenziali alle minoranze; nel peggiore dei casi la pratica multiculturalista comporta schedature e discriminazioni istituzionalizzate.
Per la mescolanza, il metissaggio, è difficile elevarsi al livello politico e giuridico. Si tratta di un processo che mescola culture dotate di storia, tradizioni, memoria; è un processo che parte dal basso, che destabilizza le culture creandone di inedite, che produce differenze senza limitarsi a ri-produrle. Si tratta di una dinamica che non pietrifica le differenze: al contrario, essa invita a rivolgere l’attenzione non tanto alle zone centrali dell’identità, quanto invece alle frontiere, dove tutto si mescola e tutto si trasforma.
La società che accoglie assume così un ruolo di grande rilevanza: essa diventa il luogo privilegiato per la mescolanza culturale. Ma la società non si limita ad essere un passivo teatro dei fenomeni di trasformazione: essa si trova ricreata, rinnovata da queste dinamiche.
Politiche che riconoscano il metissaggio devono essere necessariamente flessibili e complesse. Esse devono considerare le diverse identità non più come sfide o minacce: la riflessione sulle differenze può e deve diventare un lavoro della società su se stessa.
Raccontare storie e microstorie del territorio può essere utile, certo, per edificare ‘luoghi della memoria’ e monumenti a ciò che non siamo più, o ad elaborare fantasiose radici e appartenenze culturali; ma l’utilizzo che voglio proporre qui è ben diverso. Quello che qui voglio suggerire è di utilizzare questo tipo di racconti (come quello degli Ebrei di Altamura, o quello, controverso, spesso violento e ancora tutto da scrivere, degli Albanesi trasferitisi in Puglia) come esempio delle conseguenze che possono verificarsi qualora le categorie di identità e alterità vengano considerate con eccessiva rigidità.
Per approfondimenti:
MICHEL WIEVIORKA, La differenza culturale. Una prospettiva sociologica, Roma-Bari, Laterza, 2002 (Balland, 2001);
SASKIA SASSEN, Città globali, UTET, Torino, 2002 (Princeton University Press, 1991);
ULF HANNERZ, Flussi, confini e ibridi, in “Aut Aut” n. 312, novembre-dicembre 2002;
DAVIDE ZOLETTO, Gli equivoci del multiculturalismo, in “Aut Aut” n. 312, novembre-dicembre 2002;
DALE F. EICKELMAN, The Middle East and Central Asia, Pearson Education, Upper Saddle River, New Jersey, 2002;
RICHARD SENNET, Le città nell’era della flessibilità, in “Le monde diplomatique”, febbraio 2001;
RICHARD SENNET, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, 2002 (Norton & Co. 1999);
SASKIA SASSEN, Ma perchè emigrano?, in “Le monde diplomatique”, novembre 2000;
GEORGE E. MARCUS, Ethnography in/of the world system: the emergence of multi-sited ethnography, in “Annual Review of Anthropology”, n. 24, 1995;
MARC AUGÈ, Non luoghi, Milano, Elèuthera, 1993 (Seuil, 1992);
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PIER PAOLO PASOLINI, Lettere luterane (1975), Milano, Mondadori 1999.
NOAM CHOMSKY, Capire il potere, Milano, Marco Troppa Editore, 2002;
ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001 (University of Minnesota Press, 1996).