Niente di nuovo all’orizzonte.
In questo lato della terra, nella “società del benessere”, sono in molti a vivere e prosperare in un glorioso spreco, consumando risorse fondamentali per l’equilibrio ambientale, in paesi in cui si rischiano crisi irreversibili tutte le volte che si spingono i consumi oltre la disponibilità di risorse. Accade con l’acqua e con i suoi consumi esuberanti, che determinano crisi idriche e minacciano la sete, anche in territori niente affatto siccitosi e in presenza di numerosi invasi. Si ripete con l’energia e con i suoi consumi eccessivi, che provocano i black out di elettricità, in un paese come il nostro che è tutt’altro che “energeticamente povero” dal punto di vista della potenza installata e comunque in periodi in cui il picco di domanda non supera affatto la reale disponibilità. Vulnerabilità e insicurezza invadono persino gli Stati Uniti e il Canada, e questa volta il terrorismo non c’entra. Ad essere chiamato in causa è il superconsumo occidentale.
Nella società del consumo e del benessere crapulone, non si può impedire che ciascuno abbia diritto ad avere la sua parte – effimera - di felicità e la cerchi nel consumare a tutti i costi: la penuria intristisce, l’abbondanza mette allegria, nelle nostre città trasformate in paesi dei balocchi. Eppure, quante frustrazioni produce la competizione, la gara ad aumentare il consumo “privato”!
C’è chi è convinto che in economia non sia giusto “comprimere i consumi”, anzi occorra facilitarli anche invitando i cittadini a indebitarsi con le banche e addirittura ad ipotecare in massa la propria casa di abitazione e spendere i mutui a maggior gloria del consumismo e dell’industria, che è oggi molto malmessa e rischia il declino. Consumare, consumare, consumare: l’imperativo categorico è liberare risorse per i consumi, trasformare in consumi correnti tutte le risorse possibili, convertire in reddito spendibile anche la ricchezza che è nel mercato immobiliare e nella proprietà della prima casa, incitare le famiglie ad indebitarsi per consumare, far diventare necessario qualunque consumo voluttuario. Anche lo Stato venda le proprie risorse patrimoniali e così adegui il bilancio nazionale al rispetto dei parametri di Maastricht e del patto di stabilità, riguardo alla voce del “debito delle pubbliche amministrazioni”. Dal bilancio pubblico è già sparito il patrimonio industriale, produttivo e di ricerca: sparisca anche il patrimonio immobiliare, le scuole, i municipi, le caserme, gli immobili dei ministeri, le carceri, i tanti uffici. Lo Stato faccia il lease back, venda e riaffitti, pagandone poi il canone. Così già si fa diffusamente nel mondo delle grandi imprese e della finanza. Così fece l’Alitalia, che anni fa vendette un bel numero di aerei, realizzò un utile in un anno, poi li riaffittò e si trovò negli anni successivi indebitata fino al collo. Così faccia anche lo Stato, si indebiti non più con il “bot people”, ma con le grandi finanziarie dell’immobiliare, i grandi imprenditori immobiliari: un’altra forma di debito da lasciare in eredità alle prossime generazioni. Così lo Stato sfugga ai controlli dei commissari europei.
Che i consumi siano il motore dello sviluppo, lo sostengono generazioni intere di economisti cornucopiani, culturalmente impreparati ad affrontare i temi del degrado ambientale. Sono i “produttivisti” del novecento, che cantano ancora le “magnifiche sorti del progresso”: arrivano a sostenere che il nostro paese, essendo parte fondamentale del G8, debba preoccuparsi di superare il deficit di risorse, non certo mettendosi a ridurre la “domanda” - e con essa i consumi - bensì accrescendo la disponibilità di risorse necessarie a soddisfarla, come si è sempre fatto nel passato. Ed è così che gli esperti di pianificazione energetica propongono di costruire sempre nuove centrali termoelettriche e oggi arrivano persino ad insinuare il ripristino del nucleare. É così che gli esperti di pianificazione idrica non la smettono di proporre la realizzazione di sempre nuove dighe, sempre nuovi invasi artificiali, visto che gli sviluppi della tecnologia ce lo consentono. Non è il caso di porsi dei limiti, quando la scienza ci permette di superarli: questo sostengono i costruttori di opere a tutti i “costi”, né immaginano che sarebbe meglio se cominciassimo tutti a modificare le nostre abitudini e i nostri stili di vita, per consumare di meno, produrre meno “merci”, e dunque avere meno bisogno di energia, meno bisogno d’acqua, meno bisogni.
