Prima che il Sessantotto non diventasse soltanto una festa per strada e nemmeno un tè alle cinque in un appartamento nei pressi della Sorbona e Parigi non era piovosa come una provincia del Belgio ma piena di luci e di meraviglie come i quadri di Giuseppe De Nittis, uno studente del liceo classico mi disse che non avrebbe parlato più di niente con me, perché non avevo letto tutti i libri che invece aveva letto lui.
A quattordici anni o a quindici anni gli amici ci prendono, e ci lasciano come una cupa malattia, inaspettatamente, senza una spiegazione. Con il tempo poi si vedrà se saranno l’allegria e il divertimento, o il dolore, che ci accompagneranno fino ai ricordi. A quattordici anni e a quindici anni si scambiano le parole con i sogni, come il maestro di Bulgakov si scrivono poesie sulle pareti della nostra stanza e si scambia l’Adriatico con Parigi, ma in fondo è la stessa cosa.
A quattordici anni o a quindici anni forse non è la stessa cosa se si sceglie un libro al posto di un altro, se si decide di continuare o lasciare a metà un libro di Malcom X o di Angela Davis e prendere invece un libro di Henry Miller o di Françoise Sagan. Forse vi è qualcosa nel sangue o tra i ripiani degli scaffali della libreria di casa che fa leggere un libro al posto di un altro. O addirittura fa leggere i libri degli stessi scrittori o sempre gli stessi libri. Forse dipende da come si guarda il cielo la mattina o da come si spia di sera la luna tra le nuvole di ottobre metà rosse metà bianche, smosse dallo scirocco. Forse dipende da dove si abita, in un appartamento in una strada stretta vicino al mare con le barche dei pescatori rovesciate sui marciapiedi oppure su uno stradone con magazzini e negozi illuminati da insegne al neon.
In una stanza di quell’appartamento, io aspettavo il tramonto a quindici anni con una mela in una mano e un libro nell’altra. Mi piaceva guardare Corinne, la fioraia che davanti al suo negozio sfrondava i gambi delle gerbere dalle foglie spesse e lanuginose oppure accorciava gli steli delle rose con una piccola cesoia annerita dalla ruggine che maneggiava con abile disinvoltura e riponeva ogni due secondi nella tasca di destra di un grembiule di tela verde. Se non era occupata dalla vendita dei suoi fiori gialli, era con un annaffiatoio di zinco tra le mani con il quale spargeva acqua ovunque, così che si sentiva perennemente quel profumo intenso di fiori freschi bagnati d’acqua.
Il giallo era il colore che preferiva, per cui era facile che nel negozio non si trovassero mai fiori di un altro colore a parte i settembrini e qualche pianta di stagione: - “Il sole e l’oro sono gialli. La luna e il delitto sono gialli. E’ il colore delle spezie profumate ed è il colore delle foglie nel momento in cui il vento le stacca dai rami. E’ il corpo della fiamma che spezza la tenebra. Il giallo è il colore della carta dei libri invecchiati. E’ il colore della memoria.”, diceva con un’aria di distacco a chi riusciva a notarlo, come a dire che considerava il suo molto di più di un modesto commercio, ma qualcosa più vicino alla poesia.
Il negozio di Corinne si trovava dall’altra parte della strada, più avanti poi c’era il mare. Dalla mia finestra vedevo anch’io il mare.
Divagavo, come faccio ancora adesso, immaginando che oltre l’orizzonte ci fossero le vie di Parigi, le donne di Toulouse-Lautrec sedute ai tavolini dei caffè mentre sorseggiano un bicchierino di liquore, riuscivo persino a sentire il chiacchiericcio dei giovani giornalisti di Maupassant o le spiate degli avventurieri dei libri di Joseph Roth. Questi erano i libri che leggevo allora e per la verità è ciò che leggo ancora.
Nei cartoni che sono rimasti ancora in giro in casa mia dopo l’ultimo trasloco non vi sono molti oggetti, né tanto meno molti libri. Naturalmente leggo quasi tutto il giorno adesso, ma sono sempre gli stessi libri. Le pagine di molti di essi sono piene di sottolineature e tutt’intorno negli spazi bianchi con la matita nel tempo vi ho riportato delle annotazioni marginali e insignificanti, ma erano pensieri oppure soltanto parole che non avrei voluto dimenticare.
Capitava spesso di annotare un punto un po’ più lungo di uno o due righi oppure un’intera pagina e in quel caso ricorrevo all’uso dei segnalibri. Ne possedevo ormai tanti, una lunga serie di ogni misura e formato, colorati, quelli della Fila con le immagini delle maschere di carnevale o con le riproduzioni di quadri noti o soltanto di particolari di alcuni di essi. Talvolta riportavano i ritratti in bianco e nero di scrittori o di famose attrici del passato, oppure rappresentavano comune propaganda pubblicitaria delle case editrici.
Li trattavo con la stessa cura dei libri che li custodivano. All’inizio della lettura li estraevo dal libro tenendoli in mano con la necessaria attenzione per non sgualcirli o causare pieghe o abrasioni, poi li riponevo tra le ultime pagine dopo aver dato uno sguardo per il piacere di vederli.
Al termine riprendevo quel minuscolo elemento e lo apponevo davanti all’ultima pagina letta per lasciarvi il segno. Così mi pareva di aver assicurato al libro e al segnalibro la migliore sistemazione e protezione.
