Lo spazio “di sotto”
di Imma Barbarossa

“Se prima l’argomento della superiorità era l’appartenenza ad una razza, adesso è la geografia. Quelli che vivono nel Nord non abitano il Nord geografico ma il nord sociale, insomma, stanno di sopra. Quelli che vivono al Sud, stanno di sotto. La geografia si è semplificata: c’è un sopra e un sotto. Di sopra, lo spazio è ristretto e ci entrano solo in pochi. Di sotto, lo spazio è tanto vasto da poter comprendere qualsiasi luogo del pianeta, c’è posto a sufficienza per l’intera umanità” (Marcos).
È proprio lo spazio “di sotto” che va ri/progettato per essere abitato da donne e uomini liberi.
Pertanto la questione della cittadinanza può e deve avere un significato ampio, al di là di quanto sinora sia stato pensato. Si tratta di affrontare molte questioni, per esempio:
I. gli stati-nazione hanno consumato la loro capacità di mediazione politica: siamo ai nazionalismi, alla difesa identitaria di radici e di piccole patrie;
II. una cittadinanza europea non può non tener conto che esiste una Europa considerata “altra” rispetto all’Europa occidentale, una Europa che si ritiene da colonizzare col mercato unico;
III. una cittadinanza europea non può essere solo formale, ma deve essere sociale, cioè legata strettamente ai diritti (e ai poteri) oltre che al superamento di alcuni punti della Carta di Nizza;
IV. una nuova idea di cittadinanza deve comprendere:
a) l’attraversamento di confini e frontiere, che devono diventare soglie di attraversamento, non trincee (limina, non limites);
b) un’idea di sicurezza non come difesa ma come apertura, accoglienza, scambio. Riconoscimento;
c) la critica del concetto liberale di tolleranza e quindi un totale rimescolamento dei concetti di diverso ai fini del confronto continuo tra le differenze. C’è forse un depositario dei diritti universali, un misuratore dei diritti umani?
d) un rapporto con i paesi del Mediterraneo, che oggi si caratterizza come invasione di mercato o controllo delle frontiere o si riduce a gemellaggi culturali tra Università;
e) la rinuncia ad una definizione di Europa cristiana, il che vuol dire rinunciare anche ad esportare tutele di embrioni e altre pretese della Chiesa cattolica;
f) una impostazione sociale, politica, simbolica della cittadinanza di genere. Questa implica una critica di genere ai nazionalismi, la decostruzione di una cittadinanza collegata agli eserciti, oltre che appiattita sulla produttività (né cittadino = soldato, né cittadino = lavoratore in produzione).
Vediamo più in particolare.
La crisi dello stato-nazione e/o il suo superamento pongono l’esigenza di pensare ad una proposta di cittadinanza europea che andrebbe definita con logiche completamente diverse da quelle messe in atto dai governi europei: che sono logiche esclusivamente mercantili (diritti di passaggio per merci) e finanziarie (uso delle reti telematiche nell’interesse delle banche e dei ceti privilegiati).
Tali logiche sono completamente prive di attenzione alle questioni sociali ed esistenziali (transito di profughi/e, ricerca di lavoro/i, diritto alla fuga, ricerca di agio e di libertà), oltre che completamente incentrate su una lettura maschile, patriarcale e totalizzante (azzeramento delle differenze, in particolare di quella di genere). Su questo tornerò.
La cittadinanza rimanda al tema dei diritti, ma domanda contesti e spazi altri: il contesto della non/esclusione e della convivenza, lo spazio pubblico in cui possano agire le soggettività.
Le città, costituite all’inizio del secondo millennio dalle borghesie comunali, erano recintate da mura; per entrare si pagava una tassa al gabelliere. Non era bello, prima di tutto perché l’entrare non garantiva né contesto favorevole né accoglienza né spazio pubblico, poi perché la tassa di entrata escludeva nullatenenti, malati, mendicanti, disabili. Costoro, se indigeni, erano dislocati sui gradini delle chiese a chiedere la carità, come ai nostri semafori.
Insomma il topos dello straniero era quasi immodificabile, e le porte si aprivano facilmente, invece, a mercanti e cambiavalute.
Ma oggi nel secolo ventunesimo è ancora peggio: la Marina Militare presidia le coste dell’Italia meridionale e della Sicilia, i fuggiaschi e le fuggiasche pagano ben più di una gabella per essere rinchiusi in campi con filo spinato, senza nemmeno il diritto di transito. Giacché le mura di cinta sono diventate veri e propri ostacoli materiali, chiusure mentali, rifiuti culturali.
Infatti la cosiddetta vicenda dell’immigrazione mette in evidenza il deficit di democrazia e di civiltà che accompagna lo sviluppo dell’Unione Europea e il percorso di redazione della sua Costituzione.
L’immigrazione (e le migrazioni) è una dimensione ormai intrinseca e costitutiva della nuova Europa e dell’organizzazione mondiale del mercato. Ma la politica dei governi e della U.E. nel suo complesso non appare in grado di dare ad essa una risposta adeguata.
Le donne e gli uomini migranti rappresentano la fascia più disagiata e sfruttata del lavoro, costretti a subire la mancanza di diritti e il peso di razzismo e xenofobia. L’immigrazione è percepita infatti sempre più, in un’Europa che via via perde le sue sicurezze, come la violazione delle frontiere, l’aggressione alla sicurezza interna, la prospettiva di dover condividere con il più povero la povertà. L’immigrato diventa così il clandestino, il mal tollerato, il capro espiatorio di tutte le disgrazie. L’“altro da sé”; quasi uno stereotipo. Intorno a lui, nell’era della globalizzazione, crescono nuovi invalicabili muri. Si chiedono controlli, recinti, pattugliamenti, impronte di piedi e di mani. Cresce il traffico delle donne, in un nuovo mercato della schiavitù sessuale che ripropone in forme brutali, organizzate, “moderne” l’antico controllo maschile sul corpo femminile, e l’antica ipocrisia dei nostrani “padri di famiglia” e “mariti esemplari”, che gridano all’offesa al pudore e alla pubblica morale, organizzando ronde (quando, ovviamente, non sono in compagnia delle “pubbliche donne”) e coinvolgendo amministratori locali.
La questione immigrazione, insomma, viene indecentemente collegata alla sicurezza di noi “indigeni”, ma dopo l’11 settembre viene ormai connessa alla lotta al “terrorismo”, messa in campo dall’Occidente (e della grande Alleanza di interessi e di potere che vi si è aggregata intorno), per esercitare dominio e per criminalizzare il dissenso nonché le proteste e le contestazioni del movimento antiglobalizzazione.
Infine il ruolo delle donne nella sfera politico-istituzionale e nei governi varia certamente in Europa da Paese a Paese. Si tratta, tuttavia, di un ruolo non adeguato rispetto al peso che la parte femminile ha nell’insieme della società, ormai in tutti gli ambiti.
Città, statuti, costituzioni, leggi si sono “fondate” senza le donne, talvolta contro le donne. Negli statuti dei paesi occidentali le donne sono tutt’al più destinatarie (e oggetto) di politiche di “pari opportunità”, di “azioni positive”, di “norme antidiscriminatorie”. La cittadinanza femminile è stata considerata una sorta di “promozione”, gentilmente concessa malgrado il ruolo naturale (casa, privato, famiglia, cura).
Gli statuti europei devono partire dagli esclusi (uomini e donne, anziani/e, bambini/e) in generale, e questo è un fatto sacrosanto. Ma devono essere segnati dal pensiero e dalla pratica delle donne.

gennaio - aprile 2004