L’idea di base è che un paese, per andare avanti, deve produrre sempre di più, poco importa cosa e come. Per rimanere in Europa, è ora di smetterla con le limitazioni. Sono catene fastidiose le direttive comunitarie in tema di valutazione di impatto ambientale, così come quelle sulla regolamentazione dei rifiuti. I rifiuti non sono mai un problema, non si può fare a meno di produrli, l’importante è considerarli come elemento base per la produzione dell’energia. Si violano continuamente le leggi comunitarie, causando l’apertura di sempre nuovi procedimenti d’infrazione. Si diffondono le situazioni locali in cui siti di interesse comunitario finiscono a rischio di distruzione. Irresponsabili sono interi piani di settore, programmi di grandi infrastrutture, procedure per appalti e concessioni autostradali, interventi di deregulation delle aree protette, fino alla privatizzazione del patrimonio artistico e immobiliare.
Ed è così che l’ambiente viene ridotto al rango di “motore dello sviluppo” e considerato come merce da usare, vendere e sprecare. La tutela dell’ambiente è da posporre nettamente al rilancio del mercato e dell’economia. Le politiche ambientali non devono essere più ispirate al “controllo” dei processi ambientali, come le direttive europee chiaramente esprimono. Eppure non sarebbero difficili da applicare. L’impostazione sarebbe semplice: ridurre alla fonte la produzione di rifiuti, riciclarli come materia, e solo in ultima istanza trattarli con inceneritori e discariche.
Una favola.
Sappiamo ormai con certezza inquietante che, da un punto di vista termodinamico, la “produzione materiale” è trasformazione di energia utile in rifiuti. Invece qualcuno vorrebbe convincerci che siamo qui a dover scegliere che cosa sia meglio tra la “sobria parsimonia” – di cattolici, comunisti, social forum e no global, scienziati ed ecologisti, anche convinti liberali einaudiani degli anni cinquanta - e la grassa “crapula berlusconiana” di oggi. Risparmiare o consumare: non è questa l’alternativa. Soltanto una pessima propaganda può presentarla come tale. E a pochi viene il dubbio che il difetto stia proprio nel capitalismo egemone e nel suo stesso sistema economico.
Non si vuole capire. E allora proviamo ad usare un altro linguaggio e riprendiamo a raccontar favole ai nostri figli, ad esempio parafrasando alcune cose scritte qualche mese fa da Luigi Cavallaro sul Manifesto.
C’era una volta…
C’era una volta “una società operosa, in preda a molte difficoltà ma attiva e piena di speranze, i cui abitanti si sforzavano di essere saggi nel tentare di risolvere la contesa tra capitalismo e comunismo”. Questa società puntò ad organizzarsi in modo tale che:
– le imprese private producessero alcuni “beni” e li offrissero sul mercato;
– lo Stato producesse altri beni, in base ad un piano che a ciascuno desse secondo i suoi “bisogni” e da ciascuno richiedesse secondo le proprie “capacità”, in particolare – era scritto nella stessa Costituzione di quel paese – in ragione della sua capacità contributiva.
Nessuno aveva dubbi che fossero merci i beni della prima categoria. Erano infatti il “prodotto di un lavoro privato, che diventava sociale mediante lo scambio con quell’equivalente generale che è il denaro”. Dunque, erano prodotti che dovevano assumere la forma di valore - monetario - per poter diventare “prodotti sociali”. Non occorrevano nuove teorie economiche per capire come stessero le cose.
