Lo stato attuale dell’università italiana è critico, come mai è stato nel passato. È in pieno collasso, tanto da far paura. In discesa verticale sono la sua efficienza, la credibilità, la fiducia della società. L’università è oggi succube dei poteri, altro che autonoma.
Con la riforma dell’autonomia, l’università è passata da una crisi di identità negli anni novanta, con nodi cruciali irrisolti e mali endemici, diventati cronici, fino alla crisi attuale di credibilità, senza prospettive, destinata com’è ad un fallimento storico, forse irreversibile. Occorre cambiare, subito.
cambiare, perché?
La storia dell’università, fin dal medioevo, è stata intimamente intrecciata con la storia della scienza, sviluppandosi o ritardandosi in funzione degli stessi condizionamenti del potere dominante.
Sono innumerevoli le volte in cui l’evoluzione della scienza è stata impedita dai ritardi della società, dagli ostacoli dell’economia e dall’opposizione dei potenti. Alla stessa maniera l’università si è piegata alle esigenze di poteri economici, ideologici, religiosi, che hanno spesso impedito alla libertà della scienza di contribuire all’evoluzione del pensiero e ritardato l’emancipazione dell’uomo e il progresso sociale. Il ritardo secolare nella scoperta delle tecnologie d’uso delle energie alternative, così come il freno di almeno cento anni alle ricerche sulle applicazioni alternative dell’automobile elettrica, non sono molto diversi dagli ostacoli frapposti all’evoluzione del sistema galileiano di conoscenza della natura e di ‘matematizzazione’ del mondo.
Si dovrà pur cominciare a scrivere una storia della scienza dalla parte dei perdenti. E sarà allora più chiaro il ruolo che giocano, oggi, le grandi potenze mondiali ed economiche nell’impedire la composizione di un sistema unitario di conoscenze dei processi planetari in atto, delle cause dei mutamenti climatici, dell’attività di pianificazione nel governo delle acque e nel riassetto del territorio, delle grandi migrazioni di uomini. E si capirà anche che sono proprio le specializzazioni spinte e la settorializzazione delle conoscenze a contrastare oggi in ogni campo la ricomposizione unitaria del sapere. Anche nell’università, che è il luogo principale di produzione del sapere scientifico.
Da tempo domina la convinzione che l’università di massa porta con sé, dall’origine, gravi errori nei processi formativi che sono causa di inevitabili danni conseguenti: sono in pochi gli studenti che si laureano, rarissimi nell’età giusta. Dal sessantotto ad oggi, l’università, di massa soltanto all’ingresso, continua ad essere di elite all’uscita.
Troppo facilmente si criminalizzano la svolta del sessantotto e l’apertura dell’università a masse di studenti, specie da parte di quei nostalgici della scuola elitaria, che dovunque s’incontrano, a destra come a sinistra. A me piace ricordare, invece, un brano dimenticato dell’Informazione parlamentare, un foglio del 18 luglio del 1953, che fa giustizia di opinioni grossolane e luoghi comuni. Si trattava della denuncia della situazione di crisi degli studi di ingegneria: “…nella sessione estiva dello scorso anno, presso il Politecnico di Torino, si sono laureati appena cinquanta ingegneri. Fra di essi, nessuno proveniva dalla immatricolazione 1947/48, riuscendo a portare così a termine i suoi studi nel prescritto quinquennio. Ce ne sono stati dieci che sono arrivati alla laurea in sei anni; undici in sette anni, dodici in otto, nel mentre altri otto hanno impiegato per arrivarci da dieci a tredici anni”. Un esito davvero deludente che portò il professor Colonnetti, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, a dichiarare in quella occasione che “quando in una scuola ad ordinamento quinquennale neppure uno degli allievi arriva a conseguire il diploma al termine del quinto anno, e soltanto il venti per cento raggiunge la meta con un solo anno di ritardo, non c’è più dubbio possibile: è la Scuola che non ha saputo commisurare le sue esigenze alle possibilità dei soggetti normali. È ora di finirla con la falsa concezione del prestigio della Scuola commisurato all’alto numero delle bocciature. La migliore scuola è quella in cui le bocciature sono pochissime, non perché le promozioni si regalano a chi non le merita, ma perché gli allievi arrivano tutti, o quasi tutti, a meritarsele. Io sono lieto di annunziare che il Consiglio della Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino sta coscienziosamente studiando un nuovo ordinamento ispirato ad alti sensi di responsabilità.”
