“Dove sono i generali che si fregiarono nelle battaglie con cimiteri di croci sul petto?
Dove sono i figli della guerra, partiti per un ideale, per una truffa, per un amore finito male?
Hanno riportato a casa le loro spoglie nelle bandiere, legate strette perché sembrassero intere…
Mentre scorrono le immagini televisive della strage di Nassyria, le parole di questa ballata di Fabrizio de Andrè mi tornano in mente, non sulle tracce di un’interrogazione nichilistica sul senso del vivere e del morire, ma di una domanda elementare circa l’utilità e il senso di questa missione di peacekeeping. L’Italia ha inviato 2700 uomini fra avieri, membri dell’esercito, marinai, per contribuire alla ricostruzione dell’Iraq, accanto ad una coalizione di cui non facciamo parte, con l’intenzione di raccogliere i frutti del processo di liberazione e democratizzazione di questo paese.
Il lavoro sporco lo facciamo fare agli angloamericani
Ma in quale rapporto siamo noi italiani con la coalizione che ha occupato l’Iraq senza l’autorizzazione degli organismi internazionali? La spettacolarizzazione mediatica del conflitto lo aveva allontanato dalla nostra ovattata condizione di teleconsumatori; la violenza brutale dei kamikaze, che piombano sulla palazzina del comando italiano con un camion carico di tritolo e la distruggono, e uccidono ragazzi che provenivano anche dai nostri paesi del sud, alla ricerca di un lavoro perchè qui non se ne trova, ci colloca oggi in maniera shockante di fronte alla consapevolezza che stiamo partecipando ad una guerra di cui non si intravede la fine. La retorica patriottica rispolverata in occasione della rappresentazione del dolore nazionale, e l’orgoglio incentrato sul motto “italiani brava gente”, non appaiono sufficienti a motivare il sacrificio di vite umane e la prospettiva di restare intrappolati in questo nuovo Vietnam, a sostenere una strategia avventurista e suicida condannata dall’Europa e priva dell’autorizzazione dell’ONU. Il vacuo chiacchiericcio dei talk- show televisivi - luoghi dove si celebra il rituale dell’ illusoria partecipazione collettiva alla politica che si degrada sempre più a tecnica del mantenimento del potere - ci restituisce una possibile interpretazione da parte di coloro che sostengono il governo: questa missione era necessaria perché “costituiva un segno doveroso di amicizia e solidarietà nei confronti dell’amico americano”, perché rappresentava un atto di responsabilità nei confronti della ricostruzione dell’Iraq, paese dilaniato dalle guerre, dalla povertà e dall’embargo decretato da coloro che oggi si proclamano ”liberatori”.
Evidentemente le buone intenzioni e le buone capacità di relazione con il popolo iracheno non sono state sufficienti a garantire la sicurezza delle nostre truppe; si poteva prevedere che l’Italia avrebbe pagato il suo tributo di vite umane in una missione che, nonostante il paludamento mistificatorio dei vari argomenti con i quali è stata giustificata, si presenta in maniera sempre più chiara come una guerra per il controllo delle vie del petrolio e per guadagnare consenso al regime neoconservatore di Bush.
Un conflitto asimmetrico
L’orrore provato di fronte alla tragedia mondiale dell’attentato alle torri gemelle di New York ed il profilarsi della minaccia di un conflitto permanente tra culture e civiltà diverse forse doveva indurre ad una revisione del sogno neoimperialista americano. La strategia americana si è impiantata in questa regione malata che è il Medio Oriente: da principio in Afganisthan, per sradicare il regime dei taliban, nella speranza così facendo di destabilizzare le infrastrutture di Al Qaeda, poi in quell’espressione geografica che è l’Iraq, per eliminare il regime di Saddam ritenendo che catturare Bin Laden e neutralizzare il capo dello stato canaglia fosse un passaggio di importanza cruciale per scompaginare le trame del terrorismo internazionale.
Caracciolo mette in evidenza, come caratteristica di questo conflitto, la “vittoria insabbiata”. “ La vera guerra, quella sporca è infatti cominciata quando Bush ne aveva proclamato la fine”; in questo conflitto “asimmetrico”, in cui più gli americani vincono, più i terroristi prosperano, la vittoria non si può misurare, è possibile proclamarla in qualunque momento, salvo rischiare di essere smentiti subito dopo da altri attacchi terroristici, magari portati da gruppi diversi da quelli combattuti fino ad allora.