Che cos’erano, invece, i beni della seconda categoria? C’era chi li chiamava “beni pubblici”, perché era l’autorità pubblica a produrli. Altri ritenevano che fossero “beni prodotti in regime di monopolio”, ma si sbagliavano perché lo Stato ne controllava sia la domanda che l’offerta, mentre il monopolista per definizione accentra soltanto l’offerta del mercato. Non erano molti quelli che li chiamavano “diritti”, in quanto lo Stato li attribuiva alla collettività – ed erano dunque beni collettivi – senza imporre il pagamento di un prezzo ma solo badando che ci fossero le risorse materiali necessarie a produrli e, dunque, che i cittadini potessero fruirne “in maniera giusta ed equa”.
Il “reddito reale” di chi viveva del proprio lavoro era dato dalla somma del “salario monetario”, percepito sul mercato del lavoro, più i “servizi” forniti dallo Stato sociale. Con il salario si comperava una parte di ciò che si era prodotto e che serviva per la vita quotidiana; con i servizi sociali si provvedeva ai momenti della vita che durano più di un giorno, i momenti dei bambini, dei malati, dei vecchi.
Una favola. Ma, in alcuni luoghi della terra, “la miscela”, l’impasto, in trent’anni prese a funzionare. O almeno fu vissuto come “obiettivo” che sembrava possibile raggiungere, e fu una via, un “percorso” intrapreso. Così in questi luoghi fu raggiunto qualche risultato:
– gli imprenditori non temevano per gli “sbocchi”, perché c’era la “spesa pubblica” che cresceva;
– i cittadini non temevano per l’occupazione, perché c’era lo Stato che provvedeva a “trovare lavoro” a coloro che il “progresso tecnologico” scacciava dalle imprese;
– i lavoratori godevano di stipendi e salari “in tenue, ma costante, crescita”;
– le maggiori retribuzioni e gli altri benefici permettevano un “tenore di vita” capace di mantenere e integrare le forze logorate dalla fatica;
– gli alti salari, pur significando “alti costi di produzione”, consentivano ai lavoratori di acquistare le merci da loro stessi prodotte;
– i consumatori si avvantaggiavano dell’aumento dell’offerta di “merci e diritti”.
Non era la risoluzione di tutti i problemi, ma questa mistura era senza dubbio meglio del “capitalismo del laissez faire”. Nè giungevano notizie migliori sul “comunismo realizzato” in altre parti della terra. Eppure non mancavano, in quella saggia società, gli irriducibili, gli “adepti sfegatati” della fede nell’uno o nell’altro modello. Forse qualche ragione ce l’avevano pure, in quanto quella società assommava comunque i difetti di entrambi i modelli realizzati, il capitalista e il comunista.
Non si può trascurare che in quella società di favola c’erano comunque “sfruttamento e mercificazione”. Nel primo libro del Capitale, Marx scrive che “la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore”. Secondo l’impostazione marxiana, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la distruzione della natura sono entrambe caratteristiche distintive, che si tengono insieme, del modo di produzione capitalistico.
In secondo luogo non s’era risolto il problema di chi - e come - dovesse determinare i “bisogni dei cittadini”: non poteva convincere che la “burocrazia dello Stato” o un “segretario di partito” pretendessero di presagire quali fossero questi bisogni “senza nemmeno chiederlo agli interessati”. Qui bisognava intervenire e cercare un rimedio. E non sarebbe stato neppure difficile trovarlo. Potevano bastare tre cose:
– una pressione sociale dal basso, l’azione dei movimenti, l’impegno della società civile, la lotta dei lavoratori;
– un coordinamento politico, l’intermediazione della rappresentanza politica;
– una capacità di spesa dall’alto, i piani del governo.
Ma c’era inoltre un problema più grande, il vero problema che rimase irrisolto. La coesistenza dei due modelli avveniva “a prezzo di un’inflazione crescente, un’inflazione non elevata, ma crescente”. Perché?
