Il Territorio, un laboratorio per concrete utopie
di Ubaldo Ceccoli

“L’invenzione è il solo atto intellettuale vero, la sola azione d’intelligenza. Il resto? Copia, imbroglio, riproduzione, pigrizia, convenzione, sonno” (M. Serres).

Toyotismo e il controllo delle menti


La mondializzazione ci porta a misurare concetti, ragionamenti, proposte nell’orizzonte di un mondo che si è materialmente unificato sul piano economico e finanziario, poiché i flussi totali di merci, capitali, corpi, informazioni, conoscenze, simboli, comportamenti - da cui trae alimento il capitalismo contemporaneo - tendono a definire uno spazio comune d’esperienza che segna la vita quotidiana di un numero sempre crescente di donne e di uomini.
Con la mondializzazione l’impresa rompe gli argini geografici e i compromessi sociali territoriali, sgancia l’economia dalla sfera politica e dal governo nazionale, qualunque esso sia, dandosi propri strumenti di governo e di controllo. L’impresa si de-territorializza, viaggia alla ricerca del massimo di opportunità, senza vincoli e senza doveri, dando vita contemporaneamente a proprie istituzioni (FMI, BMI, Gatt, Nafta, Wto, Ocse), che segnano la natura e i caratteri dello stato immateriale delle transnazionali. La mondializzazione è un processo che unifica orizzontalmente, nella prospettiva di sfruttamento generalizzato, tutte le risorse umane, materiali e immateriali, in un mercato centralmente regolato e organizzato sulla base del dominio del “centro” sulle “periferie”.
Dal punto di vista economico la mondializzazione è considerata come l’insieme dei processi tesi a favorire il diffondersi di organizzazioni produttive (reti d’imprese, impresa a rete), che pianificano in Usa, producono a Taiwan, assemblano in Brasile o in altri posti che assicurino stabilità politica e forza-lavoro a basso costo. Ma anche processi che rendono possibile ideare, sviluppare, produrre, distribuire, consumare prodotti e servizi su scala mondiale, utilizzando strumenti come i brevetti, le banche dati, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Si delinea così quel profondo processo di ristrutturazione del modello di produzione capitalistico, che va sotto il nome di postfordismo o toyotismo. Questa fabbrica è il modello produttivo per sopravvivere in un’epoca di crescita lenta, di competizione estrema e di mercati instabili, dove il problema è realizzare una costante riduzione dei costi pur in presenza di volumi produttivi statici o decrescenti (Revelli), anche grazie alle innovazioni tecnologiche. Costretta a su-bire una domanda costantemente variabile, deve poter piegare il mercato del lavoro alle proprie esigenze produttive, usando una forza lavoro segmentata, gerarchizzata secondo livelli crescenti di fedeltà e discrezionalità.
Proprio perché divide, il postfordismo ha bisogno anche di un “ambiente” esterno, per cui, come si propone di creare il proprio mercato del lavoro, così deve plasmare il proprio sistema formativo ideale, che dia vita ad un comportamento diffuso centrato sulla flessibilità, fedeltà(1), docilità, disponibilità, dipendenza e nello stesso tempo creatività, con il fine sia di aumentare il ritmo produttivo sia di sfruttare più a fondo tutto il potenziale dei dipendenti.