All’origine di questa spirale perversa c’è il fantasma della minaccia di nuovi attentati che agisce come volano della politica di militarizzazione dei conflitti di interesse tra Stati Uniti e stati canaglia del Medio Oriente; dall’11 settembre, all’elenco delle paure dell’uomo moderno si è aggiunta l’angoscia di essere esposti in qualunque momento alla possibilità dell’attentato: “La guerra per liberare l’America dalla paura del terrorismo ha innescato un meccanismo semiautomatico che alimenta la paura come condizione dell’emergenza patriottica. Così proteggendo Bush dalle critiche interne, favorendo le industrie variamente connesse alla difesa e allargando il differenziale di potenza tecnologico e militare tra Stati Uniti e resto del mondo (…) Secondo un’analista bene addentro alla cultura strategica americana, il generale Fabio Mini, questa guerra è perciò la guerra per la paura. Apparentemente per liberarsi dalla paura ma in sostanza per alimentare la paura, senza la quale nessuno spenderebbe un soldo o rischierebbe un’unghia. Sullo sfondo, l’idea di usare la guerra al terrorismo per perpetuare nel XXI secolo l’egemonia americana, traducendola in benigno impero universale.” (Lucio Caracciolo, La vittoria insabbiata, pag. 9, in “Limes”, 5/2003).
La morale universale
La sequenza di attentati che ha colpito il Medio Oriente, l’Arabia Saudita, l’Iraq, la Turchia, prendendo di mira americani e loro alleati occidentali, ebrei e popolazioni della regione, impone di interrogarsi sul senso di questa politica che appare in modo sempre più chiaro finalizzata ad adattare l’ordine mondiale alla nuova realtà dell’unipolarità, propagando il modello democratico degli Usa e garantendosi fedeltà in tutto il pianeta. L’unilateralismo politico degli Usa, emerso con la crisi dell’Unione sovietica ed il dominio del pensiero unico, fanno apparire oggi la politica americana come l’espressione della morale universale - così la chiama Gilles Kepel in un suo editoriale comparso su Repubblica del 22 novembre - l’applicazione di strategie per salvaguardare il Bene collettivo.
“Scavalcando queste opposizioni e intervenendo militarmente ma senza mandato ONU, Washington ha dovuto fare ricorso al pretesto della morale universale che avrebbe legittimato il via alle operazioni con la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa (a tutt’oggi non ancora trovate)… Al di là dei grandi principi e della strategia planetaria, l’operazione irachena aveva altresì un preciso obiettivo distruggendo il regime di Saddam, e sostituendolo con un fido alleato degli Usa, essa realizzava il duplice e tradizionale obiettivo politico di Washington nella regione, quello di garantirsi gli approvvigionamenti petroliferi e di garantire la sicurezza di Israele.” (Gilles Kepel ”Repubblica”, 22 nov. 2003).
Il dramma dell’11 settembre, con il quale l’intera collettività americana è stata colpita al cuore con la distruzione del mito della propria invincibilità e potenza, ha fornito un pretesto perché il governo di Bush si presentasse come il più solido garante dei valori della democrazia e della libertà, difesi dove erano maggiormente minacciati, con un’azione rapida e decisa, che ha scavalcato l’opposizione di paesi e di opinioni pubbliche. Non si può fare a meno di pensare che la logica dell’Universalismo del Bene che il governo di Bush ha inteso incarnare tramite l’operazione protervamente definita “Giustizia infinita” in Afganisthan, rappresenti in maniera speculare la patologia della credenza di chi ha bisogno di identificarsi con il Bene, sente di parlare in nome e per conto di Dio e così giustifica il diritto di massacrare e di uccidere.
Il terrorismo non è un soggetto ma una tattica
Le recenti vicende, dalla strage di Nassyria agli attentati sanguinosi ad Istanbul, sino al massacro degli osservatori inviati dal governo spagnolo, dimostrano che il nemico è ovunque perché il terrorismo non è un soggetto ma una tattica e la capillarità del radicamento dell’idea della Jihad rimanda ad un terreno di cultura potenzialmente dilatabile all’infinito.
La scelta di risolvere il problema del terrorismo internazionale con la forza delle armi suppone di ignorare o perlomeno di trascurare un aspetto importante del fenomeno, come sostiene S. Natoli in un suo recente saggio, Essere al mondo dedicato all’analisi delle parole chiave della geopolitica. La caratteristica fondamentale del terrorismo è la separatezza in cui nasce, vive e prolifera; se tale fattore crea un’aura di invincibilità e di inafferrabilità, indispensabile per la riuscita delle azioni, è anche fattore di debolezza perché fa si che esso possa accendere le masse ma non organizzarle. Il terrorismo “si fa estraneo alla cultura da cui si genera, la surdetermina, la semplifica, la deforma.”