In un passaggio difficile del racconto, occorrono le parole di Cavallaro, che sa di economia, a descrivere la situazione: data la “velocità di circolazione della moneta”, succede che la quantità di denaro necessaria alla “circolazione delle merci” è funzione diretta della quantità di lavoro (e di prodotto del lavoro) che è costretto a rappresentarsi in “valore”, per poter assumere la forma di lavoro (e di prodotto del lavoro) “socialmente valido”. Quindi il fatto che lo Stato spendesse moneta per finanziare prodotti del lavoro che, per diventare socialmente fruibili, non dovevano più assumere “forma di merce”, squilibrava logicamente la “proporzione” fra la massa di moneta in circolazione e la quantità di valore (e di prodotto del lavoro che si rappresentava in valore), determinando così la “svalutazione del denaro”.
Tuttavia, si preferì far finta di niente. E la favola finì. Si decise di lasciar andare le cose e non intervenire, fino a quando l’inflazione non fece alzare i “tassi d’interesse” e si tradusse in un ingigantimento del “debito pubblico”.
Maledetto debito pubblico! Fu allora che gli adepti sfegatati del capitalismo del laissez faire tirarono fuori la storia che la società si era indebitata troppo e, rispolverando proprio quel “modello einaudiano” che non dispiace a una parte della sinistra, lanciarono una grandiosa sciagurata campagna per indurre lo Stato a “risparmiare”.
Sul debito pubblico se ne dissero di belle. Era fin troppo chiaro che l’aumento del debito rappresentava solo un fenomeno monetario e non reale, eppure si disse che lo Stato si era spinto al di là delle sue “possibilità”, che non poteva garantire tutto a tutti. Nacque allora il dogma della riduzione del debito.
“La madre dei cretini è sempre incinta”, esclama Cavallaro. Sebbene la crescita del benessere avesse ridotto il “tasso di natalità” e aumentato la “vita media”, rendendo così possibile il tanto agognato sogno di lavorare meno per lavorare tutti e meglio, si trovarono stuoli di economisti e demografi pronti a spacciare per reale “l’illusione monetaria dell’aumento del debito” e a giurare che bisognava lavorare di più e più a lungo e peggio.
La morale della favola.
Qui finisce la favola di ieri e inizia la tragedia di oggi. Ci cascarono tutti. E iniziò il declino del Welfare State.
Ricordate quel che successe in Italia alla fine degli anni ottanta: scesero in campo i “miglioristi” e fu la sciagurata svolta dei “democratici di sinistra”, riemersero le posizioni dei “riformisti” – che spuntano sempre da tutte le parti! – e si diffuse l’illusione dei “progressisti”. Fu un crescendo, che in venti anni coinvolse tutto quello che essi stessi avevano costruito: la sanità, i servizi ospedalieri e assistenziali, le poste, i trasporti, lo stato delle pensioni, le condizioni del lavoro e dell’occupazione, la gestione dell’acqua e delle altre risorse esauribili, l’energia, la situazione della scuola e dell’università, l’organizzazione della ricerca scientifica, insomma tutti i “presidi dello Stato sociale”, i suoi fondamenti. E, sempre più a fondo, fino alle privatizzazioni obbligatorie, alle trasformazioni dei gestori dei servizi pubblici in società per azioni, alla concertazione del patto di stabilità, all’imposizione dei parametri di Maastricht per l’ingresso in Europa, alle riforme del sistema previdenziale, al primato unico del “liberismo economico”. Per mettere in riga paesi con trascorsi spendaccioni – in primo luogo l’Italia – furono imposte regole di “contenimento del debito” nel bilancio dello stato: la più famosa fissava al “tre per cento del prodotto lordo” il tetto del “deficit annuo”.
Sulle prime le cose parvero andar bene: il dimagrimento della spesa pubblica indusse un “ribasso dei tassi d’interesse”, l’inflazione decelerò e tutti gli abitanti di quella saggia società si sentirono un po’ più ricchi. Ben presto, però, si resero conto che l’accresciuta ricchezza monetaria veniva più che compensata dall’impoverimento reale: la demolizione dello Stato sociale colpì la maggioranza dei cittadini.
