La “contro-cultura” del teratocapitalismo
di Pasko Simone

"Mai come oggi si è sentito tanto parlare di civilizzazione e cultura, mentre è la vita stessa che sta scomparendo. E c'è una strana corrispondenza tra questo generale crollo della vita, che comprende ogni singolo sintomo di demoralizzazione, e questa ossessione per una cultura pensata per tiranneggiare sulla vita"
Antonin Artaud


La decomposizione culturale della fase finale del capitalismo si è tramutata nello spettacolo della sua decomposizione. La guerra come unico “ritornello” dell’eterno finale. L’oppressione, la violenza e la fame, come suo canto del cigno. È tutta la società che muore nelle spire artificiose del marketing globale. Le aree di pauperamento si estendono, con l’estensione virulenta dell’antagonismo culturale che occulta il conflitto reale: quello dei ricchi sempre più ricchi e dei poveri sempre più poveri. Ma questa verità, originaria e finale insieme - confermata da mille inchieste - è sottoposta alla rimozione quotidiana dello show business mediatico lanciato all’assalto delle masse per la conquista dei loro muti consensi.
Con la fine dell’uomo antico, nell’epoca della modernità compiuta, la regressione culturale del tardo capitalismo si manifesta apertamente nella eliminazione sistematica della fase “contemplativa” a tutto vantaggio di quella visiva o meglio “panottica” (Virilio). Questo processo di trasformazione planetaria passa attraverso le procedure di un vero e proprio “complotto disinformatico”. L’unico in grado di far avanzare negli spiriti separati e scissi la vuota sopravvivenza ammantata delle lusinghe di una falsa vita. Al carico terrificante delle alienazioni pubbliche e private si aggiunge il mercato dei corpi spezzati, immemori della loro unità originaria.
Il vuoto lasciato dal declino della politica costruttiva e dal crollo delle ideologie di cambiamento è stato riempito dal potere soverchiante, omologante dell’economia (un’economia, per la prima volta nella storia, impostata contro l’uomo). Nel residuo della produzione artistica così come nell’asservimento al lavoro produttivo, nell’impegno tecnologico che annulla l’impegno umano, lo spirito selvaggio del mercato capitalistico, nella sua fase estrema, aliena sia il tempo del lavoro che il tempo della vita. Nell’era che Paul Virilio definisce come quella del “TERATOCAPITALISMO” avanzato, l’economia di mercato corrisponde al processo di alienazione dell’uomo da ciò che fonda il suo essere al mondo: la libera espressione comunicativa. Da questa prospettiva non sorprendono le mille manifestazioni di quotidiana follia che riempiono le gazzette, semmai sorprende la capacità di resistenza al convergere massiccio delle forze negative.
A questo punto, nessuna reticenza nell’affermare che l’estrema risorsa sta nel demonizzare la follia del capitalismo maturo allo scopo di metterne a nudo tutta la distruttività. Con esso è il “terrore arcaico” che si protende minaccioso nella fine della modernità. Con esso quei “comportamenti preistorici, su cui la civiltà ha posto un veto, hanno condotto un’esistenza sotterranea, trasformandosi, sotto il marchio della bestialità, in comportamenti distruttivi” (Horkheimer-Adorno). È ciò che risalta esemplarmente dalla strage nel teatro Dubrovska di Mosca del 26 ottobre 2002. Al di fuori della politica, il pensiero si fa contorto: prima che arrivi il terrorista arriva lo Stato terrorista. E non per niente il tutto si “rappresenta” in un teatro, così come l’attentato dell’11 settembre si replicò sugli schermi televisivi, quasi un remake sadomasochista dei film catastrofisti hollywoodiani.