Dato l’ormai consueto fervore con cui ciò avveniva, cominciai a supporre che in realtà tra me e quei due oggetti si stavano sviluppando un nesso compatto, un’unità inscindibile, dove i fantasmi del libro si congiungevano ai fantasmi dei segnalibri e la loro familiarità arrivava ad essermi così naturale da prenderli come i miei fantasmi, i miei spettri e i miei sogni. Era però soprattutto sui libri che ritornavo con la stessa attrazione o, se si può dire, con lo stesso desiderio incalzante di ritrovare delle persone che si conoscono già e che si sono amate o si sono perdute. Ritrovarle per rimanere tutto il tempo possibile con loro, sentirle parlare, riascoltare la loro voce e le loro parole in quegli stessi luoghi, con lo stesso arredamento e gli stessi soprammobili delle abitazioni dove le abbiamo lasciate l’ultima volta. I quadri sulle pareti, la cenere delle sigarette indurita nel fondo delle tazzine, la porta del salotto lasciata aperta e il profumo del caffè nell’aria. Qualche volta mi capitava di sentire dei passi nella stanza accanto: - “Chi è? Sei tu Corinne? Sei tu Micol?”
No, non era possibile! Eppure io avevo sentito dei passi. Forse anche respirare. In definitiva, non provavo alcun desiderio di leggere qualcos’altro che non fosse un libro già letto. Trovavo invece una grande felicità nel rileggere le stesse storie che conoscevo già. E le rileggevo, allo stesso modo di come si ascolta un brano musicale e si ritorna per una, poi un’altra volta, anche dieci volte di seguito, una volta dopo l’altra, a riascoltarlo perché la melodia di quel brano non è più una successione di suoni, ma il richiamo profondo, arcaico, di un soffio che attraversa due lamelle ed emette una vibrazione capace di diventare voce, inventare una storia e creare un racconto.
Quando la sera Corinne chiudeva il suo negozio e il tramestio dei cardini annunciava che stava per andarsene, lasciavo la mia stanza e correvo per andarla a salutare.
- “Buona sera Corinne. Com’è andata oggi la vendita dei tuoi fiori gialli?
- Bene. Non mi posso lamentare. Ho venduto tutti i tulipani e di rose ne sono rimaste forse una dozzina. Tu come al solito stavi sul davanzale della tua camera? Che cosa stai leggendo?
- E’ un romanzo di Milena Milani.”
Abitualmente ci lasciavamo così, senza dirci nient’altro, con una specie di invaghimento da parte mia, di desiderio impellente per una fioraia dalle mani piccole e brune, segnate da minuscole ferite inferte dalle asperità dei rami o dalle spine delle rose.
Nella quieta e rilassante stabilità del suo volto bianco come una statua, gli occhi di colore scuro come il nero delle olive si muovevano all’incontrario con sorprendente rapidità. E ciò mi provocava un certo rammarico perché pensavo che nella sua testa un mondo diverso dal suo negozio di fiori, sconosciuto e misterioso, si stava muovendo più velocemente delle nostre parole. Per prendere non so che cosa, affondava le mani nella grande borsa di cuoio che per il peso e il disordine aveva appoggiato per terra, senza riuscire a trovarvi niente.
Abbassandosi, dalla piccola scollatura del suo vestito scorgevo un lievissimo rigonfiamento coperto da un tessuto bianco. In quel frangente sentivo sopraggiungere una voglia urgente, immediata, di accarezzarla, toccarla, lei invece, continuava inutilmente a rovistare nella borsa, girava gli occhi da una parte e dall’altra. All’improvviso perdeva la consueta grazia e cortesia con cui si muoveva o parlava. Sembrava distratta e lontana – “Mi aspettano. Scusami, ma devo lasciarti. Accidenti a me, non trovo le chiavi di casa e prima di uscire volevo cambiarmi. Ciao. Ciao. Scusami, ma devo proprio andarmene. A domani, ciao.”
E andava via, come se venisse tirata da una mano invisibile, trascinata nella spirale del volo di una foglia secca, apparentemente senza una direzione, trasformandosi in un’immagine sbiadita, un suono irritante e fastidioso. Inutilmente cercavo di darmi spiegazioni del suo comportamento, ma a quel punto non vi era niente di più rassicurante e confortante che ritornare a casa, sdraiarmi sul letto e riprendere a leggere.
- “Ma si, domani Corinne riaprirà il suo negozio e sarà con me come al solito bella e gentile. Stasera aveva un appuntamento e doveva andarsene subito.” Dalla finestra vedevo il cielo riempirsi di nuvole: - “Forse fra un po’ pioverà. In fondo è meglio così, rimango a casa a leggere.”
Fuori si sentivano le voci di alcune persone che parlavano. Non sentivo bene che cosa si dicevano. Uno di loro alzava la voce più degli altri. Riconoscevo la voce, era quella di un ragazzo che abitava a pochi passi da casa mia: - “Volete capire che non è un gioco? Non è musica o letteratura. Non è filosofia. Non è nemmeno sociologia. Io ho letto molti libri più di voi e per questo vi dico che non è più un gioco.”
Cominciava a piovere, per evitare che la pioggia entrasse nella stanza chiudevo la finestra e rimanevo a guardare le gocce di pioggia che battevano sui vetri sovrapponendosi una sull’altra freneticamente senza tregua. Poi per la pioggia e l’oscurità non si riusciva a intravedere la strada che in pochi minuti si era allagata e da dove erano sparite tutte le voci.