Costituisce una resa dei conti il dibattito, di recente sciorinatosi in Italia, sulle radici cristiane dell’Europa politica, oggi che un certo relativismo etico–religioso - eufemisticamente camuffato sotto il nome di pluralismo - ha condannato senza contraddittorio il pur molto lontano ricordo delle così dette religioni di Stato. Resa dei conti di una società controversa ed individualista, avvezza ai tatticismi ideologizzanti e per nulla incline a considerare quale fondamento di vita vissuta i grandi ideali, fatta eccezione per qualche anelito di Patria che a tratti emerge come un affresco medievale sotto un malcelante ornamento barocco.
Ne deriva che l’istanza di pubblico riconoscimento di una matrice valoriale delle esperienze umane affastellatesi nel corso dei secoli, si è rivelata perdente sin dal suo esordio, poiché ad un corpo informe e volubile qual è la società delle Nazioni d’Europa - suddivisa nei mille rivoli degli interessi di potere ad onta di una presunta unità teleologica - si chiede una speciale quanto tardiva ricapitolazione a dire il vero conformativa, quasi che l’intitolazione di una strada urbana ad un famoso uomo di cultura determini, apoditticamente, una identificazione unificante nelle idee del soggetto toponomastico da parte di tutti gli abitanti di quella strada.
Così, pertanto, non può avvenire per il percorso di approvazione di una prima Costituzione Europea, per quelle stesse ragioni soprattutto culturali enucleate dai sostenitori delle comuni radici cristiane del popolo europeo.
L’antefatto
Fatta l’Europa bisogna fare gli Europei. Dopo le iniziali strutture di convivenza è ora il turno delle regole a cominciare dalla Costituzione che, contrariamente all’ordinaria evoluzione di ogni altro organismo pubblico o privato, perviene dopo un effettivo quarantennio di normative e di prassi consolidate, le quali già una fisionomia giuridica hanno dato all’Unione. Contenendo, la Carta fondamentale, oltre che norme di garanzia anche principi ispiratori, la confessione cattolica, mediante le gerarchie di governo apostolico, ha esplicitamente chiesto per le vie magisteriali e diplomatiche che nell’approvanda Costituzione vi sia un perspicuo riferimento alle comuni radici cristiane delle genti come delle espressioni organizzative. Facile costruire un parallelo tra le due accuse principali che pendono sulla Costituzione: da una parte che quest’ultima è affare di Stati senza che i cittadini europei vi partecipino; dall’altra, che il richiamo alle radici cristiane sia un affare vaticano senza che i credenti sembrino disposti ad assumerne la paternità. Men che meno i cristiani non cattolici, dei cui vertici religiosi non si ode voce almeno dello stesso volume della voce cattolica.
Per una riflessione che parta dal documento, il Preambolo, che tanto ha fatto finora discutere, così testualmente recita nelle parole approvate dalla Convenzione il 13 giugno ed il 10 luglio 2003:
Consapevoli che l’Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti, giunti in ondate successive fin dagli albori dell’umanità, vi hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell’umanesimo: uguaglianza degli essere umani, libertà, rispetto della ragione;
Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, i cui valori, sempre presenti nel suo patrimonio, hanno ancorato nella vita della società il ruolo centrale della persona, dei suoi diritti inviolabili e inalienabili e il rispetto del diritto;
Convinti che l’Europa, ormai riunificata, intende proseguire questo percorso di civiltà, di progresso e di prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi; che vuole restare un continente aperto alla cultura, al sapere e al progresso sociale, che desidera approfondire il carattere democratico e trasparente della vita pubblica e operare a favore della pace, della giustizia e della solidarietà nel mondo;
Persuasi che i popoli dell’Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, sono decisi a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino;
Certi che, “unita nella diversità”, l’Europa offre loro le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza delle loro responsabilità nei confronti delle generazioni future e della Terra, la grande avventura che fa di essa uno spazio privilegiato della speranza umana.