Nel progetto della nuova destra mondiale c’è l’imperiosa cancellazione di ogni forma di cultura progressista che parte dallo smantellamento del welfare fino alla riscrittura, in chiave di falso riformismo “controriformista”, di una lunga storia di rivendicazioni sociali e di lotte popolari. La “controcultura” del capitalismo è prima di tutto la messa in atto di un rovesciamento di tutti i valori acquisiti. Il progetto della multinazionale americana MONSANTO, destinato alla sterilizzazione geneticamente programmata dei semi, designato con il nome significativo di “TERMINATOR”. A conferma che è la cultura della “devastazione” che prevale su tutto. Come nella violenza scientifica della “Juliette” di Sade, il capitalismo “ha per credo la scienza”. Quella scienza che ha operato la riconversione dell’ispirazione divina in menzogna organizzata e manipolazione operazionale. Quella libertà scientifica dagli scrupoli e dai rimorsi, “che permette ai privilegiati, di fronte alla sofferenza altrui, di guardare con fermezza la minaccia che pesa su di loro” (Horkheimer-Adorno). Sadianamente nell’imperativo culturale tecnoscientifico del capitalismo maturo, “bontà e beneficienza diventano un peccato; dominio e oppressione una virtù”.
Esaurita la fase consumistica del pensiero critico, resta quella consumistico-distruttiva del puro e semplice vedere. Ma la visione si consuma appunto in un eccitamento di un nulla nel nulla. Vale ancora il grido appassionato del nostro leader politico carismatico che grida dai suoi schermi all’inebetito spettatore: “Consumare tutti! Consumare subito!”. È questa l’unica cultura di quello che, tanto generosamente quanto impropriamente, Jeremy Rifkin definisce “capitalismo culturale”. Consumare, consumare: è questa la cenere che ha preso il posto del fuoco vivo. Il gesto morto del consumo meccanico: fingere di offrire l’impossibile e togliere il realmente possibile. Al moto incessante del guadagnare, il ritmo instancabile del consumare, in un solo e medesimo atto. Produzione e consumo sono le mammelle del capitalismo moderno. Anche se nella dittatura del consumabile, talvolta, il denaro fonde come neve al sole (vedi Argentina e, probabilmente, Italia).
Come ben videro i critici della scuola di Francoforte: “Con l’espansione dell’economia mercantile borghese l’oscuro orizzonte del mito è rischiarato dal sole della ratio calcolante, ai cui gelidi raggi matura la messe della nuova barbarie”.
In sintesi, è la barbara parola d’ordine dell’“arma fumante”. Mentre ciò che nella violenza storica (bombe, carri armati, missili) è accettato e perdonato, o si contempla con rassegnata fatalità, tutto ciò che è fuori dalle regole del tradizionale teatro della crudeltà è rifiutato e condannato come inammissibile. Questo perché esiste una presa di coscienza ammessa dal potere funzionale ai suoi disegni (il pericolo che viene sempre dall’Altro, il possesso di armi di distruzione di massa, il muro di Sharon, il brigatista rosso o l’islamico della porta accanto).
Come scrive Zizek: “Introducendo un’ulteriore variazione al famoso detto di Hegel 'il Male è nello sguardo che percepisce il Male dappertutto', si potrebbe dire che l’intolleranza verso l’Altro è nello sguardo stesso che percepisce dappertutto intorno a sé Altri invadenti e intolleranti”. Pericoli che attentano alla nostra egemonia culturale ridotta ormai a oggetto-prodotto che si fa immagine di se stesso. Così come consumiamo immagini, sono anche immagini quelle che compriamo, sono sempre immagini quelle che temiamo. Finita l’era dell’oggetto necessario, si entra nell’era dell’immagine necessaria più ai nostri incubi che ai nostri sogni. È la conferma della spettacolarizzazione dei consumi che caratterizza la fase estrema del Capitalismo integrato. Il processo pseudoculturale del teratocapitalismo è eminentemente espropriante: si tratta di porre nel luogo dell’essenza umana, una illusione senza fine: il consumo dell’oggetto-merce come unico valore riconosciuto. Infatti l’opera della politica nell’era spettacolare è eminentemente antipolitica: la sconfessione di ogni valore umano in vista della sua totale scomparsa come autonomia pensante.