Senza più spesa pubblica, infatti, sparirono anche quei beni pubblici che prima costituivano una parte essenziale del “portafoglio” delle famiglie, tanto che per poterseli procurare queste dovettero distogliere buona parte della loro precedente spesa per consumi. Ciò, d’altra parte, contrasse ulteriormente la domanda. E si giunse alla situazione di oggi. Infatti accade che:
– gli imprenditori non trovano più “sbocchi per le loro merci” e, non potendo far altro, licenziano i loro dipendenti;
– i dipendenti, essendo privati del “reddito”, non possono comprare nemmeno il necessario per mangiare e così le merci rimangono nei magazzini;
– i prezzi scendono, “la produzione si contrae”, la disoccupazione cresce;
– perdono efficacia gli “appelli a spendere” lanciati da abili piazzisti e mercanti suadenti, finalmente giunti al governo diretto del paese;
– la campagna per il pubblico risparmio si conclude con il ritorno della “deflazione”.
La morale della favola?
Non c’è bisogno di ricorrere a Keynes, per capire che l’imposizione del tetto al deficit dello Stato non può essere un criterio da rispettare indipendentemente dalle circostanze. Diventa una camicia di forza il “patto di stabilità”, così la sua difesa ad oltranza, così come nessuna flessibilità nell’interpretare i suoi vincoli.
In tempi di fiacca congiuntura, in una situazione di crisi economica generale, i governi non devono comportarsi in modo “prociclico”, non devono cioè aggravare le tendenze recessive stringendo i “cordoni della borsa”. Devono al contrario dare impulsi alla crescita, aumentare la spesa pubblica per contrastare la recessione. Non è accettabile il solito ricorso alla retorica dell’austerità, per cui non si può vivere al di là delle risorse a disposizione. E così giustificare il taglio dei sussidi per i disoccupati, la riduzione delle prestazioni della mutua, il saccheggio degli ospedali, la mortificazione dell’istruzione, l’annullamento della ricerca scientifica, la riforma del lavoro, la riduzione della previdenza.
Per gli effetti della riduzione della domanda, quanti licenziamenti provocherebbe l’attuazione di provvedimenti prociclici e deflattivi! E poi, non è accettabile che soltanto un ulteriore incoraggiamento agli imprenditori possa produrre una vera ripresa. E il gettito fiscale? La ricetta sembra essere sempre “meno tasse per loro, riduzione dei costi del lavoro, più flessibilità”. Come giudicare, allo stesso tempo, gli ennesimi “incentivi alle imprese”, i condoni, i “provvedimenti di pace col fisco”, le agevolazioni fiscali agli imprenditori, che vengono tutte da parte di leggi dello stato, magari ammantate del moralismo delle aree colpite da calamità ambientali? E il “documento di programmazione economica e finanziaria” di quest’anno? Proporrà, come tutti quelli degli ultimi anni, generosità fiscale con i più ricchi e rigore austero con i più deboli! Meno tasse ai ricchi e più tagli alle spese sociali.
Che fare?
Ecco dunque che l’alternativa non può più essere tra risparmiare o aprire i cordoni della borsa. Che alternativa ci sarebbe tra continuare nei tagli allo Stato sociale e ridurre le aliquote sull’imposta dei redditi, favorendo i più ricchi che così avrebbero più soldi da spendere in consumi privati!
Che fare, invece?
Non ci sono ricette valide per ogni tempo ed ogni luogo, ma occorrono sperimentazioni, anche a partire da qualche certezza critica per non procedere al buio. Occorre riprendere e rivedere il percorso interrotto anni fa, lavorando ad un modello economico che sia einaudiano, parsimonioso, nei “consumi privati” e berlusconiano, crapulone, nei “consumi collettivi” dello Stato sociale. E non viceversa.
Ma i partiti della sinistra e i movimenti sono disposti a lavorare nella ricerca comune di tale modello? Sono disposti a rimettere in causa i tradizionali paradigmi della scienza economica, a cominciare dalla messa in discussione dell’aumento della domanda e dei consumi, a dubitare del parametro della “crescita del pil”, non considerarlo più come la migliore soluzione ai problemi odierni?
La globalizzazione costringe tutti i paesi alla competizione. Costringe a competere su diversi piani, e tutti questi piani convergono sempre nell’incremento dei ritmi di crescita. Ma, oltre certi limiti, la crescita incontra “rendimenti decrescenti e costi crescenti”. Significa che dobbiamo “decelerare la crescita”?
