1. Il “Forum dei diritti”
In continuità con la straordinaria mobilitazione delle giornate genovesi del luglio 2001, a Bari nasce il Forum dei diritti.
Per rivendicare i nostri diritti fondamentali contro tutte le politiche di esclusione, inferiorizzazione e invisibilità messe in atto dai governi locali e globali, svolgiamo un lavoro di rete tra le associazioni, i migranti, i lavoratori precari e atipici e tutti coloro che vivono una condizione di subalternità.
A partire dalla nostra condizione di precarietà forzata, di mobilità indotta e di incerta cittadinanza, i diritti che vogliamo affermare per vivere la nostra esistenza in autonomia, sono da un lato diritti non inclusi nel tradizionale statuto dei lavoratori, dall’altro sono diritti che eccedono i parametri della cittadinanza nazionale.
Per allargare la sfera del diritto, almeno per quella parte del movimento che si riconosce nelle pratiche della disobbedienza sociale, si tratta di dar avvio ad un nuovo ciclo di lotte che permetta, tanto di separare i diritti di cittadinanza dal loro radicamento nel quadro giuridico dello stato nazionale, per decretare la fine della categoria di clandestinità, quanto di sganciare il reddito dalla prestazione lavorativa, dal momento che in epoca postfordista il tempo di produzione eccede il tempo di lavoro fino a sovrapporsi e a coincidere del tutto con il tempo di vita. Si può sostenere, con buone ragioni, tanto che non si smette mai di lavorare, quanto che si lavora sempre meno. Ciascuno di noi sa, da parecchio tempo ormai, di essere dentro una trasformazione del modo di vivere, di lavorare, di essere sfruttati e conseguenzialmente di lottare.
I nuovi diritti che vogliamo affermare sono un diritto al reddito e un diritto di cittadinanza transnazionale. Già radicali di per sé in quanto proposte politiche distinte, la loro combinazione come reddito di cittadinanza globale potrebbe innescare una reazione esplosiva. Se per tutta una modernità, la produttività del lavoro è stata il fondamento del diritto al reddito e del diritto di cittadinanza nazionale, la nostra visione di un reddito di cittadinanza globale, nella misura in cui verifica il logoramento di tale assiomatica e del suo corollario classico, cioè la distinzione tra lavoro e non lavoro, pone a livello dell’attuale contesto biopolitico il problema della differenza tra vita retribuita e vita non retribuita.
La validità strategica della prospettiva di un reddito di cittadinanza globale deve necessariamente essere messa alla prova a partire da lotte locali.
Nello specifico di Bari ci siamo schierati al fianco della comunità rom rumena che da anni sta conducendo una lotta per ottenere uno spazio dove poter vivere ma che ha ottenuto come unica risposta istituzionale le ruspe e gli sgomberi. Per trovare soluzioni a questo problema abbiamo svolto un lavoro di cerniera tra i rom e le istituzioni dando avvio ad un tavolo tecnico congiunto fra comune, provincia, rom e forum per identificare un’area adatta su cui costruire un campo. Il problema che è immediatamente sorto è che per istituire un campo, le autorità comunali hanno bisogno di una legge regionale che gli consenta di operare in questa direzione. Non esistendo una legge regionale di questo tipo, il forum ha prodotto questa legge che è tuttora ferma in commissione, in attesa di essere discussa.
2. Lottare per la chiusura dei Centri di Permanenza Temporanea
La legge Bossi-Fini che ha trasformato il problema politico del governo dell’immigrazione in una guerra permanente contro tutti i migranti, ha trovato in Puglia la sua area geografica di sperimentazione.
In realtà la Puglia per tutti gli anni ’90 è stata il laboratorio in cui si è sperimentato lo stato di eccezione come paradigma di governo. Nell’estate del 1991, la reclusione degli albanesi nello stadio di Bari ha anche costituito il modello su cui pochi anni dopo si sarebbero istituiti i cpt in Europa. In Puglia il processo di trasformazione dei luoghi della cosiddetta accoglienza in centri di detenzione, d’identificazione e di espulsione è un fenomeno che abbiamo osservato da vicino.
