La recente riforma dell’università, con l’introduzione dei crediti e dei moduli d’insegnamento, l’apparente snellimento dei percorsi e la suddivisione in due livelli di laurea, sembra tendere alla ricostituzione di una corrispondenza perduta tra istruzione superiore e mercato del lavoro.
Molti sembrano convinti infatti che questa riforma, da un lato, miri a promuovere una maggiore “finalizzazione” dei contenuti delle lauree attraverso Corsi e discipline nuove e, dall’altro, tenda a consentire al singolo studente di variare all’occorrenza la combinazione degli insegnamenti o delle loro parti (moduli), fino a poter reinvestire i crediti già guadagnati in un Corso di laurea per lui “sbagliato”, eventualmente, in un altro Corso a lui più congeniale. Egli dovrebbe così riuscire, alla fine e senza perder troppo tempo, a costruirsi un proprio “profilo” corrispondente tanto alle sue vocazioni che alle richieste del mercato.
Pier Aldo Rovatti, nel suo contributo ad un libro pubblicato con Jacques Derrida (L’università a condizione, in L’università senza condizione, Cortina, Milano 2002), mette a fuoco la situazione dell’università italiana, ponendo in luce tra l’altro il fatto che il sistema dei crediti e dei moduli, in realtà, si sta rivelando astratto, rigido, macchinoso e frammentario. Quasi sempre, ad esempio, per totalizzare i crediti necessari al conseguimento di una laurea, le discipline che si devono studiare obbligatoriamente sono molte di più di quelle che si possono scegliere liberamente. Inoltre, con il moltiplicarsi e il frantumarsi di insegnamenti, moduli e laboratori, le prove di verifica o di esame che si debbono sostenere, per esempio nel triennio di base, sono più di quelle che si dovevano sostenere prima in quattro anni. Insomma, nella nuova università sono presenti aspetti di irrigidimento e appesantimento che vanno esattamente in senso opposto alla maggiore flessibilità che sarebbe necessaria per stare al passo con una domanda di lavoro variabile, dinamica e diversificata come pare essere quella attuale.
Secondo Rovatti, proprio questi aspetti dovrebbero farci capire che ci troviamo di fronte ad un’enorme finzione di adeguamento dell’università: il carattere fantasmatico (né vero né falso) o illusionistico del rapporto con la domanda esterna, come pure la reale mancanza di un modello culturale alternativo a quello vecchio, sono forse elementi strutturali e necessari di un’università che non può fare a meno di fingere di cambiare, proprio perché non può mantenere le promesse che la riforma le chiede di fare.
Tutto questo si può spiegare osservando che l’università non può adeguarsi all’idea di diventare un “super-liceo” o un “super-professionale” senza rischiare di negarsi totalmente come università; oppure dicendo, più prosaicamente, che certi consolidati rapporti di forza politico-culturali dell’accademia non si lasciano smantellare o rimodellare come se nulla fosse. In ogni caso, dice Rovatti, ciò che non si può trascurare è che l’università funziona come tale – se funziona – soprattutto se riesce ad essere il luogo di un certo “eccesso” e di una certa “incondizionatezza”: gli studenti vi trovano, devono trovarvi, l’occasione per fare dei percorsi personali o comuni di crescita, di socializzazione, di studio, di approfondimento che apparentemente o immediatamente “non servono a nulla” (e l’abolizione sostanziale della tesi di laurea, da questo punto di vista, in effetti è particolarmente grave); nell’università, inoltre, ci sono sempre docenti (pochi o molti che siano, non importa, ma ci sono) che sconfinano continuamente dalla logica del quarto d’ora, dagli steccati delle discipline, delle professioni, del rapporto burocratico con l’utenza, contribuendo soprattutto in tal modo alla crescita e alla formazione dei giovani.
Detto questo, però, poiché la macchina della riforma è ormai avviata e fermarla potrebbe essere più dannoso che mantenerla in moto, si tratta di capire – secondo Rovatti - come, nel nuovo scenario, si può rinnovare o riattivare lo spazio dell’“eccesso” e dell’“incondizionatezza”, come si può riuscire a rilegittimarlo.
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Credo non ci si debba nascondere che le analisi di questo genere sono abbastanza condizionate dal punto di vista da cui vengono fatte, che è quello di chi lavora (come chi scrive, d’altronde) in una facoltà umanistica e, per giunta, insegna una disciplina filosofica (Rovatti insegna Filosofia contemporanea a Trieste). Non si tratta però di contrapporsi a simili analisi, sostenendo ad esempio che nelle facoltà tecnico-scientifiche le cose vanno meglio; non si può escludere però che lì le cose, quanto meno, vadano diversamente; che, magari, la finzione di un’università più vicina al mercato del lavoro lì sia meno scoperta e perciò più credibile di quanto non sia nelle facoltà umanistiche. Del resto, basterebbe che in quelle facoltà le cose continuassero ad andare più o meno come prima: in molte di esse gli studenti e i laureati sono sempre stati pochi e, comunque, hanno sempre trovato più rapidamente di altri degli sbocchi lavorativi.