Il ritorno indietro: dal mito alla realtà
Poiché nella mondializzazione siamo in un “reticolo di connessioni”, per cui ciascuna scelta non può essere isolata, si ritiene correntemente che anche il territorio debba trovare adeguata posizione nel gioco della competizione mondiale. Per tale ridispiegamento le imprese devono poter disporre di formazione, flessibilità, tecnologie, infrastrutture fisiche e informali, organizzazione del lavoro, ossia quell’ambiente idoneo favorevole per il loro sviluppo. Tuttavia non si tiene conto che il decentramento su scala mondiale della produzione comporta per il comando d’impresa che non vi sia un forte potere politico, ma uno “stato minimo” che diventa a tutti gli effetti un nodo locale dell’impresa a rete e partecipa a questo titolo al controllo sociale. Analogamente, anche il territorio diventa un nodo locale dell’Impresa. Così organi, poteri, ordinamenti di un dato territorio diventano “giardinieri” come lo diventano i parlamenti e i sistemi politici nazionali(2), che preparano il terreno per attirare i capitali sempre più mobili, incuranti della nazionalità degli azionisti, indifferenti alle sorti dell’economia nazionale(3).
Il territorio dunque, pensando di andare incontro alla modernità, rispondere alla complessità, aprirsi al futuro, è dentro il “pensiero unico”, nel meccanismo di produzione e distribuzione, una semplice parte nella scacchiera della competizione. In questa copia delle dinamiche dell’economia globale saranno risucchiate intere generazioni, occupate a pensare a null’altro che a trovare il prossimo lavoro precario mentre già vivono nella precarietà. La comunità territoriale, che così si configura, non è una sorta di autenticità e di purezza della società civile contro lo stato centralizzato, ma è un governo specifico locale di un dominio di classe totale, se non cambiano i termini del rapporto tra locale e globale. Non si costruisce un altro mondo dentro questo dominio.
Lo spazio è il luogo in cui prende corpo, nel suo polimorfismo, una determinata formazione sociale-storica. Se l’armatura intellettuale con cui si affrontano le problematiche nel territorio resta sotto il controllo del dogmatismo della mondializzazione, si pensa la problematica del territorio senza pensare questa problematica. Per questo occorre quello che possiamo chiamare, con Althusser, un “ritorno indietro”, il ritorno dal mito alla realtà, ossia, una riscoperta della storia reale che l’ideologia della mondializzazione rende irriconoscibile. Iinfatti, attraverso gli occhiali intellettuali ideologici non si vede il capitalismo in carne e ossa. In tal modo il “ritorno indietro” è una duplice scoperta: quella della realtà di cui l’ideologia parla ma deforma, e la scoperta di una realtà nuova che l’ideologia ignora.
Il territorio potrebbe così essere il luogo dove sia recuperata per intero la dimensione politica dell’economia, dove l’idea di un sapere vada oltre il contingente del mercato, per ricadere proficuamente sul territorio stesso. Tale capovolgimento apre alle infinite possibilità della creazione, dell’immaginazione, della conoscenza personale non riducibile alle necessità contingenti espresse dalle imprese sul territorio, se si sarà in grado di affrontare il problema dell’istruzione tenendo conto della lezione che ci viene dalla neurobiologia dello sviluppo, dove emerge che il cervello è un vero e proprio repertorio dei possibili. Occorre sostituire al territorio-fabbrica il territorio-società, ed alla cultura fattore di potenza, la cultura fattore di convivenza non competitiva: un’inversione necessaria, altrimenti alcuni territori potranno anche essere o diventare “regioni economiche” ma tutti saranno gigantesche borgate di pasoliniana memoria deprivate di senso, di storie, realizzazione da incubo di quell’impoverimento percettivo e di quell’azzeramento del corpo reale, stretto nella morsa della nefasta alleanza di economia, politica, tecnologia, visivamente espresso nei film di Cronenberg e Carpenter.
Di fronte alla globalizzazione, che non è altro se non il trionfo planetario dell’impresa, bisogna concepire e volere una società nella quale i valori economici cessino di essere centrali o unici, dove l’economia è rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Ripensare lo spazio reale e simbolico del territorio è nel costruirsi un mondo in cui essere insieme (inter-essere, nel senso di Arendt), e tale spazio non è quello della politica tradizionale né quella del privato-aziendale, dove alla fine manca la vita reale.