Immersi nel fondamentalismo tecnoscientifico e nelle degenerazioni della democrazia – che era il luogo della politica ed è diventata telerealtà e telecrazia – ci si prospetta un futuro senza “avvenire”, svuotato di “senso”, spogliato di umano, precluso alla verità. Infatti le menzogne delle oligarchie autoritarie stringono da vicino ogni essere particolare per meglio travasarlo in una forma astratta, le passive batterie della Matrix, espressione simbolica dell’alienazione mentale universale. Mentre le miserie della vita quotidiana vengono messe in scena in sociodrammi mediatici, la cui vera sostanza sfugge anche ai più avvertiti analisti del Libero Spirito, nel mondo incatenato alla sua propria menzogna, come ha scritto Nietzsche: “L’umanità stessa, a forza di impregnarsi di questa menzogna, è stata falsata e falsificata fin dentro ai suoi istinti più profondi, fino all’adorazione di valori opposti a quelli che garantivano lo sviluppo”. Mentre nel secolo scorso, tra la tecnica e gli uomini c’era ancora la mediazione della politica, nel presente essa ha completato il suo mutamento verso il superamento totale degli ingombranti ostacoli etici, politici e sociali, in direzione di una autonomia assoluta che tende a imporre nuovi destini, nuove organizzazioni, nuovi valori. Nella ridefinizione dei ruoli e dei comportamenti essa accentua la dipendenza dell’individuo dall’apparato tecnico e dal consumismo spettacolare imponendo insicurezza e precarietà, falso intrattenimento, riduzione mercantile degli istinti e dei sentimenti, gettati in pasto alle masse mediatiche ipnotizzate. Dalla novecentesca visione borghese di un Progresso spacciato per sviluppo qualitativo (i servizi igienici e la luce, l’auto e il frigorifero), siamo entrati nella faustiana ossessione di una Crescita marchiata dal segno assoluto del quantitativo.
Ma se sogno, rêverie e mito potevano sembrare gli ingredienti culturali tradizionali dell’universo borghese, così come attualmente esso si esprime nella pubblicità di mercato e nelle opere d’arte cinematografiche e figurative in genere, il materiale grezzo della sua esistenza quotidiana si è sistematicamente tradotto nel loro negativo mostruoso: il sogno che diventa incubo, la rêverie che tende al falso miraggio e il mito che si riduce a congerie di misere chimere, buone per tutte le età *.
Dopo la controcultura, la contronatura. Gli SNUFF MOVIES e la morte in diretta. Il serial killer come eroe metropolitano. La genetica che si fa arte a sé e l’arte che diventa transgenica. Senza pietà, la Kulturindustrie del Capitale lavora all’anestesia generale e totale, prima di precipitare nel gorgo della sua stessa rovina.
Si può dire che oggi ogni forma d’arte, fuoriuscita dai confini dell’aura, tenda al movimento frenetico della rappresentazione filmica manipolata dagli effetti speciali dell’industria dello spettacolo. Se il movimento della quieta arte dei secoli precedenti l’era della tecnica, era dall’uomo alla natura e viceversa, oggi – con la scomparsa della natura - il movimento assillante della rappresentazione artistica si è ridotta ad un corto circuito tra ciò che resta dell’uomo e i residui del suo inconscio terrorizzato. È la dimensione fredda ed infelice di un ultimo lembo di un grande sogno in forma di regressione psicologica. Il fanciullo è morto, e la sua bara, con tutti i sigilli ben chiusi, non riesce ad infilare il varco dell’eterno riposo. Il volto della felicità creativa ha cessato di apparire in trasparenza nelle opere d’arte da quando si è moltiplicato a perdita d’occhio nei media nell’ipocrita definizione dei “consigli per gli acquisti”.