Si dirà allora che questa riforma, se non altro, è sbagliata per gli studi umanistici poiché sono questi i meno adatti all’attuale inscatolamento dei contenuti e dei percorsi. Ma anche a questo riguardo bisogna intendersi. A che cosa ci riferiamo quando parliamo di studi umanistici? Alle vecchie Facoltà di Magistero o di Lettere? Sono proprio queste Facoltà, in realtà, ad aver tradotto la riforma in uno scompaginamento profondo dei vecchi modelli, in un proliferare incredibile di corsi di Conservazione dei Beni culturali, di Scienze della comunicazione, della formazione, dell’educazione, di Scienze e tecniche psicologiche o per Operatori dei servizi sociali, ecc..
Questo, certo, non smentisce affatto le tesi di Rovatti, ma dimostra pure che i saperi umanistici non hanno reagito tutti allo stesso modo alla riforma. Ce ne sono parecchi che hanno trovato la maniera di rinnovare o di riverniciare i loro vecchi percorsi rendendo credibile o efficace la finzione dei moduli da montare e dei crediti da spendere sul mercato del lavoro. Proprio perché - come dice Rovatti - una notevole quota di finzione in questa università resta ineliminabile, basta che la finzione appaia verosimile almeno qualche volta; basta che un laureato su tre trovi in tempi ragionevoli un lavoro, perché ci si convinca che “va tutto bene”. Il boom – per quanto “chiacchierato”, per lo meno a Bari – di Scienze della formazione e della comunicazione, sembra basato proprio su una “illusione efficace” di questo tipo. Insomma, se è giusto parlare di finzioni e di illusioni, si tratta sia di distinguere che di comprendere i loro modi, gradi e risultati diversi.
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Tutto ciò non impedisce di constatare che da un quadro simile “residuano” quei saperi, quei metodi di insegnamento e quei docenti che hanno sempre lavorato sullo smascheramento delle finzioni e che, perciò, non si sa cosa dovrebbero fingere per sopravvivere: fingere di fingere o fingere di non fingere? In una situazione simile vengono a trovarsi soprattutto le discipline “gestite” da persone che, se si trovassero a dover scegliere tra poche parole per ridefinire con nuove etichette i loro “vecchi” corsi di insegnamento (in realtà, è ciò che è accaduto in moltissimi casi), userebbero più volentieri il termine “critica” che il termine “comunicazione”: filosofia critica o critica della filosofia, sociologia critica o critica della sociologia, economia critica o critica dell’economia, storia critica o critica storica (e, perché no, critica della medicina, della fisica, dell’ingegneria e persino critica della comunicazione), piuttosto che filosofia, sociologia o economia… della comunicazione.
È chiaro che, oltre a costituire la riserva energetica dell’università che resiste all’aziendalismo montante, queste persone (e questi saperi) sono tra i bersagli principali della riforma. Ma proprio per questo è altrettanto facile che esse siano pronte ad abbandonarsi al vittimismo o a lanciare invettive anche aspre, ma per lo più generiche o semplicemente ideologiche, contro il nuovo modello. Il problema è, invece, quello di capire con precisione da dove deve partire la via critica alla nuova formazione universitaria.
In tal senso deve far riflettere innanzitutto la condizione economica, tutt’altro che congiunturale, in cui oggi si trova l’università pubblica. Mi riferisco al fatto che il governo non solo non ha soldi da darle oggi, ma non ha voglia di darglieli neppure domani; mi riferisco al fatto – lo ricorda anche Rovatti – che l’attuale riforma è stata concepita ed attuata come riforma a costo zero (dai governi dell’Ulivo); che numerosi docenti e ricercatori vincitori di concorso non vengono assunti da circa un anno; che proprio le facoltà più “innovative” e frequentate (per esempio, Scienze della comunicazione a Roma) svolgono le lezioni nei cinema, nelle scuole, nelle altre facoltà, e si servono di docenti a contratto che spesso non sanno come pagare; che, ciò no-nostante, i soldi per la nuova università dell’Opus Dei nella prossima finanziaria delle vacche magre saranno stanziati…
Come si fa a rilanciare l’incondizionatezza dell’università in un simile contesto? Facendo emergere, ad esempio, l’enorme contraddizione fra un “risanamento” del deficit pubblico a colpi di svendite del patrimonio immobiliare dello Stato e l’enorme spesa che in un caso, tutt’altro che isolato, come quello di Roma l’università sostiene per affittare cinema e altri locali per le lezioni; mettendo in luce che mentre si istituiscono, a destra e a manca, corsi di laurea in scienze ambientali, con un semplice decreto il governo individua un sito nazionale delle scorie nucleari senza aver fatto alcuno studio scientifico-ambientale approfondito; mettendo in evidenza, in definitiva, che i saperi “incondizionati”, “eccessivi” (o eccedenti), rischiano di andare molto al di là dei limiti della sola filosofia. E che c’è poco da riempirsi la bocca con l’idea che l’università privata sarebbe la soluzione di tutti i mali.