E’ legittimo avanzare l’ipotesi che certe manifestazioni del terrorismo siano espressione di una “strategia entrista”, strumento per guadagnare posizioni di vantaggio, acquisire territori, conquistare un potere stabile. A parte il terrorismo di matrice palestinese, il terrorismo “islamico” accenderebbe l’Islam per difendere interessi personali. Emerge da questa analisi un’immagine complessa del terrorismo: c’è quello teso a perseguire obiettivi limitati, che verrebbe disinnescato dalla risoluzione del problema dei rapporti tra israeliani e palestinesi e c’è il terrorismo che vuole accendere una civiltà, islamizzare il mondo: “Un terrorismo siffatto ha un fine troppo ampio per essere praticabile e proprio per questo viene da pensare che sia pretestuale, in breve, che serva ad altro.” (S. Natoli, Stare al mondo, Feltrinelli, 2002, pag. 27).
I terroristi integralisti, veri asceti metropolitani, mimetizzati nelle città dell’Occidente opulento e affamatore, sono manovrati da atei perfetti travestiti da religiosi. Natoli sottolinea che esiste una complementarietà di ruoli tra i kamikaze che si fanno esplodere per la causa dell’Islam e gli affaristi cinici e spregiudicati, gli speculatori che, ben lontani dal volere conquistare il mondo alla civiltà islamica, vogliono tenere il mondo sulla corda per meglio perseguire i loro interessi, truccare i mercati, ricattare l’economia globale.
Il terrore globale
Non esisterebbe dunque una relazione diretta tra Islam e terrorismo, come pure tra terrorismo e miseria . E’ innegabile però che il terrorismo trova nel mondo della penuria adepti e simpatizzanti, tra coloro che sono cresciuti camminando sui cadaveri dei loro parenti e non hanno niente da perdere, perchè hanno dimestichezza con la morte, tra i popoli della terra che imputano all’Occidente ricco e rapace - a torto o a ragione - la loro indigenza e povertà. Gli spostamenti di merci, di uomini e di capitali all’interno di questo nostro villaggio globale diventato così piccolo rendono possibile anche il terrore globale.
La globalizzazione nel segno dell’impero americano ha investito il mondo penetrando in tutte le società, sconvolgendole, scomponendole, squilibrando l’ecosistema dei popoli. Nell’ambito del mercato globale tutto è stato accolto, metabolizzato, confezionato e redistribuito: “Cristo, Buddha, Maometto, lo Yoga, la New Age e la Coca Cola insieme: il più grande sincretismo della storia del mondo”. (S. Natoli, op. cit., pag. 30).
L’unilateralismo politico degli Stati Uniti ha un’interfaccia economica nel pensiero unico. La globalizzazione ha messo in circolo benessere, risorse materiali e conoscenze tecniche ma non ha distribuito uguaglianza e parità di diritti. Al contrario, sostiene Natoli, la occidentalizzazione del mondo nel segno del mercato globale e del dominio della società dei consumi ha creato un’ibridazione di culture e di esperienze; l’american way of life ha procurato uno sconvolgimento delle opposizioni e delle gerarchie tradizionali. “Il mondo è davvero diventato uno, tutto è incluso nel medesimo spazio. Le vecchie distinzioni dentro/fuori, periferia/centro si sono logorate, sono in larga parte cadute tranne una, a tutto resistente: l’alto/basso. La globalizzazione non ha realizzato affatto un’inclusione generalizzata e tuttavia ha permesso agli esclusi di guadagnare una maggiore consapevolezza della propria posizione. E ciò li rende meno disposti a tollerare. Da qui l’accumularsi di conflitti irrisolvibili entro un medesimo spazio, di guerre endemiche periferiche e urbane” (Ivi, pag. 31).
E’ come se il coinvolgimento di tutto il mondo nel mercato globale avesse accentuato il livello di sofferenza degli esclusi. “tutti vorrebbero sedere alla mensa cui l’Occidente opulento li ha invitati”. Dalla esclusione nascono il risentimento, la violenza e la guerra, rivolti contro un’intera civiltà che, con i suoi feticci, seduce ed attrae ma produce anche terribili frustrazioni perché chi è escluso dai consumi non è escluso, per mentalità, dalla civiltà dei consumi. Macerie di questa umanità vilipesa ed oltraggiata affiorano dalle acque del Mediterraneo con le carrette del mare che riversano sulle nostre coste gente che è armata solo della speranza di costruirsi una vita migliore di quella che si lascia alle spalle.