In ciò si perpetua l’illusione di un’arte che ha finalmente invaso la vita e l’esistenza quotidiana del singolo; tutti artisti, tutti fruitori, tutti possessori. In realtà essa è semplicemente altrove, ben nascosta nelle pieghe (e nelle piaghe) del possesso privato. In essa e con essa, come in tutte le manifestazioni della sopravvivente cultura capitalistica, il sogno divino della creatività umana si è ridotto a puro scambio mercantile, rapace investimento finanziario. Ormai i capolavori dell’arte postmoderna si acquistano ad occhi chiusi ai grandi magazzini della Tv commerciale.
Milioni di euro per un Van Gogh, suicidato dalla società capitalistica, milioni di euro per un Andy Warhol che riproduceva se stesso nella catena di montaggio della sua factory. Naturalmente con la dovuta differenza estetica dal punto di vista “spettacolare” e con la rispettiva differenza di “valore di scambio”, misurato sul tempo di lavoro. Omologate le opere di entrambi a feticci di mercato, rimane il contrasto tra il sangue e il sudore che contrassegna le tele di Van Gogh e il fiuto affaristico che caratterizza la produzione “industriale” di Warhol. E se il calvario di Van Gogh riflette la tragedia di un passaggio storico preannunciante l’alienazione della seconda rivoluzione industriale (quella delle macchine) con la liquidazione della manualità artigianale, le “messe in scena” del “produttore” Warhol riflettono lo spirito proprio che pervade la pseudocultura capitalistica, spirito impregnato di nichilismo distruttivo. Come scrisse Pasolini a proposito di Warhol: “A tale modello non ci sono alternative: ma solo varianti. […] La rappresentazione del mondo esclude ogni possibile dialettica. È, al tempo stesso, violentemente aggressiva e disperatamente impotente”. In quanto all’artiere Warhol, è sufficiente una sua dichiarazione d’intenti: “La ragione per cui dipingo così, è perché voglio diventare una macchina”.
Fulgido esempio che l’arte da economia dei momenti appassionatamente vissuti si è fatta passione del calcolo ecumenico. Sogni e desideri lavorano per il marketing, mentre la vita quotidiana si polverizza in una serie di istanti intercambiabili, respingendo sempre più l’esistenza dell’uomo superfluo (Marx) nel baratro dell’alienazione originaria.
È l’arte TERMINALE, l’arte del FOTOFINISH, la diretta permanente del “voyerismo clinico”: “Dopo le “messe” in cui Hermann Nisch sacrificava degli animali in “un rituale sanguinolento e dissoluto”, l’esempio estremo dell’autodafé dell’artista contemporaneo resterà probabilmente quello di Rudolf Schwarzkogler, che morì in seguito alla castrazione che si sarebbe inflitto, durante una delle sue performance-azione che si svolgevano senza spettatori, a porte chiuse, fra l’artista e una video camera” (Virilio). È l’impostura dell’immediatezza live, quella stessa della guerra in diretta e dell’esecuzione capitale nel braccio della morte nei penitenziari del Texas, ove la protagonista assoluta è la telecamera puntata sui sussulti mortali del condannato alla sedia elettrica. Stessa empietà mortifera dell’arte pubblicitaria che opera maldestramente “la trasposizione dell’arte nella sfera del consumo […] migliorando la confezione delle merci” (Horkheimer-Adorno.)