Il fatto
È sembrato generico il pur esaustivo riferimento alla categoria concettuale della religione, forse perché il timore della cristallizzazione storica legata alla visione della memoria e dell’eredità induce a ritenere che il cristianesimo possa non avere un futuro nella costruenda Europa istituzionale. Allora, più che una preoccupazione esegetica del dato normativo con lo sguardo rivolto al passato, la problematica centrale del dibattito in corso si proietta in avanti e riguarda la possibilità che il cristianesimo possa assumere una posizione primaziale nelle culture degli Stati Uniti d’Europa; se, cioè - non le radici, bensì - il futuro del consesso europeo potrà rispondere, nella vita quotidiana come nelle scelte di fondo, ad un quadro di valori aventi un fondamentale punto di riferimento, quale appunto il cristianesimo.
Non v’è chi non vede, in questa operazione culturale, una retrostante operazione diplomatica, volta alla acquisizione giuridica di una visibilità ecclesiale per altri versi tuttora esistente a livello politico e mediatico. È il riflusso al sacro a volerlo, si obietta, commisto alla fiducia che l’uomo di strada, l’efficiente operatore economico e l’intellettuale ripongono nella teologia della pace, della solidarietà e della promozione umana. Invero, gli ambienti diplomatici e politici, quest’ultimi anche italiani, vivono con senso di disagio la querelle sulle radici cristiane da inserire nella Costituzione europea, quasi che essa sia di ostacolo ad una congiunzione di vedute e di approvazioni. In altre parole, mentre l’occasione è valutata unica per la resa dei conti e per un rilancio del cristianesimo a fronte degli attuali adombramenti, le esigenze della tempistica e dell’unificazione spingono a rimuovere il dibattito dalla sede prettamente giuridica, per ricondurla nelle usuali zone grigie delle opinioni a confronto.
A riprova dell’interesse di conquista che a questo punto diventa ideologica (tanto che non si dovrebbe parlare di caduta delle ideologie ma di nuova ideologia confessionale, che assume giorno per giorno una carica maggioritaria sino alle estreme conseguenze del terrorismo fondamentalista), altro spunto di dibattito è l’articolo I-51 che così descrive lo Status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali:
1. L’Unione rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri;
2. L’Unione rispetta ugualmente lo status delle organizzazioni filosofiche e non confessionali;
3. L’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni, riconoscendone l’identità e il contributo specifico.
L’accusa di specie è che questo articolo nasconde un pregiudizio, che si giudica di tipo ideologico, secondo il quale le confessioni religiose ricevono uguale considerazione e trattamento delle organizzazioni filosofiche e non confessionali. Le quali vivrebbero in una condizione satellitare di tolleranza senza previo coinvolgimento nei grandi processi decisionali dell’Europa, a cominciare dagli accreditamenti degli organismi di rappresentanza. A queste condizioni di troppa eguaglianza e di riduzione allo stato di organismo volontaristico, la confessione cattolica non ci sta.
La tesi pontificia
Al n. 7 dell’Esortazione apostolica post-sinodale “Ecclesia in Europa” il Papa ha enunciato
“(…) lo smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia. Non meravigliano più di tanto, perciò, i tentativi di dare un volto all’Europa escludendone la eredità religiosa e, in particolare, la propria anima cristiana, fondando i diritti dei popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesimo. Nel continente europeo non mancano certo i prestigiosi simboli della presenza cristiana, ma con l’affermarsi lento e progressivo del secolarismo, essi rischiano di diventare puro vestigio del passato. In tale orizzonte, prendono corpo i tentativi, anche ultimamente ricorrenti, di presentare la cultura europea a prescindere dall’apporto del cristianesimo che ha segnato il suo sviluppo storico e la sua diffusione universale.”