I campi per migranti portano con sé l’eredità di orrori passati e la promessa di nuove sofferenze, è per questo che vogliamo che i centri di detenzione siano definitivamente chiusi.
Ma come si fa a chiudere un cpt? Qual è la tattica e la strategia opportuna per raggiungere quest’obiettivo? Visite, come quella effettuata da psichiatria democratica e dai parlamentari delle forze di opposizione, nel centro di Restinco a Brindisi, si sono ripetute costantemente negli ultimi anni e sono risultate preziose per rendere pubblico ciò che si vuole celato. Ma a quanto pare anche questa forma di monitoraggio sta per subire una battuta d’arresto: i prefetti, infatti, su indicazione del ministro degli interni, restringeranno i permessi di visita alle delegazioni parlamentari nei centri.
Quale sarà la nostra risposta? Ma principalmente mi domando: questa forma di monitoraggio che è risultata essere un momento importante sul piano tattico, può esaurire i nostri piani strategici? È su questo rompicapo della strategia, nel senso che “la strategia è sempre un problema e una domanda, piuttosto che una semplice soluzione e una semplice risposta”, che può ritornare utile il “saper fare” del movimento della psichiatria antiistituzionale.
Per noi che nel qui e ora del nostro presente non sappiamo come fare, la storia di questo movimento può diventare la nostra “cassetta degli attrezzi” da cui attingere un sapere critico-pratico da poter utilizzare nelle lotte e nelle battaglie che andremo a intraprendere. Non ci sono vie brevi, però dal nostro recente passato possono provenire utili indicazioni che comunque vanno riverificate e messe al confronto col presente.
La domanda che bisogna porsi è allora la seguente: c’è un soggetto della vita sociale che stigmatizzato come pericoloso per natura, possa indurre la gente a ritenere che, almeno in questo caso, sia non soltanto possibile, ma persino giusto e necessario sospendere le garanzie di diritto? Certo che esiste, esiste da almeno due secoli, e ve n’è più di uno. Oggi la principale figura dell’incarnazione sociale del pericolo è l’immigrato. E questa identificazione lo pone al primo posto nella schiera dei cosiddetti “anormali”.
Il movimento antiistituzionale nel suo lungo percorso di distruzione dell’ospedale psichiatrico, è anche riuscito a modificare radicalmente l’immagine sociale della malattia mentale, cioè è riuscito in quella difficile operazione di spostamento delle soglie di tolleranza dell’opinione pubblica nei confronti della malattia mentale e della devianza in generale. Anche noi dovremmo riuscire a trasformare la percezione sociale dell’immigrato neutralizzando la perversa equazione immigrato = pericolo.
La società di oggi è martellata quotidianamente da retoriche securitarie che ripetono incessantemente: potete vedere voi stessi che cosa sono gli immigrati, esseri incorreggibili e pericolosi, l’immigrato è stupratore, drogato, oppure prostituta, ma anche terrorista e criminale, l’unica cosa da fare è lasciarlo fuori dai confini dello stato nazionale, oppure se tenta di attraversare illegalmente i nostri confini va rinchiuso in un cpt e poi espulso. Si tratta di un problema di immaginario.