Non so a quale nuovo ordinamento ispirato ad alti sensi di responsabilità si pensava. Rilevo però che la presunta inefficienza del sistema universitario, derivata dal sessantotto, era datata almeno venti anni prima.
Poi, alla fine del millennio è venuta la riforma universitaria, con l’autonomia e con il riordinamento complessivo degli studi. Dai lavori della commissione Martinotti si è passati in pochi anni alle elaborazioni dei consulenti neoliberisti del ministro Moratti, senza salti. Si è, però, accentuato il carattere verticistico del sistema universitario. Né era scritto che la riforma assumesse la forma di un fast food in cui ingozzarsi di nozioni rapide e precotte, producendo una pericolosa dequalificazione degli studi.
Le buone intenzioni di migliorare il percorso formativo si sono scontrate con le carenze strutturali e il deficit di risorse finanziarie. Il risultato è che l’università è diventata mercato, e la negazione del sapere scientifico è diventata programma di governo delle destre. Nel nome di una politica di riduzione dei finanziamenti pubblici, il governo oggi non si preoccupa di valorizzare l’università pubblica, non si cura di dotarla dei mezzi necessari a svolgere fino in fondo e riqualificare la propria funzione a garanzia del diritto allo studio, della didattica e della ricerca pubblica. Ancora una volta, come tante altre nella sua storia, l’università rinuncia ad ogni resistenza ai poteri statali, ai poteri economici, mediatici, ideologici, religiosi, culturali. L’università si ritrova oggi senza difese. L’università è senza potere.
cambiare, come?
È tempo di grandi discontinuità e, dunque, di necessità di cambiare. Bisogna cambiare, per porre un freno alla discesa verticale verso una cultura succube dei valori effimeri del successo, del denaro, della spettacolarizzazione di quegli aspetti e contenuti inutili e fallimentari, su cui fondano le proprie possibilità gli apparati di un potere mediocre, che ha in mano il controllo degli assetti economici, mediatici, bellici.
Fortunatamente, la transizione non è compiuta. Esistono ancora margini per impedire che si giunga al capolinea della storia, con il trionfo irreversibile del neoliberismo e del mercato, quel capolinea dove si annulla la memoria del passato, manca la consapevolezza delle difficoltà del presente, non si costruisce il progetto alternativo del futuro.
Per cambiare, non serve la competizione. Occorre invece la partecipazione, occorre muovere dal basso, non aspettare il controllo dall’alto. Bisogna partire dai processi reali del cambiamento e non imporre artifici giacobini, né inseguire processi aziendali e vendite di mercato. Si deve provare a muovere i soggetti reali della trasformazione, anziché inseguire i soggetti del dominio.
E i soggetti del cambiamento sono prima di tutto i docenti, i professori, i ricercatori, i dottori di ricerca, anche se il quadro della partecipazione non si ferma affatto a loro.
Ci sono gli studenti, quelli consapevoli che l’università è, nei fatti, a loro negata. Sanno che domina la negazione del diritto allo studio, e tuttavia pensano ad imparare un metodo di studio, ad accettare stimoli, ricercare passioni. Studenti che hanno capito che il sapere ha sempre una parte che fa capo soltanto a se stessi e al loro proprio agire.
Ma ci sono anche studenti che scelgono di non mettere mai piede in aula, che non entrano mai in una biblioteca, in un centro di calcolo, in un laboratorio. Studenti che sono ben felici che il docente abitualmente non faccia lezione. Ci sono studenti che durante l’anno incontrano una sola volta il docente, per mettersi d’accordo sul programma di esame, senza nulla chiedere del programma di studio, delle attività corsuali, senza pretendere nulla dall’università in cui pure pagano per essere iscritti. Studenti che oggi si organizzano sempre più attraverso forme virtuali, divenute l’unico luogo possibile di aggregazione.
E, poi, occorre attrarre alla partecipazione il personale tecnico ed amministrativo, oggi completamente marginalizzato. Occorre esaltare la funzione democratica degli organismi di governo interni all’università, per i quali oggi i consulenti del ministro si preoccupano solo di governance, confondendola con l’efficientismo e le regole dell’ingegneria istituzionale.