Sono le stesse evidenze empiriche a far dubitare della parola d’ordine della “crescita zero”. Se fosse bastato un rallentamento del ritmo di crescita, sarebbe stato lo stesso neoliberismo in questi anni a condurci fuori dalla “crisi ecologica”. Osservando peraltro i tassi di crescita del pil dagli anni settanta ad oggi per i paesi più avanzati, si può constatare un loro continuo e consistente abbassamento e non risulta che l’assalto alla natura sia rallentato. Così come non sembra che i paesi in via di sviluppo, sottoposti alla soffocante “vigilanza macroeconomica” del Fondo Monetario Internazionale abbiano conseguito risultati esemplari sul piano della “tutela ambientale” e del ridimensionamento dell’ordine capitalistico.
Dunque, è difficilmente proponibile un arresto, anche un forte contenimento della crescita, specie se perseguito da un solo paese e peraltro nell’epoca della “globalizzazione”. Sarebbe rovinoso anche per gli strati popolari. L’area della miseria si allargherebbe. Aumenterebbero le devastazioni ambientali, che, oltre ad essere prodotte dall’irresponsabilità dei ricchi, si alimentano anche della disperazione dei poveri del mondo. Enormi “sofferenze” sarebbero inflitte ai più deboli, che ne sarebbero colpiti per primi. Non sarebbe praticabile in un contesto democratico e rischierebbe di sfociare in uno “spaventoso autoritarismo”.
Se la decelerazione della crescita, o una riduzione del suo livello, non portano alcun giovamento, allora la soluzione è certo nella “qualità della crescita”. Infatti è più percorribile un radicale mutamento nella struttura della produzione, della distribuzione, dei consumi. Per uscire dalla “compulsione ossessiva” verso la crescita illimitata della produzione, propria del capitalismo, occorre cambiare, simultaneamente, il modo di lavorare e di produrre. In questo caso, più che le dimensioni della torta, conterebbero gli ingredienti: le nuove tecnologie pacifiche, e non inquinanti, la sanità, la scuola, la ricerca, i servizi immateriali, la cura delle persone, e della natura. Così la “consapevolezza ecologista nel sociale” può diventare l’arma più potente per insidiare le basi dell’economia capitalistica di mercato e ridimensionare l’attuale ordine socio-economico: e può farlo di concerto e non in contrapposizione con le classiche, irrinunciabili, rivendicazioni salariali e normative dei lavoratori.
Un’inversione di tendenza potrebbe allora aver luogo su scala locale e alimentarsi su quella continentale, guidata da iniziative pubbliche democratiche, compensata dal contemporaneo espandersi di settori non mercantili, rivolta alla produzione di beni sociali, indirizzata allo sviluppo reale della ricchezza durevole, mirata alla tutela delle risorse vitali, tendente al servizio delle persone ed alla protezione della dignità umana: una produzione per sua natura non lesiva dell’ambiente.
Si potrebbe pensare ad una “regola del pil” consistente non già nel massimizzarlo, bensì nell’ottimizzarlo. É solo una formula concisa. Più estesamente significa:
– “minimizzare materiali ed energia necessaria” immessi nella produzione;
– stabilizzare la produzione stessa, “qualificare i processi produttivi”;
– massimizzare il “prodotto sociale”, i servizi e le utilità rese al genere umano.
Ciò potrebbe servire a mettere d’accordo economisti ed ambientalisti nella ricerca di modelli nuovi. Importante è anche il ruolo esercitato dai produttori di tecnologie, dai loro obiettivi realizzativi, dalla ricerca industriale. Provare non nuoce, anzi è necessario.
Non di più, né di meno: abbiamo invece bisogno di una “crescita diversa”. Ed occorrono nuovi “indicatori” di benessere e di crescita. Ma soprattutto occorre adottare nuovi “metodi pratici”, ricercare nuove trasformazioni concrete, introdurre riforme necessarie per realizzare una crescita equilibrata che “minimizzi l’aumento universale dell’entropia”, ne riduca la velocità di incremento. Bisogna convincersi che l’interesse della specie umana è quello di avere il più lungo arco di vita, compatibile con la bassa entropia di cui è stata dotata.