Vorrei adesso farvi una breve cronistoria di ciò che è accaduto a Bari nei mesi di giugno e di luglio di quest’anno. In seguito ai numerosi sbarchi, avvenuti in Sicilia all’inizio dell’estate, l’aeroporto militare di Bari Palese è tornato a funzionare come centro d’identificazione per i richiedenti asilo. Per avviare le pratiche per ottenere le richieste d’asilo, entravano i volontari del gruppo lavoro rifugiati, compagni che sono stati nell’esperienza del forum, sin dall’inizio. Sono stati loro che hanno cominciato a denunciare la sommarietà e la velocità con cui venivano liquidate le domande dei richidenti asilo, la maggior parte dei migranti veniva espulsa, perciò si è deciso di bloccare le espulsioni. Abbiamo organizzato una rete che veniva attivata ogni qualvolta avveniva un’espulsione, il segnale ovviamente veniva lanciato da colui che si trovava all’interno del campo. Appena partiva il segnale chi della nostra rete era disponibile si precipitava all’ingresso dell’aeroporto, avvisando la stampa, per organizzare il blocco. È chiaro che l’effetto delle nostre azioni produceva solo un ritardo di tali deportazioni, tuttavia ogni volta che abbiamo praticato questi blocchi abbiamo sempre cercato di amplificare al massimo le nostre azioni. Alla fine di luglio molte reti sociali europee che in questi ultimi anni si sono attivate per contrastare le politiche razziste si sono date appuntamento nel campeggio di Frassanito nella provincia di Lecce per confrontarsi. Quello di Frassanito è stato il primo tentativo di sperimentare in Italia la formula no border. Con quest’espressione s’intende sviluppare un sapere critico-pratico sul confine nelle sue forme più ampie. Non entro nello specifico. Tuttavia mi preme sottolineare che la rete locale che ha agito contro i rimpatri si è consolidata e allargata. Inoltre giocando sulla sorpresa che il campeggio era terminato, abbiamo organizzato un’azione di disobbedienza all’aeroporto di Bari Palese che da allora non sta più funzionando come centro d’identificazione per i richiedenti asilo. Adesso a Bari stanno costruendo un cpt nel quartiere San Paolo, la consegna dovrà avvenire tra un anno. È chiaro che per noi questo lager non deve essere costruito.
I centri di permanenza sono stati istituiti dalla legge 40 del 1998, l’istituto giuridico che li regge si chiama detenzione amministrativa o più precisamente “provvedimento temporaneo di. detenzione amministrativa per ragioni di ordine pubblico”. I cpt nascono, cioè, non dal diritto ordinario e neanche, come sarebbe naturale credere, da una trasformazione e uno sviluppo del diritto carcerario. Il paradosso consiste in questo: individui che non hanno commesso reato, vengono rinchiusi e privati della loro libertà. Le istituzioni totali classiche, cioè quelle della società disciplinare, garantivano almeno i diritti di cittadinanza. Per il movimento antiistituzionale degli anni 60 e 70, il problema era infatti fare delle lotte che abolissero le differenze tra malati di serie a e malati di serie b. Nell’Italia degli anni 50 e 60 esistevano due psichiatrie: quella delle cliniche universitarie che curavano i casi degni d’interesse scientifico, e quella dei manicomi dove s’internavano i cattivi malati che turbavano l’ordine pubblico. Per Basaglia ciò voleva dire che uno schizofrenico abbiente, ricoverato in una clinica universitaria, riceveva una prognosi, diversa da quello dello schizofrenico povero ricoverato tramite ordinanza in manicomio che è come dire: che i ricchi non sono pazzi almeno dal punto di vista giuridico, mentre i poveri sono i veri pazzi. La malattia mentale veniva ad assumere un significato concretamente diverso a secondo del livello sociale di chi era malato. Questa differenza di classe tra i malati, Basaglia la riconnetteva a livello più generale anche alla differenza tra cittadini. Tuttavia ciò si svolgeva ancora nell’ambito della cittadinanza. L’immigrato di oggi, invece, è fuori dalla cittadinanza e non è neanche tutelato dai diritti umani, in quanto è chiaro che solo i diritti di cittadinanza rendono effettivi i diritti umani.