Assenti le famiglie degli studenti, opportuniste le aziende, distratti i sindacati, i partiti in altre faccende affaccendati, discontinui i movimenti, insensibili le associazioni, potenti e famelici gli ordini professionali, pigre le istituzioni, oggi le amministrazioni locali sottovalutano l’impatto territoriale delle università e il governo nazionale ne ignora la funzione culturale e la missione sociale.
L’alternativa è disporre di risorse per il cambiamento o accontentarsi per non cambiare: non c’è altra possibilità. Solo la risorsa della partecipazione può contrastare i guasti della competizione: oggi si costringe alla competizione, perché sono negate le risorse fondamentali.
Per cambiare, ci vuole la partecipazione, che è sinonimo di coinvolgimento dei soggetti reali della trasformazione, ma significa anche conoscenza dei processi reali e comporta lo scandagliamento e la valorizzazione delle attività specifiche che si svolgono alla base, quelle che si tengono negli angoli nascosti, nei luoghi di lavoro di docenti che rifiutano le luci della ribalta, nei luoghi di studio degli studenti politicamente impegnati e presenti, nelle strutture della didattica e della ricerca che resistono, nonostante tutto, e funzionerebbero meglio se ne avessero le risorse. È soltanto l’assenza di libertà e di flessibilità nell’organizzazione della ricerca che rende repulsivi l’università ed il lavoro che vi si svolge.
Ci vuole la partecipazione dal basso, anche stimolata da un governo che, di fronte ad un problema socialmente rilevante, come è quello del riordinamento degli studi universitari, organizzi centinaia di incontri sul tema, in numerose città e luoghi di discussione. E c’è da augurarsi che il comportamento di un governo di centro-sinistra sia, almeno in questo, diverso da quello di un governo di centro-destra.
È malato il rapporto tra scienza e società. E va risanato. L’argomento del fabbisogno energetico e delle energie alternative, ad esempio, sia affrontato con il coinvolgimento diffuso di città e cittadini. Così per l’inquinamento elettromagnetico, così per le emergenze idriche, per i beni comuni sotto minaccia di privatizzazione.
Si continua a pensare agli scienziati in termini romantici, come persone totalmente disinteressate, esclusivamente proiettate alla conquista della conoscenza pura, come quelli che produrranno inevitabilmente utili ricadute sul benessere dell’umanità: non è più così, non ne è più il tempo, quel tempo è finito da secoli. Sarebbe, peraltro, questa l’idea del progresso lineare, che non è scientifica, ma ideologica. Forse non è mai stato così, e soprattutto non è così in tempi in cui scarseggiano i finanziamenti pubblici e molti tra i migliori ricercatori riescono a immaginare per sé solo un futuro di imprenditori, e portano le loro idee al mercato, e in borsa.
i docenti
I docenti sono i soggetti principali del cambiamento ed hanno un ruolo fondamentale nell’attivazione dei processi partecipativi. Ma il loro interesse e la loro partecipazione è molto diversificata: ci sono diverse tipologie e intensità di impegno dei docenti, oggi, raffrontate anche con riferimento al passato.
La figura del docente muta, e non poco, nella storia dell’università europea, muta fin dall’antichità. Dalle antiche scuole monastiche, immerse nel silenzio dei boschi, dov’era l’ideale ascetico dell’insegnamento come servizio a Dio, si passò, già nella Parigi del dodicesimo secolo, alle scuole di città, raccolte intorno al territorio. Sono le prime università/territorio, quelle nelle quali comparve una nuova figura di intellettuale, il magister delle scuole cattedrali, che veniva pagato dagli allievi, i goliardi, studenti che pretendevano di valutare l’insegnante e potevano decretarne il successo o la rovina. In una università medievale erano norma diffusa i regali in denaro e in natura, richiesti agli studenti al momento degli esami. Oltre ai banchetti offerti tradizionalmente dai nuovi dottori dopo il conseguimento della licentia docendi, questi regali rappresentavano delle spese obbligatorie, l’ammontare e la natura delle quali furono ben presto fissati negli statuti. Queste spese, minutamente elencate, sia per l’esame propriamente detto sia per la cerimonia d’investitura, rappresentavano a un tempo “diritti universitari”: erano tasse destinate ad alimentare le casse dell’università e dei collegi, e a coprire le spese delle sedute nonché dei doni per gli esaminatori, per le autorità scolastiche ed ecclesiastiche e per gli impiegati dell’università.