Il Papa, quindi, ha posto in rilievo che l’Europa non è soltanto un tracciato geografico o un accordo politico: l’unificazione culturale, economica e politica del terzo millennio è frutto del processo unificante sostenuto dall’annuncio della novella evangelica e dalla missione della Chiesa. L‘orientamento comune di un popolo così enorme deriva, come avvenuto, da uno sviluppo storico caratterizzato da tre elementi: 1. la coscienza politica della civitas romana, con la traduzione governativa dell’esperienza imperiale; 2. la fede cristiana che origina dalla spiritualità ebraica nonché dalla cultura ellenistica; 3. l’apporto culturale dei popoli mediterranei ed asiatici, approdati in Europa e coinvolti nel processo di romanizzazione e di cristianizzazione. Non è tempo di reclamare un ritorno a forme di Stato confessionale; tempo è, invece, di deplorare “(…) ogni tipo di laicismo ideologico o di separazione ostile tra le istituzioni civili e le confessioni religiose” (n. 117 dell’Esortazione), nella convinzione che l’Europa istituzionale è oggi quella che è anche grazie alla persistente presenza ed azione del cristianesimo.
Più preoccupante di una esplicita negazione diventa il silenzio costituzionale sulle radici cristiane, il che dimostrerebbe un sommerso e forse inconscio anticristianesimo, per la nota lascivia delle generazioni del Novecento. Infatti, anziché per un serio confronto tra laicità e cristianità, il timore maggiore è per la secolarizzazione, cioè l’indifferenza o il disconoscimento del valore e della portata non soltanto della religione cattolica, ma anche delle altre religioni monoteiste. Addirittura la precedenza data, nel Preambolo, ai retaggi culturali rispetto a quelli religiosi, oltre che essere giudicata quale esercizio di retorica, depone a favore di una rimozione collettiva del senso religioso e ad una connivenza tra l’Europa istituzionale e l’Europa del disvalore. La risposta del Papa, di fronte a tanta dispersione, diventa quasi un’opzione zero dal punto di vista religioso:
“Gesù Cristo è la nostra speranza perché Lui, il Verbo eterno di Dio che da sempre è nel seno del Padre, ci ha amati a tal punto da assumere in tutto, eccetto il peccato, la nostra natura umana diventando partecipe della nostra vita, per salvarci. (…). Sono molteplici le radici ideali che hanno contribuito con la loro linfa al riconoscimento del valore della persona e della sua inalienabile dignità, del carattere sacro della vita umana e del ruolo centrale della famiglia, dell’importanza dell’istruzione e della libertà di pensiero, di parola, di religione, come pure alla tutela legale degli individui e dei gruppi, alla promozione della solidarietà e del bene comune, al riconoscimento della dignità del lavoro. Tali radici hanno favorito la sottomissione del potere politico alla legge e al rispetto dei diritti della persona e dei popoli. (…). Nel processo della costruzione della <<casa comune europea>>, occorre riconoscere che questo edificio si deve poggiare anche sui valori che trovano nella tradizione cristiana la loro piena epifania. Il prenderne atto torna a vantaggio di tutti”. (n. 19)
L’antitesi laica e delle diversità
L’idea di primato del cristianesimo su tutte le culture, ovvero di primato del cristianesimo in un quadro di pluriemergenze religiose, porta scontento tra gli atei o tra i credenti di altre religione non cristiane, che pure vivono l’esperienza unificante dell’Europa. Il pluralismo ed il dialogo interreligioso oltreché interrazziale richiedono il ridimensionamento del cristianesimo e l’accostamento, ad un tavolo unico di confronto regolato dal criterio dell’equiordinazione, delle molteplici istanze umane e religiose che continuamente si affacciano sullo scenario europeo.
Sul presupposto della libera espressione individuale e collettiva dei valori umani nei quali si crede, le istituzioni europee non possono aprioristicamente risentire di un orientamento religioso, dovendo esse rimanere perfettamente laiche sia nella loro origine ontologica che nelle misure organizzative. Laicità significa neutralità, rispetto di tutte le concezioni del mondo, convinzione che se anche il diritto proviene da una convinzione filosofica o religiosa, la legge non può essere espressione ufficiale di parte, in quanto essa è estrinsecazione democratica di tutti i cittadini. Religione, invece, a volte significa divisione, anche in nome dell’intolleranza così come perfino negli annali del cristianesimo è dato di registrare.