Se, dunque, l’arresto, il forte contenimento, la crescita zero o la crescita negativa non sono proponibili, si può invece mettere in piedi una diversa qualità dello sviluppo. Una mutata qualità dello sviluppo ha poco a che vedere con il “keynesismo consumistico” dell’età dell’oro del capitale e comporterebbe la crescita di alcuni settori e il declino d’altri.
Ma un tale obiettivo richiede come presupposto ineludibile un contemporaneo rovesciamento dell’attuale “rapporto di forza tra capitale e lavoro”. Come si era cominciato a fare negli anni sessanta e poi si continuò nei settanta, bisogna di nuovo far interagire il conflitto sul lavoro con la lotta per una diversa organizzazione della produzione e del consumo. Non è un caso che la centralità del lavoro in quegli anni, pur con tutti i suoi limiti, sia stata all’insegna di una “lotta al produttivismo”.
Occorre una svolta radicale sul terreno della politica economica: allentare la pressione odierna sul “mondo del lavoro” grazie anche a politiche espansive, fare di quest’ultimo un protagonista della ridefinizione strutturale dell’assetto economico e sociale. Una ripresa del “controllo dello Stato” sulle leve della domanda, come su quelle della politica industriale e dell’offerta, potrà ridefinire cosa si produce e come.
Un’altra storia.
In sintesi: l’espansione della domanda non è, dunque, sinonimo di crescita dei consumi privati. É sbagliato anche assimilare una politica di “espansione del reddito” pressochè automaticamente alla “crescita della produzione di merci”, ed inoltre identificare quest’ultima con la “produzione di beni e servizi materiali”.
Oggi, si tratta di interrompere la perversa tendenza allo squilibrio tra beni privati e beni sociali, nella composizione del prodotto di una società industriale. Può ancora accadere che, all’orizzonte più estremo dell’opulenza, la nostra società riscopra anche la gratuità, il disinteresse, la reciprocità, l’economia del dono?
Dobbiamo convincerci che non c’è solo il mercato; che si può riprendere ad estendere il settore non mercatistico dell’economia associativa, il mondo delle relazioni interpersonali e sociali dirette; che, nonostante tutto, c’è il campo del no-profit.
Con incentivi e disincentivi fiscali, si può correggere, gradatamente e sistematicamente, il sistema dei prezzi e spostare l’asse della produzione verso i processi che impiegano energie rinnovabili e informazione. Oltre certi limiti, la competizione nel consumo privato è distruttiva. Consuma energia e produce frustrazione. Invece, i beni sociali sono di norma accrescitivi, soprattutto quelli immateriali. E poi c’è la riconquista di dignità ed autonomia del lavoro come dimensione essenziale, anche se non esclusiva, dell’essere umano.
Parafrasando una vecchia storiella, si potrebbe raccontare di “quei due che, scambiandosi un euro, rimasero ciascuno con lo stesso euro. Scambiandosi invece un’idea, ciascuno se ne ritrovò due”. E così furono più ricchi.
Economia, tecnologia e nuovi equilibri geopolitici possono combinarsi in una moderna miscela che può produrre il superamento del capitalismo. Nella seconda metà del ‘900 la combinazione tra fordismo, keynesismo e guerra fredda aveva imboccato una via, piena di contraddizioni ed ostacoli, ma interessante, poi interrotta. Oggi, ci sono altri presupposti, per frenare il declino dello Stato sociale e proporne una nuova ascesa, più consapevole, su basi diverse e – tecnologicamente, economicamente, ecologicamente – più mature. A partire dalla riconquista, in Italia e in Europa, di uno spazio pubblico, un luogo di organizzazione di tutto ciò che vive fuori dal mercato e dalle sue logiche: la priorità dei beni comuni, nuovi diritti, nuovi bisogni sociali. Un altro mondo è, dunque, possibile! Ora.