Non è affatto detto che i corsi di scienze della comunicazione (troppo frequentati), di scienze dell’ambiente o di economia postindustriale e sostenibile (troppo rigorosi) interessino ai privati più che allo Stato. E se ne potrebbero aggiungere altri alla lista. Comunque sia, non è possibile né mandare tutti alla LUISS, né mandare tutti a casa a vedere Tremonti che dà i numeri in TV. Insomma, proprio nell’università le politiche di privatizzazione dei servizi pubblici potrebbero conoscere una crisi tale da trovare impreparati persino quelli che a queste politiche non hanno mai creduto (almeno a parole).
A che cosa si rischia di essere impreparati? Esattamente al compito di pensare e praticare un nuovo spazio della formazione e dell’istruzione che non sia soffocato dalla falsa alternativa tra Stato e mercato; al compito di rispondere a domande come queste: come si elabora, si legittima (e si insegna) l’idea che non c’è alcuna consequenzialità tra la crisi della spesa statale e la fine dello spazio pubblico dell’istruzione, della sanità, della partecipazione, o la liquidazione del carattere comune di beni come l’acqua, il suolo, l’aria, l’etere…? Come si inchiodano le istituzioni italiane e l’Unione Europea alle loro responsabilità in proposito, senza temere di essere più colbertiani di un Bossi o di un Tremonti che, da bravi liberisti della domenica, un giorno vogliono mettere i dazi sulle importazioni e l’altro fanno saltare il patto di stabilità europea?
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Ma, oltre questi interrogativi, ce n’è un altro più preciso: qual è l’arcano che consente di imporsi a un’università che vorrebbe (o finge di) porsi in collegamento diretto col mercato del lavoro, senza averne i mezzi ed usando soprattutto molta vernice, molte nuove etichette e molta contabilità creditizia? Forse per svelare questo arcano, prima della nuova università, dovremmo mettere in discussione l’idea stessa di mercato del lavoro. Non mi riferisco solo al fatto che la domanda di lavoro è del tutto evanescente, cambia continuamente, diminuisce costantemente… Penso, piuttosto, al fatto che il classico gioco della domanda e dell’offerta è ormai cambiato radicalmente e, soprattutto nel caso del lavoro intellettuale, sta per essere soppiantato da qualcos’altro.
Ciò che si sta formando, forse, è una sfera della circolazione del capitale umano più che dello scambio tra offerta e domanda di lavoro. Ciò che si va definendo non è un nuovo terreno di confronto tra capacità di lavoro da una parte e capacità di investimento dall’altra, che dovrebbero cerare di incontrarsi, restando distinte. Piuttosto il nuovo scenario richiede innanzitutto capacità intellettuali autonome di procurarsi reddito, accumulando competenze, requisiti, crediti, titoli, livelli formativi (lauree di base, specialistiche, master, stages, dottorati, ecc.); capacità di investire continuamente su se stessi, rischiando in proprio il successo o l’insuccesso degli investimenti fatti, ovvero delle scelte di “autovalorizzarsi” in un senso o nell’altro. È a tale riguardo che sono significative tanto l’idea di credito formativo quanto quella di prestito d’onore.
Perciò – per quanto sia grottesca, finta o imperfetta – l’università modulare e creditizia non va valutata semplicemente in rapporto alla formazione di un’offerta di lavoro; va esaminata anche come possibile sede della creazione su larga scala dell’attitudine a farsi carico di entrambi i poli del rapporto fra domanda e offerta, fra capitale e lavoro: lo studente universitario forse è chiamato a saper diventare sia capitale costante (mezzo di produzione) del suo stesso capitale variabile (lavoro) che, viceversa, forza lavoro dello stesso capitale tecnico-intellettuale che si incarna in lui. È in questo senso che, probabilmente, egli è chiamato a saper essere l’imprenditore di se stesso.
Detto per inciso, a questa idea di capitale umano avevano cominciato a pensare gli economisti neoliberali americani più di trent’anni fa, cioè qualche decennio prima che qualcun altro sulla sponda politica opposta, soprattutto in Italia, riformulasse in termini abbastanza speculari a questi il concetto marxiano di General Intellect, intendendolo come cervello umano collettivo che attraverso il sapere si riappropria immediatamente dello strumento di lavoro, vedendovi la nuova potenza liberatrice della società postmoderna. Non sarà, invece, il caso di moderare gli entusiasmi che questa riformulazione tende a suscitare?
Comunque sia, le forze critiche della nuova università non dovrebbero limitarsi a denunciarne le illusioni e le finzioni, ma dovrebbero prendere coscienza che forse sono già dentro fino al collo ad un gioco come quello che ho cercato di delineare. La stessa università pubblica, nella sua interezza, potrebbe scoprire, quando sarà ormai troppo tardi, di non essere adatta a questo gioco e di aver perduto del tutto la capacità di pensarsi diversamente.