La paura di una cittadinanza piena del cristianesimo è tutta nella sopravvivenza dei privilegi, per le chiese come per i suoi rappresentanti; nella instaurazione di un regime etico che biasima i comportamenti non omologati; nella defenestrazione culturale dei portatori di diversità come gli omosessuali e gli stessi immigrati; nel razzismo tra la verità delle quali ciascuna chiesa si sente portatrice. Riconoscere, come fa l’articolo I-51, il contributo specifico delle chiese al processo democratico, significa disconoscere la giusta cittadinanza alla laicità al pari del cristianesimo, disconoscere la legittimità dei laici e dei liberi pensatori a rappresentare i valori morali dei cittadini non allineati al cristianesimo, disconoscere l’Illuminismo a beneficio dell’Umanesimo religiosamente instradato. In definitiva, uguale richiesta di ufficializzazione delle radici laiche potrebbe essere avanzata quale emendamento al Preambolo.
La conclusione
La resa dei conti si avvale di dissapori che si credevano assopiti. Il dialogo religioso, in verità, è uno scontro tra fazioni socio-culturali e quello europeo è soltanto un livello più elevato di ciascuna nazione o delle città che quotidianamente si percorrono. Si può ritenere non utile approfittare di un così importante momento e strumento unificante, cioè la Costituzione Europea finalizzata ad altri scopi politico-istituzionali, per dichiarare chiusa una secolare disputa sulle radici del popolo europeo. Seppure, con precisazioni puramente terminologiche, si giungesse ad inserire un microinciso nel Preambolo, la vittoria del cristianesimo lascerebbe il tempo che trova perché non farebbe svanire in un sol colpo le diversità concettuali - dettate dalla vita e non dai massimi sistemi di pensiero - che innervano le regioni e le province dell’Europa.
A sollievo di tale realistica conclusione, si può argomentare che, nonostante un eventuale mancato inserimento del riferimento esplicito alle radici cristiane dell’Europa - come sembra essere l’orientamento generale dei padri costituenti - non si può rinnegare l’ispirazione cristiana che contrassegna la Costituzione europea, il che porta a riconoscerne almeno l’origine storica. I valori come pace, solidarietà, sussidiarietà, giustizia sociale, rispetto della persona umana e dei suoi diritti inviolabili ed inalienabili, rispetto per i più deboli e bisognosi, speranza umana, se presenti in un testo moderno di Costituzione, fanno comprendere che il cristianesimo ha avuto un ruolo importante nella storia dell’occidente europeo ed i suoi rappresentanti hanno saputo fare bene il loro lavoro di annuncio e costruzione della fondamenta. Perseverare significherebbe colonizzare.
Definito che la dimensione del passato non è in discussione e non si palesa conveniente riprenderla, diviene utile pensare ad una dimensione del futuro, da recuperare attraverso il riferimento che il Preambolo fa all’unità nella diversità, il che costituisce un vero dato oggettivo di rappresentazione dell’Unione nel terzo millennio di storia europea. Similmente ai secoli passati, l’Europa non può che caratterizzarsi per l’accoglimento di genti sempre nuove e per il recepimento di apporti etnici e religiosi sempre nuovi, poiché la propensione all’apertura è una delle sue caratteristiche culturali più penetranti e più apprezzabili, tale da consegnare l’Europa dai latini, degli ellenici, degli anglosassoni, dei germanici, dei celtici, degli slavi, dei finnici ed al momento dei mediorientali, dei nordafricani, persino dei latino-americani e degli orientali, ad un futuro pieno di novità e di rinnovato splendore umano. Tutto il resto, è regionalismo culturale.