Muta dunque il rapporto con il territorio, muta continuamente la funzione di docente. Oggi ci sono ricercatori, docili, che si vendono al mercato e ricercatori, risentiti, che sono convinti che la politica non li merita e si chiudono separatamente nella loro torre d’avorio, o anche nella propria impresa.
Ai tempi d’oggi, il docente a volte fa solo didattica, oppure soltanto ricerca. Altre volte non fa niente, nessuna delle due. Se si impegna in entrambe, come dovrebbe dal punto di vista degli obblighi istituzionali, si lascia prendere spesso dalla tentazione di fare anche l’amministratore di una struttura universitaria. E talvolta si riduce a fare soltanto l’amministratore, il consigliere di amministrazione, il direttore di dipartimento, interessato solo a partecipare alla gestione dell’ateneo. In un decennio di riformismo universitario è cresciuta una generazione accademica e manageriale, alimentatasi nel mito della modernità. Né mancano docenti che rifiutano cariche e responsabilità accademiche, il più delle volte per dedicarsi prevalentemente alla libera professione, oppure per fare i manager di un’azienda, o per dirigere un ente o una società.
Ma, se decidono di portare avanti responsabilmente il loro lavoro quotidiano, sono obbligati ad un lavoro duro nell’università. In una università seria, ci si aspetta che i docenti svolgano ricerche originali, che insegnino a laureandi, specializzandi, dottorandi, che dirigano i laboratori, e spesso che si procurino anche i soldi per la ricerca attraverso contratti di ricerca con l’industria o il governo. I modelli, oggi dominanti, di autonomia, responsabilità, valutazione vorrebbero che essi dedichino anche una parte non piccola del loro tempo a dimostrare che lavorano seriamente, e lo facciano non attraverso i risultati che raggiungono, bensì tramite relazioni, tabelle, indicatori, effimere dichiarazioni di aver conseguito i risultati voluti. Sono i famigerati tecnicismi della valutazione. Non basta ormai più partecipare ai concorsi per progredire nella carriera, e semmai vincerli.
Oltre a questo, la società vuole che essi restino persone normali, che abbiano comunque una loro vita, moglie o marito, figli, hobby, tempo libero, che prestino la loro consulenza al governo ed alle aziende, e che trovino infine qualche ora di riposo la notte. Quanto tempo resta per la necessaria partecipazione ai consigli di facoltà, a quelli di corsi di laurea, a quelli di dipartimento, alle assemblee d’ateneo?
La conseguenza di tutto questo è che i docenti non si curano di partecipare attivamente alla trasformazione del sistema universitario e si assentano anche quando la situazione si fa critica, al punto di rottura. Non lo fanno in situazioni ordinarie, ma neppure in quelle straordinarie hanno tempo da dedicare ai comitati ed alle assemblee che discutono di riforma e di cambiamento. Sono pochi i docenti che abbiano voglia, tempo, energia e interesse per occuparsi di modelli formativi, di piani di studio, persino di programmi didattici. La maggior parte ritiene che la crisi della formazione universitaria sia materia che interessi gli amministratori dell’università, i senati accademici, i rettori e i presidi, i presidenti dei corsi di studio, i docenti in età più avanzata.
Così non intervengono nei processi di cambiamento. E l’università, senza la loro partecipazione, invecchia ancora di più.
modesti indirizzi per il cambiamento
Non ci sono più dubbi: è la competizione economica che costringe le università all’omologazione formativa e, dunque, al declino irreversibile di molte di loro. Per non perdere attrattività, per non veder ridurre il numero di studenti, sono costrette ad aprire corsi alla moda, ad imitare le iniziative delle sedi più ricche e fortunate.
