Non è sempre facile muoversi all’interno della riflessione sul postfordismo: si sottolineano spesso trasformazioni “linguistiche” del lavoro, che non è poi tanto semplice rintracciare nelle figure concrete del processo produttivo (e magari si oscurano le dure, materialissime permanenze).
Tuttavia credo che le questioni del sapere e del territorio si pongano effettivamente in modo diverso nel lavoro postfordista, rispetto all’economia tradizionale del Novecento. Un tempo, intorno alla Fiat, Torino si organizzava tutta come supporto logistico, rete di rapporti materiali, forniture, urbanistica ecc.. Ma l’azienda restava altra cosa. Produzione e conoscenza riguardavano gli ingegneri che “disegnavano” la linea incorporandole tutto il sapere necessario – sottratto e reso altro all’esperienza dei lavoratori.
Anche il processo politico di opposizione ed emancipazione avveniva più o meno intorno ad altri luoghi e ad altro sapere: nel sindacato e nel partito era la sfera generale e politica; occorreva “farsi stato” per immaginare un altro mondo possibile.
Oggi mi pare si possa parlare di un’integrazione più larga e, per così dire, più “intima” della sfera economica al territorio, della fabbrica a reti di comunicazione sociale; quasi una frammentazione che mentre spezza la fabbrica, arruola nella produzione tessuto e relazionalità interpersonale. La dimensione linguistica, appunto: dalla comunicazione – magari fra monitor – alla cura delle relazioni col cliente, alla cooperazione (sotto comando capitalistico) del vecchio just in time.
È in fondo tutta la vita che qui viene messa al lavoro, tutta la propria rete di rapporti e conoscenze. Direi una cultura del territorio che diventa flusso d’informazioni e di contatti, intreccio d’interessi amministrativi, ideologia dell’identità nell’adesione “affettiva” all’azienda.
Il punto è che in questo nuovo cuore relazionale del processo di valorizzazione del capitale, la dimensione relazionale può diventare cuore del conflitto; spazio pubblico ravvicinato in cui praticare la costruzione comune di conoscenza. Da usare altrove, rispetto alla fabbrica, e per altro: per la produzione di società a mezzo di linguaggio e singolarità (né individualismo competitivo, né cancellazione di sé nella massa).
Un sapere non più astratto – esattamente come si vorrebbe, lavoro: intercambiabile, segmentato e componibile –, somma di conoscenze “prestazionali” da trasmettere per essere in gara, docili e adattabili. Piuttosto alimentato da incontri e confronti di soggetti diversi che, a partire da punti di vista e storie personali, nel proprio spazio – che pure ha la sua storia – costruiscono un mondo comune. Fatto di domande dubbi desideri. Ricerca. Un luogo di relazioni politiche in cui portare tutta la propria vita; piazze e comunità di una repubblica “territoriale” e allo stesso tempo senza territorio: radicata e larga, dotata di riferimenti fisici e di reti immateriali, capace di pensare il mondo (la dimensione globale della produzione, del consumo, delle guerre) e costruire ponti, nodi di reti alternative di scambio e d’esperienza.
Insomma in una società dominata da un’economia sempre più diffusa, colonizzante e “politica” (intrecciata con la polis, le relazioni, la comunicazione, la cultura) che mette al lavoro il sapere, le capacità relazionali, le propensioni etiche, insomma l’intera vita (e l’intero territorio locale, come una Dogville aziendale), la battaglia politica è portare queste soggettività fuori dalla fabbrica, dal salotto privato o televisione comune, per darle nel territorio un luogo di incontro, di aggregazione ed elaborazione – nel senso di costruzione di polis, di repubbliche dei destini comuni. Il territorio non è più un paesaggio naturalistico e non ha più nulla a che vedere con la riduzione del contesto naturale alla misura dell’homo economicus o dell’homo faber: insomma a una razionalità strumentale e a una strumentalità produttivistica; qui è paesaggio politico, sapere di territori, conoscenza degli equilibri ambientali, apprendimento dei luoghi, cura dei contesti. Insomma la conoscenza del nostro “far parte”, essere narratori interni delle storie e delle geografie (l’abbattimento della distanza non sarebbe più infatti “scomparsa della geografia” ma anzi geografia globale immediata). Narratori interni, giocatori nella partita, non arbitri ed onnipotenti creatori o burattinai.