La politica dissennata che sostiene, con Bush e Blair, che la guerra è “nobile e necessaria” ha prodotto una spirale di violenza in cui sono state travolte tutte le prospettive di pacificazione dei rapporti tra israeliani e palestinesi; le stragi che quotidianamente si verificano in Medio Oriente dimostrano l’inanità di una politica che si affidi all’uso della forza militare nella risoluzione dei conflitti ed il rischio di precipitare verso un incontrollabile allargamento dei fronti di guerra. La politica estera del governo di centro-destra, che manda i soldati a “costruire la pace” in un paese infiammato dalla guerra prodotta dai suoi stessi alleati, appare sempre più succube e dilettantistica mentre, all’interno, le scelte di politica finanziaria operano per lo smantellamento di tutte le forme di tutela delle fasce sociali più deboli, sottraendo diritti, dalla sanità all’istruzione, al lavoro, preparando alle giovani generazioni un futuro connotato da sempre maggiore incertezza.
Le passioni di sinistra
Questa rivista è nata due anni fa dal bisogno di avviare un dialogo sulle ragioni della crisi profonda che la sinistra attraversa a livello locale e nazionale. Sull’onda della indignazione per i fatti di Genova, espressione di un innalzamento del livello del conflitto sociale, la riflessione è cominciata dalla volontà di interrogarsi sul significato del movimento noglobal e di lavorare alla costruzione di un soggetto politico antagonista che esprima i bisogni di quelle parti della società civile che non trovano forme di espressione nella politica “alta”.
Oggi siamo chiamati a nuovi impegni dall’intensificarsi della violenza del conflitto : è necessario l’esercizio di una critica dell’esistente che restituisca dignità alla politica e ne rilanci il significato progettuale all’interno di un orizzonte etico in cui parole abusate come pace, eguaglianza, libertà, ritrovino concretezza di senso. Può essere utile, in proposito, una rilettura della politica alla luce del principio collettivo ed individuale della responsabilità di cui parla il filosofo H. Jonas nel saggio il Il principio di responsabilità in cui vuole proporre un’etica planetaria per la civiltà tecnologica. Egli sostiene che, al cospetto dei guasti procurati dallo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e dalla manipolazione tecnica dell’essere, occorre rifondare l’etica guardando al più elementare dei modelli di relazione, quello della cura parentale che fornisce il paradigma di un pensiero dell’accoglienza, fondato sull’imperativo “che deve esserci un’umanità”, di contro ad un pensiero “forte” che rappresenta il modello di una relazione di dominio sull’essere da cui possono scaturire conseguenze letali per la stessa specie umana. L’etica della responsabilità deve opporsi tanto al decisionismo e al pragmatismo quanto al relativismo etico, che è figlio della secolarizzazione: le azioni si valutano non in base ai criteri di una razionalità calcolante che punti al maggior utile dei gruppi di interesse dominanti ma sulla loro compatibilità con la continuazione di una vita umanamente accettabile sulla terra.
Riflettere sulla relazione che intercorre tra la natura violenta e disaggregante dell’ordine mondiale della globalizzazione neoliberista, la guerra, e il terrorismo può costituire una traccia.
E’ necessario mettere in discussione le scelte politiche ambigue ed incerte del nostro governo, riconoscere che l’aggressione all’Iraq rientra in una logica di realpolitik, che intende ridisegnare la geografia politica del Medio Oriente per assicurare all’America la perpetuazione della propria supremazia economica e del proprio modello di consumo e per consolidare e sfruttare la divisione del pianeta tra paesi ricchi e paesi poveri, tra chi non sa come investire il denaro e chi va a cercare il cibo fra i depositi urbani della spazzatura. Occorre chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq e favorire una rapida restituzione del paese agli Iracheni; sarebbe utile lavorare per una nuova collocazione politica dell’Italia nel contesto internazionale e dare un ruolo nuovo ed incisivo all’Europa nella soluzione del problema palestinese ed iracheno. La costruzione di un nuovo soggetto politico globale, che dia occasione di vita e di lavoro al popolo a venire, parte dal coinvolgimento di tutte le energie che si sono espresse sinora, dai cattolici di base ad Emergency, ai ragazzi del movimento No-global, al movimento dei disobbedienti, dai medici senza frontiere a tutti coloro che hanno manifestato per la pace, sino agli immigrati e agli esclusi.