0. In questi ultimi anni la violenza repressiva (tesa al controllo dei conflitti sociali ed effettuata da parte degli stati nazionali) e la guerra sembrano aver rovesciato il rapporto di subalternità rispetto alla politica e quindi di essersi autonomizzate dalla politica stessa.
1. L’analisi del rapporto tra politica degli stati nazionali e guerra non può prescindere dalle considerazioni intorno al processo di degrado della politica stessa. Nell’ultimo decennio la politica degli stati nazionali sembra aver definitivamente abbandonato i luoghi ove trovava la sua piena identificazione con la ricerca della soluzione dei problemi posti dai conflitti tra capitali e con la più ambiziosa possibilità di progettare il futuro cogliendo la mediazione possibile tra capitalismo e democrazia. 2. Fino agli anni ’90 la politica degli stati nazionali puntava a disciplinare il conflitto sociale con una miscela accorta di repressione e di pratica economica basata sul sostegno alla domanda: la competizione tra capitali veniva tenuta ad un basso livello e il costante incremento del salario sociale dava risposte positive e in avanti alla richiesta di soddisfacimento di bisogni riducendo così il livello di conflittualità.
Dal ’90 in poi questo tipo di Capitalismo Keynesiano crolla e dà luogo ad un nuovo processo economico nel quale riprende in maniera selvaggia il conflitto tra capitali: il costante aumento del flusso di capitali nella innovazione del processo produttivo (indotto dal suddetto innalzamento della competizione tra capitali) inizia a restringere i margini economici per il sostegno alla domanda. 3. La politica degli stati nazionali si impoverisce poiché non ha più a disposizione le risorse economiche da utilizzare nel sostegno alla domanda e quindi nel contenimento ‘pacifico’ del conflitto sociale. Da arte del possibile, definita in un contesto di relazioni umane, la politica si abbassa di rango ed abita gli stessi luoghi del “techné” ossia si colloca laddove si precisano le capacità per realizzare scopi senza alcuna possibilità di definire la natura degli scopi stessi.
La politica diventa quindi solo una tecnica: in particolare una tecnica che definisce le metodologie e le procedure per la conquista ed il mantenimento del consenso.
Il pensiero di Heidegger sembra far da unico sostegno teorico all’azione di questa politica.
In tale quadro concettuale l’essenza dell’essere, consistendo nell’esserci, abita il tempo e quindi proviene dal nulla.
L’idea che l’essenza dell’essere sia il divenire dal nulla (eludendo qualsivoglia considerazione intorno al divenire tra poli di opposte tendenze ossia al concetto di “contraddizione”) si accompagna alla idea che la realtà sia completamente plasmabile dal soggetto (ossia che tutto sia possibile) e conseguentemente fa da sostegno alla fede nella potenza e nella volontà di potenza: non a caso la politica (in tale concezione) si riduce semplicemente a quella azione che (senza risolvere i problemi e progettare il futuro) si limita a mostrare la forza la cui proiezione sul piano delle immagini viene ritenuta sufficiente a controllare il conflitto sociale.
L’idea che l’essere trovi quindi la sua essenza nella provenienza dal nulla si colloca al confine tra fenomenologia ed esistenzialismo e fa da sostegno al processo di crescita ipertrofica dell’unica categoria del pensiero rimasta in vita: la categoria della possibilità. Possibilità senza necessità e conseguentemente politica pensata come azione che onnipotentemente può conquistare il consenso e prescindere dal necessario governo dei rapporti materiali tra gli uomini nella direzione della riduzione dei conflitti e delle instabilità.
Una politica quindi che diventa, in ultima analisi, Heideggerianamente politica di potenza. 4. L’abbassamento di rango della politica (pur senza ribaltare completamente il rapporto tra politica stessa e tecnica militare) consente oggettivamente al militarismo ed alla repressione di emergere e di fuoriuscire dai confini definiti dall’efficace e razionale individuazione del rapporto tra mezzi e scopi.
L’analisi del rapporto tra politica e repressione (violenza usata in diversi modi che variano dalla semplice ipertrofia dell’azione della magistratura alla guerra vera e propria) non può prescindere da alcune considerazioni sull’essenza della guerra stessa.
La guerra si mostra in forma contraddittoria: la guerra “in sé” che si presenta come un duello in grande il cui obbiettivo è l’abbattimento dell’avversario e la guerra “per sé” ossia l’azione violenta concepita come elemento intimamente relazionato alle condizioni ad esso esterne quali i mezzi materiali (economici, morali ecc.). La guerra “in sé” si presenta come guerra assoluta senza altre limitazioni che quella imposta dalla forza dell’avversario e senza altro obbiettivo che quello dell’abbattimento dell’avversario stesso. Ma la guerra “in sé”, assoluta è detta da Clausewits come cosa priva di senso, come caduta nell’irrazionale. Il momento di sintesi tra guerra “in sé” e guerra “per sé” viene di volta in volta trovato dalla politica allorquando questa si dimostra capace di ben definire il vero obbiettivo della guerra e di cogliere il nesso tra tale obbiettivo (che non è di natura militare) ed i mezzi a disposizione (che solo il momento politico può controllare stante il carattere non esclusivamente militare di tali mezzi).