Formazione e competitività
Dal punto di vista della forza-lavoro e del mercato del lavoro, il capitalismo del duemila non è solo impresa a rete e mercato mondiale, ma anche sapere e scienza messe in produzione. Per l’economia della competizione, per quello che è stato chiamato “capitalismo cognitivo”(4), i sistemi formativi sono l’arma aggiuntiva per sancire e mantenere la gerarchia mondiale, per discriminare individui, classi, nazioni. Così i paesi a capitalismo maturo devono produrre essenzialmente conoscenza per esercitare comando, mentre quelli “periferici” devono restare in una cronica subordinazione considerati di volta in volta, zona di razzia di materie prime, di biodiversità, riserva di caccia per forza-lavoro poco onerosa, mercati da conquistare, sperimentazione di sistemi d’arma. Le “risorse umane” diventano il fattore primario del successo competitivo, in una visione diversa della formazione, in cui coesistono i seguenti aspetti:
1) il legare il sistema formativo alle esigenze del mondo produttivo;
2) l’integrare scuola e mercato del lavoro e a questo scopo occorre la separazione tra scuole d’eccellenza e formazione professionale;
3) il fare della formazione un settore d’investimento e di affari privati;
4) l’esercitare un controllo sociale da parte dell’impresa, che diventa luogo e soggetto della promozione, organizzazione, produzione, valorizzazione e diffusione della conoscenza che conta sul mercato.
L’Impresa-stato-partito, filosofo e pedagogo, diventa cosi il guardiano della “vera” conoscenza: o si conosce quello che serve all’impresa o si viene liquidati come chi non sa qualcosa di essenziale: flessibili nei corpi e nelle menti. Da qui le accuse di astrazione, di mancanza di senso pratico, di distacco dalla realtà produttiva rivolto a tutto il sistema pubblico dell’istruzione. E’ in quest’ambito che si ha la necessità di ridisegnare il rapporto tra scuola e territorio, poiché è lì che si trovano le nuove forme della produzione, della composizione sociale e dei valori.
Con il termine “territorio” s’intende di solito una dimensione spaziale, regione o zona geografica d’una certa estensione che comunque costituisce un’unità giurisdizionale, amministrativa (territorio di uno stato, di una regione, ecc.). Oggi però il territorio va visto come entità socioeconomica, luogo della ricchezza, luogo del produrre, luogo di reti: il “territorio come nuova fabbrica” (Bonomi). La stessa new economy, che sembra il massimo dell’immaterialità, ha invece nel territorio i meccanismi di nuove imprese, nuove forme di cultura, nuovi saperi. Si ha, in sintesi, un general intellect territoriale.
Agli insegnanti quindi non è più sufficiente sapere della famiglia del bambino che hanno nell’istituto, ma capire che le scuole si trovano all’interno di un tessuto aziendale, accettare di dover interagire e dialogare con gli attori dell’ambiente, cioè con le autonomie locali, con le parti sociali (rappresentanti d’interessi frammentati e sfaccettati), con le cosiddette “autonomie funzionali” (porti, aeroporti, camere di commercio, fondazioni bancarie, centro servizi, assicurazioni, ecc.).
La stessa scuola fa parte di questa rete e a sua volta produce reti, competenze, servizi ossia connessione tra saperi, in rapporto con tutti gli altri attori sociali. La scuola e l’università devono territorializzarsi, stare dentro una specifica “coalizione di territorio”, perché il Nord-est, ad esempio, ha bisogno di percorsi formativi diversi, di differenti competenze e curricola rispetto ad altri territori. Occorre quindi un’autonomia territoriale per accompagnare i processi di modernizzazione.
Se il territorio va visto come “nuova fabbrica”, credo che non si possa ignorare come oggi la fabbrica sia postfordista, perciò il territorio non è neutro ma calato nel contesto capitalistico globalizzato. Inoltre al di là che si tratti di “regioni economiche” (il Nord-est, i distretti industriali brasiliani, la regione indiana di Bangalore, la città di Hong Kong, quella di Singapore, ecc.), di “distretti industriali”, della “città dispersa a bassa intensità” (la Brianza e Milano, la città diffusa del Veneto; l’urbanizzazione continua lungo la riviera adriatica e le città costiere; la piana di Firenze, Prato e Pistoia; la piana di Nocera, ecc.), o del più piccolo comune, comunque si appiattisce la complessità del mondo della vita dentro la sola dimensione dell’economia(5).
Il territorio invece non è solo una struttura materiale, ma è anche società e tessuto di relazioni, ossia si ha l’interferenza reciproca tra la forma spaziale e le culture sociali. Un pensiero sociale nei territori deve agire sull’insieme delle condizioni di vita di tutti coloro che lo abitano, anche temporaneamente. Il governo del territorio, quale che sia la sua estensione e composizione sociale, ha davanti a sé la scelta se limitarsi a registrare il degrado subendo un approccio individualistico, con la creazione di rifugi individuali, oppure affrontare la qualità della vita nel suo complesso. Dobbiamo pensare che la socialità, oltre ad essere una questione distributiva, è fattore costitutivo di benessere, a partire dalla consapevolezza che non si vive di sola merce.
All’interno del territorio sono emersi differenti ambienti ed ecologie, differenti relazioni tra economia e società, fenomeni del decentramento produttivo, dell’economia sommersa, della formazione di nuovi distretti produttivi: una società formata da soggetti innumerevoli, connotata dall’eterogeneità dei comportamenti, delle forme e dei settori di occupazione entro lo stesso nucleo familiare.
Questo territorio è un’area geografica limitata ma caratterizzata da una fitta rete di relazioni sociali basate sulla cooperazione produttiva, da un intenso sviluppo urbano, da un’agglomerazione di piccole e medie imprese che dà luogo a “dense costellazioni di attività economiche”. Questa localizzazione produttiva e questa composizione sociale hanno bisogno di un sistema di regolamentazione economica di mercato: governo del lavoro locale, diffusione (ma anche innovazione) dei saperi produttivi accumulati attraverso le reti sociali, cultura dell’appartenenza a una comunità di produttori che rimuove, naturalizzando, le differenze di classe. E questo può accadere sia con l’attiva partecipazione delle organizzazioni sindacali, sia facendo leva sulla struttura parentale e sulla rigida gerarchia sociale.
Come lo stato-nazione in un’economia capitalistica globale è garante delle decisioni sopranazionali e tende a non rispettare le Carte costituzionali, ed è parte fondante di quella nuova gerarchia spaziale delle relazioni economiche e politiche neoliberiste, così il territorio non può essere la sede locale degli istituti della cittadinanza non più garantiti a livello nazionale come vorrebbe la tematica del “welfare community” contrapposto al “welfare state”. Da un lato questo tipo di territorio può consentire la tenuta e l’innovazione in alcune regioni economiche, ma dall’altro funziona anche come antidoto a una realtà che si presenta come una a-sociale ed a-conflittuale comunità dei produttori. La produzione di merci e la cooperazione produttiva non parlano più la lingua del conflitto di classe, ma quella di una contrapposizione per garantirsi i flussi di capitali.