Forse proprio questa nuova dimensione produttiva, che rende merci linguaggio, rapporti, relazioni di vicinanza (per proiettarli oltre il territorio, nella competizione mondializzata e deterritorializzata), determina il carattere sovversivo possibile di una socialità sottratta all’economia, di un sapere che non si arruola nello scambio commerciale imperiale. La soggettività, centrale nella produzione e riproduzione, anche ideologica, dei rapporti sociali capitalistici, lo è anche in una nuova forma di politica e di polis da praticare. Antagonista.
Sottrarre la vita alla sfera della mercificazione potrebbe significare collocarla in un contesto locale, biologico e biopolitico. Eco-logico. E collocare questo contesto nel mondo, come rete di rapporti fra soggetti diversi in cerca di un luogo comune da abitare; capace di rispetto delle diverse storie, tradizioni, culture. Insomma di rifiutare ogni forma di riduzionismo, economicismo, ordine fondato sulla legge del più forte. Sugli eserciti e sulle guerre.
In questo scenario la questione delle conoscenze riguarda il che cosa e il come conoscere, prima di tutto.
Non si tratta di mettere a libro-paga un sapere e un tessuto di relazioni ravvicinate resi funzionali alla competitività dell’azienda; è lavorare su quel sapere, all’interno di quelle relazioni fra generi e generazioni diverse, fra esseri umani e paesaggio. Giardini e deserti. È conoscere attraverso le radici e le fronde, gli sradicamenti e gli attraversamenti di altre storie e culture. È in un certo senso un sapere di spazi aperti e di frontiere, di incroci e passaggi: non di sangue e suolo. Una capacità di traduzioni fra luoghi e linguaggi, fra radici e spostamenti e terremoti. Per una casa comune aperta, di parole e cose. Viventi.
La conoscenza avviene in questo scambio gratuito che costruisce repubbliche, oppure è solo trasmissione quantitativa e prestazione tecnocratica.
Avviene in luoghi istituzionali come scuole e università, così come in tutti gli spazi sociali in cui ragazze e ragazzi, uomini e donne, si scambiano informazioni e conoscenze liberamente, in una ricerca aperta di sapere e di senso – aldilà di ogni possibile copyright: come diritto inalienabile al pensiero e alla conoscenza. È un fatto politico quindi: né economicistico e di mercato, né privato (proprio “capitale conoscitivo” o appartenenza familiare da continuare fuori, come la società fosse il giardinetto di casa da cui tenere lontani “i cattivi” di altra religione accento o famiglia); né semplicemente statale: emanazione degli indirizzi culturali di un ministro o di un assessore, megamacchina buropedagogica o “alta professionalità” di una corporazione. Il sapere è una costruzione “partecipativa”, non un “versamento” di conoscenze tutte già compiute da chi sa a chi non sa (e le paga come una merce o un servizio a domanda individuale), buone per collocarsi gerarchicamente nel lavoro. Adattabili, flessibili, occupabili.
Ha a che vedere più con la sfera del gratuito e del valore d’uso della conoscenza, che non con la carriera, il premio del reddito e il valore di scambio del titolo di studio. Perché proprio l’epoca della bioeconomia e della biopolitica fa del sapere e dei contesti locali un fatto economico potente, dunque potentemente politico. E permette forse di porre l’obiettivo di una liberazione dei contesti e delle loro “vocazioni”, delle soggettività e dei loro intrecci di radici e fronde, dalla contabilità aziendale verso la cooperazione e la polis.
I nostri territori sono le piazze e piazzette in cui portare finalmente tutto se stessi; in cui la costruzione comune di conoscenza – che è discorso e ascolto, comunicazione con altri/e e con l’ambiente – può tessere il filo rosso di una agorà nella quale non si separino più politica e società, politica economica e politicità dell’economia, linguaggio della soggettività (magari bandiere alle finestre) e militanza. Bisogni e desideri.