Nei confronti dei cpt si tratta di capire se ci troviamo di fronte a una nuova istituzione. Rocco Canosa, nel report che ha scritto dopo la visita al cpt di restinco a Brindisi, ha detto che il cpt è un ibrido in cui si sommano in maniera inquietante aspetti detentivi della vita carceraria e manicomiale. Il cpt, insomma, sembra essere qualcosa di meno e qualcosa di più di un’istituzione totale classica di tipo disciplinare. Foucault e Basaglia nella loro genealogia della psichiatria, si soffermano a lungo sulla nascita dell’ospedale psichiatrico. Tuke e Pinel, dirigono rispettivamente il ritiro di York e La Salpêtriere alla fine del XVIII secolo. Ora, la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX vedono il passaggio dal capitalismo mercantilistico al capitalismo industriale. La prima esigenza di questa nuova forma di capitalismo è la costruzione del celebre esercito di riserva di cui parlava Marx . Per tenere bassi i salari, per neutralizzare le rivendicazioni salariali, i datori di lavoro debbono poter disporre di una massa di disoccupati in cui reclutare un certo numero di operai, quando ce n’è bisogno, e a cui rinviare gli operai licenziati, quando il bisogno è cessato. È per questo motivo che le case d’internamento dell’età classica, che erano delle grandi macchine di assorbimento della disoccupazione, non sono più utili. A partire da questo momento, e in funzione delle nuove esigenze della società capitalistica industriale, al personaggio del folle viene attribuito lo statuto di malato mentale, cioè di individuo che deve essere guarito per essere nuovamente immesso nel circuito del lavoro ordinario e parallelamente della riproduzione sociale. È chiaro che nella creazione dei cpt non c’è nessuna finalità riabilitativa o disciplinare legata alla sfera del lavoro. L’immigrato non deve essere ammaestrato per entrare in produzione, ma soltanto segregato ed espulso. A me sembra che il cpt è più assimilabile alla logica promiscua del “grande internamento”, in cui venivano rinchiusi tutti i marginali dell’età classica, che a un’istituzione disciplinare. Personalmente non riesco a scorgere nessuna concreta funzione istituzionale di tipo classico nei cpt.
Ho delle riserve e delle perplessità ad immaginare un percorso di riforma del cpt. Anche se siamo ancora all’inizio di questa lotta, e anche se proviamo a guardare altrove per individuare un modello alternativo che possa umanizzare il cpt, non riesco a scorgerlo.
Basaglia, quando assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, per cominciare a trasformare l’arcaica realtà custodialistica, carceraria e repressiva del manicomio, aveva a disposizione un’ampia serie di modelli alternativi di gestione dell’ospedale psichiatrico, e come è noto scelse di modernizzare il manicomio importando il modello della comunità terapeutica open door di Maxwell Jones, improntato su una democratizzazione assembleare della vita istituzionale. La cosa sorprendente è che a Gorizia, l’attuazione di tale modello procedette parallelamente con la sua critica. Basaglia denunciò sin da subito i limiti di tutti i tentativi di bonifica umanitaria del manicomio. Per lo psichiatra veneziano, la comunità terapeutica, sebbene costituisse il modello di organizzazione ospedaliera migliore, avrebbe chiuso immediatamente le contraddizioni della psichiatria, avrebbe cioè impedito di porre il problema politico più generale della trasformazione del sistema sociale che crea esclusione e stigma. La strategia di Basaglia, dunque fu questa: far correre parallelamente una pratica riformistica e la sua critica. Questo atteggiamento Basaglia lo mantenne anche nei confronti della legge 180. La legge sancisce il superamento del manicomio, ma la distruzione dell’ospedale psichiatrico non deve determinare una psichiatrizzazione del quotidiano. La distruzione del manicomio deve realizzarsi, al tempo stesso, contro la sua riforma interna, e contro l’esportazione della sua logica all’esterno.
In conclusione, mi viene da pensare che l’unica strategia percorribile nei confronti di quel mostro giuridico che sono i cpt, consiste nel rifiuto di qualsiasi proposta riformistica di una loro bonifica umanitaria.. Forse potremmo assomigliare al movimento antiiistituzionale, rivendicando la definitiva chiusura dei cpt e riportando le contraddizioni che i cpt vorrebbero celare, nel cuore della società.