L’individuo universale
Se abbiamo dunque un’economia capitalistica che produce merci sempre nuove capaci d’indurre bisogni, tuttavia questo processo non dà luogo a miglioramenti nelle condizioni di vita. Benché si esalti a parole la libera identità multidimensionale individuale, per la “civiltà” dell’Impresa essere realisti significa ritagliare il proprio volere o desiderio solo sul progetto d’impresa. Nella spazialità universale e amorfa della globalizzazione la particolarità del singolo viene immediatamente innalzata all’universale nella figura del consumatore, ossia nel suo rapporto con la merce. Quando l’immaginario del mercato domina la nozione di cittadinanza, questa, alla fine, viene letta solo attraverso la lente del “potere d’acquisto”. Al primato della produzione e dei rapporti sociali di produzione, si sostituisce l’immagine del primato del consumo, e sul piano politico la dimensione progettuale della società cede il posto alla passività del consumo, tramite l’incorporazione dei desideri nel motore perpetuo della produzione crescente di oggetti (Barcellona).
Se l’individuo postfordista accede all’universale nella figura del consumatore di merci, non riesce ad autorappresentarsi se non in una forma d’interazione diretta dell’universale nel particolare (il globale nel territorio). Se si guarda al territorio con i soli occhi tesaurizzatori della globalizzazione, lo si considera esclusivamente come la carta vincente per sostenere la sfida della competizione, è in questa spazialità che l’individuo accede all’universale della globalizzazione (il locale nel globale).
Con il passaggio da un’economia di mercato ad una società di mercato, il comando diretto dell’economia su tutta la sfera della vita si concretizza a livello territoriale. E’ per questo che le comunità locali non riescono ad essere dighe sufficienti alla inondazione dell’inedita ferocia dei meccanismi di dominio odierni, di inclusione ed esclusione. Le identità locali, nella pretesa di collocarsi in rapporto immediato all’universale restano proprio per questo incapaci di quella mediazione decisiva che è la creazione di diversi significati sociali ed economici strutturanti l’esistenza degli abitanti del territorio. Ciò che in tal modo aumenta non è tanto il divario economico degli esclusi quanto la loro estromissione dal piano del potere culturale, politico, economico. Il rapporto tra particolare e universale è quindi ancora una volta una funzione speculare.