Eppure, dagli anni settanta del novecento, sono sorte diverse università con una propria specificità, anche in contesti territoriali e sociali difficili, per svolgere una funzione storica di risveglio culturale e di stimolo alternativo. Dal Sud al Nord, in aree territoriali povere e in contesti economici e sociali arretrati, si sono attivati atenei con il contributo finanziario pubblico e con il sostegno della cultura e della scienza nazionale, per dar vita a forme nuove di organizzazione della ricerca e nuove esperienze didattiche. Non sarebbero mai nati se non avessero avuto il sostegno ad esistere e a crescere da parte dei governi nazionali e delle autorità locali, anche con leggi istitutive e di finanziamento. Sono nati spesso con i presupposti di scelte mirate di didattica e di ricerca specializzata, non per inseguire i facili numeri di corsi di studio tradizionali o alla moda, ma per trascinare la società verso modelli economici e culturali alternativi. Talvolta, alcuni di questi atenei hanno fatto parte di un vero disegno nazionale, con obiettivi necessari e incontestabili, come ad esempio quello del decongestionamento dei grandi atenei. Ma anche qui con poche e specifiche facoltà, pochi e determinati corsi di studio, non per porsi in concorrenza con i grandi atenei o creare duplicati, e soltanto per invertire i grandi flussi migratori verso le grandi e storiche sedi universitarie.
Poi, a partire dalla fine degli anni ottanta e con la riforma dell’autonomia finanziaria, questo processo, che cominciava a dare i propri frutti, è stato interrotto. Si è cambiata strada e si sono sottratte risorse ad atenei che avevano ragione di esistere, in virtù di una propria specifica missione storica e grazie a finanziamenti non condizionati da verifiche numeriche e quantitative bensì da accertamenti di una propria crescita qualitativa di cui si stava avvantaggiando tutto il sistema universitario nazionale.
E così si è preferito finanziare università private e introdurre insani parametri per inseguire una politica di riequilibrio del fondo di finanziamento ordinario, che ha finito con lo squilibrare di più il sistema. Ed oggi quelle università nuove, che avevano cominciato a potenziare le proprie strutture e a diventare un punto di riferimento per il territorio e la sua crescita culturale, hanno dovuto omologarsi aprendo corsi di studio e facoltà solo perché costrette ad un’insana competizione.
In un processo di cambiamento occorre fermare subito la tendenza a far conto degli studenti solo al momento della loro immatricolazione, come numeri da inserire in formule e indicatori di attrattività dell’università, e infine al momento della loro laurea, ancora come numeri da inserire in formule e indicatori di efficienza. Gli studenti devono diventare soggetti partecipi della didattica e della vita universitaria, soggetti attivi del movimento per trasformare l’università. Non più numeri, a cui la riforma e l’autonomia ha prodotto la cancellazione del diritto allo studio e il blocco della mobilità sociale.
Così anche i docenti non possono essere attratti all’incentivazione della loro funzione tramite indennità economiche che arrotondino i loro stipendi. Ciò che può stimolarli è la libertà e la flessibilità nell’organizzazione della ricerca e della didattica. Ciò che può rendere interessante il lavoro che essi svolgono nelle università sono i finanziamenti per la ricerca, gli incoraggiamenti a nuove forme della didattica, gli incentivi a costruire luoghi attrezzati per una didattica di qualità e partecipata, gli stimoli a costruire scuole di dottorato in consorzio con altri atenei.
Ed infine il personale tecnico ed amministrativo: per aprire una fase nuova nel rapporto tra l’università e il paese non possono essere assenti i lavoratori tecnico-amministrativi. La loro sorte non può essere indifferente al processo di cambiamento, il loro lavoro non può considerarsi irrilevante per il successo dei programmi formativi, il loro aggiornamento non può essere trascurato e la loro partecipazione non incoraggiata. La riforma dell’autonomia universitaria ha prodotto la loro ulteriore marginalizzazione. Ai lavoratori ‘non docenti’ si sono addossati maggiormente i costi economici, sociali e di partecipazione dell’autonomia. Una università pubblica, che sia solida e riqualificata, deve considerare il rinnovo del contratto nazionale non più come un incidente da evitare o da rinviare, deve riconoscere il giusto valore agli incentivi, ai riconoscimenti di produttività, allo sblocco delle assunzioni ed alla stabilizzazione dei contratti precari di lavoro, ottimizzare il loro significato nell’attivazione di nuovi percorsi di affezionamento dei lavoratori all’università ed alla sua missione sociale, culturale, alla sua prospettiva storica.