È solo la politica che, oggettivamente, essendo in grado di controllare il rapporto tra mezzi e scopi può efficacemente individuare il suddetto momento di sintesi. In altri termini solo la politica può controllare razionalmente l’evento bellico e lo fa modificando il senso dell’obbiettivo posto alla guerra: da abbattimento dell’avversario della guerra “in sé” ad “imposizione della propria volontà all’avversario”, compatibilmente con i mezzi a disposizione.
Nella storia dell’umanità questo punto di sintesi è stato trovato (dalla politica) a volte in posizioni più vicine alla forma della guerra “in sé”, a volte in posizioni più prossime alle forme della guerra “per sé”.
Vi sono state guerre che proprio perché completamente politiche (ossia proprio perché animate da grandi tensioni morali in grado di mobilitare ingenti risorse materiali) si sono mostrate (solo apparentemente) come guerre assolute poiché l’obbiettivo dell’imposizione della propria volontà all’avversario sembrava coincidere con quello del suo abbattimento (per esempio la guerra antinazista).
E, d’altro canto, vi sono state guerre il cui obbiettivo politico era così debole da non riuscire a mobilitare ingenti risorse e quindi si presentavano come guerre di tipo elusivo, poco determinate e conseguentemente più esplicitamente governate, in ogni istante dalla trattativa e quindi dalla politica. Pure vi sono esempi , nella storia dell’umanità ove la razionale ricerca del punto di sintesi tra guerra assoluta e guerra condizionata dalle circostanze esterne è completamente venuta meno.
In quelle situazioni (oltremodo drammatiche) la politica è venuta meno nella sua capacità di individuare correttamente l’obbiettivo della ‘imposizione della propria volontà all’avversario’ e di conseguenza è stata incapace di cogliere adeguatamente il rapporto tra tale obbiettivo e i mezzi a disposizione. In tali situazioni la tecnica militare rompe il rapporto di subalternità alla politica ed emerge il militarismo ossia l’irrazionale uso della violenza che ha come obbiettivo l’unico scopo che il militare sa concepire ossia quello imposto dalla tecnica del duello che ha come unica conclusione l’abbattimento o di se stesso o dell’avversario. 5. Attualmente la tecnica militare rimane comunque ancora subalterna alla politica nel senso che il militarismo non trova (ancora) la possibilità di dispiegarsi in forma piena: una misura della limitazione all’uso della tecnica militare nel disegno di controllo del conflitto sociale può individuarsi nel fatto che l’obiettivo delle guerre attuali non consiste nel puro e semplice “abbattimento dell’avversario” ma ancora abita i luoghi (i cui contorni sono definiti dalla politica) occupati dalla “imposizione della propria volontà all’avversario”.
In altri termini non è dato ancora di assistere al completo rovesciamento del rapporto di subalternità della guerra alla politica; ma essendo la politica ridotta a pura tecnica per la conquista del consenso (che usa l’immagine della forza come elemento di inibizione di ogni conflitto) la tecnica militare trova occasioni sempre più frequenti per emergere e tali occasioni (come si è gia detto) le vengono offerte dalla vacuità della attuale politica degli stati nazionali. 6. Il degrado della politica va ricercato nel tramonto definitivo di ogni forma di Keynesismo nel governo della contraddizione di fondo del capitale.
La contraddizione tra socialità del momento produttivo e privatezza del momento appropriativo genera conflitti tra capitali e crisi di sovrapproduzione. Fino agli anni ’90 tali crisi venivano contenute con un forte sostegno alla domanda da parte degli stati nazionali.
La politica di questi stati, quindi, ai conflitti rispondeva con il razionale progetto del futuro ove la ritrovata sintesi tra capitalismo e democrazia consentiva il controllo dei conflitti in forma pressoché pacifica (almeno nei paesi del nord del mondo).
Il sostegno alla domanda si ergeva quindi a piano d’appoggio sul quale la politica dispiegava la propria capacità di ricomposizione e mediazione: il Keynesismo è definitivamente tramontato e con esso è caduto quel piano d’appoggio che sosteneva la politica nell’alveo della progettualità razionale e pacifica.
In questa fase il potente conflitto tra capitali è l’elemento centrale che occupa l’orizzonte. 7. Una riedizione del Keynesismo non è possibile: il sostegno alla domanda dovrebbe essere fatto, necessariamente, dagli stati nazionali; ma laddove le innovazioni tecnologiche del processo produttivo non si sono compiutamente dispiegate (come in Italia) il sostegno alla domanda (fatto dallo stato nazionale) non genererebbe un piano di orientamento stabile per la produzione nazionale (sembra giungere a proposito la crisi della Fiat), poiché tali capitali sarebbero attratti verso merci estere con un maggiore contenuto di innovazione tecnologica. In altre parole qualunque ipotesi di politica che si basasse sul Keynesiano sostegno alla domanda si imbatterebbe nella contraddizione tra carattere necessariamente nazionale del suddetto sostegno alla domanda e carattere internazionale e globalizzato della circolazione delle merci. |