La qualità del territorio, della scuola, della democrazia
Perché il territorio dovrebbe accettare i livelli di degrado umano, ambientale e culturale che le politiche neo-liberiste hanno già prodotto negli strati più poveri della popolazione americana? Vorrei perciò suggerire alcuni appunti e ipotesi. Modificare una grande o piccola città, non vuol dire solo mettere in crisi una struttura di potere, ma richiede una politica coerente che chiarisca a quale tipo di società s’intende pervenire. Se il programma è per sua natura parziale e limitato in rapporto con le risorse e gli obiettivi particolari perseguiti, il progetto deve dire parole chiare sul “senso” dell’attività di governo locale, sul tipo di civiltà che si vuol progressivamente promuovere.
Sulla base di posizioni diversamente ispirate dalla mondializzazione e da un sostanziale determinismo non si è potuto costruire un rapporto immaginativo tra territorio, economia, società e urbanistica. La società, la città ed il territorio sono profondamente cambiati è vero, ma vi è stata la resa dichiarata di fronte alla mera crescita quantitativa, di fronte alla cultura nemica del progetto, urbano o territoriale che sia, perché lo considera un impedimento alla libertà personale d’intraprendere, un ostacolo alle opportunità da cogliere. Le novità prefigurano un fenomeno più generale in quanto sembra prevalere sia una dipendenza dalle forme di aggregazione di potere degli agglomerati sociali, sia una forma di chiusura di ogni capacità critica nei confronti dell’esperienza.
Di fronte alla difficile situazione economica, ambientale, culturale che percorre l’Italia, ora sulla base degli studi sull’articolazione spaziale della società e dell’economia italiana ed europea, per governare il territorio si ha il dovere di porre termine alle giaculatorie sulla fine del piano, d’interrompere una modalità che ha giustificato il contingente in ogni sua forma, di porre piani e progetti come ipotesi di un futuro costruito diversamente dal presente, modificando così il qui ed ora. Si tratta di rimettere in discussione il territorio.
Va così sostituita all’idea del possesso privato del territorio, quella della ricerca di nuove forme del fare, segnate dal congedo dalla retorica della globalizzazione. Il territorio non può assistere ad una sorta di partecipazione indifferente agli eventi sociali, ma deve prestare attenzione al contesto e ai processi di accumulazione, per un ritorno ad una reinterpretazione del progetto moderno di liberazione come progetto ancora incompiuto.
Il secondo punto su cui cui avviare il confronto relativo al bilancio partecipato (nuova democrazia locale), è il diritto alla conoscenza per tutti/e, nella convinzione dei nessi inscindibili tra sapere, democrazia e cittadinanza, tanto più se la società contemporanea richiede livelli sempre più alti e diffusi di cultura, per una crescita individuale e collettiva.
L’università, e più in generale la scuola nel nostro paese, soffrono di una gravissima delegittimazione: il loro posto nella società è interpretato dai più in termini totalmente strumentali, con letture ravvicinate del mercato del lavoro. L’Italia, come è noto, è un paese con un numero di laureati per abitante inferiore a quello dei paesi europei più avanzati(6). Il numero degli abbandoni è altissimo, l’analfabetismo ha ripreso a crescere soprattutto nelle aree più ricche, la tenaglia tra reddito e livello di istruzione dei genitori mostra che l’intero sistema educativo continua ad operare secondo il principio di selezione, architrave della “Carta della scuola” Bottai. Si deve pertanto riprogettare un sistema educativo cambiando in profondità il suo operare, per dare forma concreta alla scuola come risorsa della democrazia. Per questo i servizi educativi, le materne, le scuole professionali, il sostegno al diritto allo studio da parte dell’Ente locale, devono operare verso la distribuzione non solo del reddito, ma della conoscenza. Si tratta di una politica locale che aiuti le famiglie contro l’insuccesso scolastico, che metta in contatto adulti e studenti con il polimorfismo del mondo, per capire e accettare che la “nostra” storia non è tutta la storia del mondo.
Per contrastare il capitalismo cognitivo, è necessario l’avvio di una radicale ridistribuzione non solo dei redditi, ma anche delle conoscenze. Tale connessione fra distribuzione dei saperi e del reddito, comporta inoltre un’attenzione strategica all’organizzare una “seconda opportunità” per i circa 100.000 alunni/e sotto i quindici anni che ora evadono l’obbligo scolastico, e per tutti gli “studenti perduti” nei vari percorsi scolastici. Questa è la vera nuova scuola che non è la scuola della selezione né dell’impresa, né delle élites dell’iperborghesia, che non è la scuola della desertificazione culturale, della competizione, in ultima analisi la scuola della guerra. Non è una grande eresia chiedere una società della conoscenza per tutti/e, rifiutando una scuola generica, poco esigente e pur selettiva socialmente, e puntando invece ad una connessione organica tra sviluppo personale ed evoluzione socio-politica.
Per questo sul territorio serve cultura, cultura e ancora cultura e… meno capitalismo!

1) Si può considerare una variante del patriottismo richiesto dallo stato-nazione.
2) E’ questa implosione del sistema politico a segnare la crisi che attraversa la democrazia nell’occidente capitalistico.
3) Cfr. Reich (Segretary of Labor nella prima amministrazione Clinton), L’economia delle nazioni, ed Sole-24 Ore, 1994.
4) L. Cillario, L’economia degli spettri, Manifestolibri, 1996.
5) M. Alcaro, Economia totale e mondo della vita – Il liberismo nell’era della biopolitica, manifestolibri, 2003.
6) Il rapporto Ocse (Education at a glance, 2002) sul conseguimento scolastico mostra che, a fronte di una media Ocse del 26% della popolazione in età compresa tra i 25 e 64 anni con titolo universitario o parauniversitario, l’Italia registra il 12%.

gennaio - aprile 2004