Fuori da ogni armonia e simmetria, la replica dell’autodegrado dell’arte attuale non è che il riflesso della pratica capitalista in direzione della barbarie quotidiana, del saccheggio che la contamina e la condiziona. Il trionfo del senso del “disgusto” e del “disgustoso” (Perniola) è semplicemente la denuncia, da parte dell’arte attuale, di una liberazione impossibile e il suo asservimento al nichilismo negativo del mercantile che ha impoverito la vita reale. Ciò conferma la fine dell’arte come attività metafisica e la sua caduta negli ingorghi depressivi dell’abiezione mediatica. Passando attraverso l’espressione estrema di un compromesso “figurale” (Lyotard) che tenta di toccare con gli occhi ciò che ci è stato sottratto dall’esperienza vitale diretta (il calore dei corpi, la manipolazione delle sostanze), l’esito dell’arte attuale sfocia inevitabilmente nella sterile riproposizione standardizzata degli orrori derivanti dalla “profanazione delle forme e dei corpi nel corso del XX secolo” (Virilio), quella cupa devastazione formale alla Francis Bacon, con in sovrappiù i falsi orpelli dell’amusement mediatico che “ora vengono ripresi dall’alto e portati al livello dei tempi” (Horkheimer-Adorno). “In definitiva, a imitazione dei mass-media, che per far crescere l’indice di ascolto non veicolano quasi più nulla di vero se non l’oscenità o il terrore, il nichilismo contemporaneo rivela il dramma di un’estetica della scomparsa che non riguarda più solo il dominio della rappresentazione, ma l’insieme della nostra visione del mondo” (Virilio). “Ciò a cui stiamo assistendo oggi […] è la diretta mercificazione della nostra stessa esperienza: sul mercato acquistiamo sempre meno dei prodotti, degli oggetti materiali che desideriamo possedere, e sempre più esperienze di vita – di sesso, di cibo, di comunicazione, di consumo culturale, di partecipazione a un determinato stile di vita” (Zizek). Ma il fatto “politico” di fondo rimane l’ambigua polarità duale del cosiddetto “capitalismo culturale”, la “separazione assoluta tra la produzione di esperienze culturali in quanto tali e la sua parzialmente invisibile base materiale, tra lo Spettacolo e le sue segrete macchine di scena: lungi dallo scomparire, la produzione materiale è ancora qui, transfunzionalizzata nei macchinari che supportano la produzione di scena” (Zizek). È per questa ragione che non è più il sesso il luogo indecente e osceno della visibilità pubblicitaria, ma il lavoro manuale “in quanto opposto all’attività simbolica della produzione culturale” (Zizek). Ciò in quanto il lavoro manuale – e la sua estrema oscenità - rientra ancora nei procedimenti di mantenimento dell’ordine costituito e del condizionamento umano. Senza ricordare l’Arbeit macht frei dei campi di sterminio, rimane quanto mai valida la differenza tra lavoro libero naturale e lavoro forzato mercantile. Tanto che non vi sarebbe altra risposta alla pervasività del “negozio” che la rivalutazione creativa dell’ozio. Se la dissoluzione delle forze produttive tradizionali è un fatto ormai acquisito nell’epoca del teratocapitalismo avanzato, è forse giunta l’ora di farla finita in toto con il lavoro produttivo asservito, per la rivalutazione di una pratica operativa liberatoria e autonoma. Sarebbe tempo di interrompere, in un sol atto, la produzione capitalistica, con l’interruzione globale dei lavori che la sostengono e passare ad operare da liberi soggetti comunitari unicamente in difesa della salute fisica e mentale di ognuno.

Riferimenti bibliografici:
Max Horkheimer, Theodor Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966
Pietro Barcellona, L’egoismo maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri, Torino 1988
Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, 1997
Giorgio Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1966
Mario Perniola, Disgusti. Le nuove tendenze estetiche, Costa & Nolan, Genova-Milano 1998
Paul Virilio, La bomba informatica, Cortina, Milano, 2000
La strategia dell’inganno, Asterios Editore, Trieste 2000
La procedura silenzio, Asterios Editore, Trieste 2001
Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso, Mondadori, Milano 2001
Slavoj Zizek, Tredici volte Lenin, Feltrinelli, Milano 2003

*Di questi pseudo-valori insinuatisi nella coscienza comune passata e presente, ricordiamo il “sogno americano”, pubblicizzato senza mezzi termini come l’american dream, la rêverie insita nella dorata finzione hollywoodiana e il mito, tuttora valido, della “guerra buona” a stelle e strisce.

gennaio - aprile 2004