Nel numero di dicembre 2001 di questa stessa rivista è stato ospitato un intervento sull'area di sviluppo industriale di Molfetta e sull'opposizione manifestata nei confronti di tale insediamento fin dagli anni 1995-1996 dalla locale sezione del WWF. Si rammentava nell'articolo come le argomentazioni del WWF si incentrassero pressoché esclusivamente su aspetti attinenti all'economia ed all'occupazione, piuttosto che su motivazioni strettamente connesse alla sfera ambientale. In particolare, venivano messi in luce la velleitarietà ed il pressappochismo che caratterizzavano l'iniziativa, l'inaffidabilità del maggiore soggetto protagonista, il Consorzio ASI, la mancanza di una seria progettualità e l'incapacità o il disinteresse da parte dell'amministrazione comunale a dettare condizioni ed ottenere garanzie su occupazione, contratti di lavoro, condizioni di sicurezza, oltre che sulla tutela dell'ambiente e dei siti di interesse storico.
Si fece rilevare, con un vano appello al buonsenso, come l'area destinata a futuri insediamenti aziendali fosse eccessiva in rapporto alle dimensioni particolarmente modeste del territorio molfettese, che già ospitava una zona artigianale, con una previsione di occupati per 1.200 addetti, mentre era già stata avviata la realizzazione di una ulteriore area artigianale per altri 1.200 occupati. Si sottolineò la totale inverosimiglianza della previsione di occupazione aggiuntiva prevista per la zona industriale, pari nientemeno che a 15.000-16.000 unità (si fece sommessamente notare all'epoca che la cifra corrispondeva all'incirca al 25% della popolazione di Molfetta, compresi i bambini, gli anziani ed i malati incurabili), mentre erano sotto gli occhi di tutti le condizioni di abbandono e di rovina di altri analoghi insediamenti anche nella stessa provincia di Bari.
Fu recitata all'epoca, da parte dei politicanti al governo della città, la consueta commedia delle parti e dello scaricabarile. Esponenti della giunta comunale espressero pubblicamente la loro perplessità e contrarietà all'istituzione della nuova zona industriale, mentre il responsabile della stessa amministrazione municipale promise che l'area di insediamento sarebbe stata fortemente ridimensionata e comunque investita solo gradualmente, in presenza di solide e concrete prospettive e richieste di assegnazione di suoli da destinare all'insediamento di attività produttive. È inutile dire che ci si è guardati bene dal mantenere queste promesse.
Particolarmente istruttivo fu il comportamento tenuto dall'allora capo dell'amministrazione comunale nella manifestazione pubblica in cui il WWF espose il suo punto di vista ed i risultati dell'analisi svolta con il contributo e l'intervento di un proprio esponente nazionale. Per l'intera durata del dibattito, il sindaco mostrò di aver capito l'esatto contrario di ciò che vi si diceva, fingendo che gli intervenuti si fossero soffermati solo ed esclusivamente sulle esigenze di tutela dell'ambiente e del territorio. Senza alcun rispetto per la dignità della carica, né dell'intelligenza degli interlocutori, trascinò la finzione fino alla fine, interpretando la parte del politico saggio, responsabile ed equilibrato, obbligato a contemperare e conciliare tutte le diverse esigenze emergenti dal seno della società, dalla tutela dell'ambiente alla salvaguardia e creazione di posti di lavoro. Un gran bel personaggio da interpretare nel grande palcoscenico della vita!
È da ritenersi che i politicanti si sentano gratificati dalla riuscita di simili esercizi di furbizia, che dal loro punto di vista evidentemente costituiscono un successo, e che considerino un tale comportamento funzionale ed efficace ai fini elettorali. Perciò, a meno che costoro non ritengano che possa servire a migliorare le proprie chances elettorali, è da escludersi che si rompano la testa ad analizzare, capire, spiegare e perseguire i reali interessi della collettività. Sono cose, queste, che le comunità possono fare solo direttamente, imponendosi al potere politico-affaristico, e che necessariamente richiedono un alto grado di impegno anche intellettuale, di partecipazione socio-politica e di conflitto con il potere politico-affaristico costituito.
Per tornare alle zone industriali, altrimenti dette, soprattutto con riferimento al meridione d'Italia, cattedrali nel deserto, esse possono essere esemplarmente considerate frutto di una particolare concezione della ricchezza, dell'interesse collettivo e del benessere, che, a ben vedere, non ha alcun fondamento nei principi e nelle leggi dell'economia, cui tuttavia costantemente si richiama. I fautori di questo genere di iniziative mostrano, infatti, di essere convinti che possa tornare senz'altro utile e vantaggioso per una comunità locale o nazionale e perfino per l'umanità nel suo complesso, distruggere beni che la natura ed il lavoro umano hanno impiegato milioni di anni a realizzare. Per lo più, infatti, oltre alla natura inanimata ed alle vestigia storiche, la distruzione riguarda gli esseri viventi vegetali ed animali e le attività produttive già esistenti o potenzialmente installabili come fonti di risorse alimentari.
Successivamente all'opera di espropriazione, spianamento, cementificazione, elettrificazione, ecc., le aree destinate ad insediamenti aziendali vengono assegnate alle imprese che ne fanno richiesta a prezzi estremamente vantaggiosi, se non praticamente nulli. Si afferma, con tali regali, di perseguire l'interesse collettivo, in quanto le imprese sarebbero incoraggiate a sorgere, ingrandirsi o trasferirsi nelle nuove zone di cosiddetto sviluppo industriale, con benefici in termini di occupazione e produttività. Il fatto che i consorzi di sviluppo industriale in sostanza regalino risorse non proprie, che tali operazioni si basino largamente sul privilegio ed il favoritismo, oltre che sulla violazione delle regole della concorrenza e della libera iniziativa, in questo caso non provoca alcuna reazione indignata, neanche tra i più accesi sostenitori del liberismo, della proprietà privata e della sovranità del mercato.
In pratica, per il vantaggio, oltretutto dubbio, per lo più modesto e, come i fatti hanno fin qui invariabilmente dimostrato, del tutto temporaneo e precario di qualche soggetto privato, si distruggono, anziché difendere, recuperare, valorizzare e potenziare, risorse certe e disponibili con spesa scarsa o nulla, rientranti fra quelle più preziose ed indispensabili per la sopravvivenza. È, a ben vedere, un esempio tra i più evidenti di comportamento imprevidente, irrazionale ed antieconomico. In un tempo, come l'attuale, caratterizzato da mutazioni climatiche, desertificazione, migrazioni, aumento della popolazione mondiale e peggioramento del rapporto fra popolazione e disponibilità di risorse alimentari – il territorio pugliese è, del resto, tra quelli maggiormente investiti dalle conseguenze dirette ed indirette di tali fenomeni – le risorse naturali ed alimentari dovrebbero essere difese con le unghie e con i denti. Nulla infatti assicura che in un futuro anche prossimo continui ad essere possibile procurarsi altrove agevolmente ed a costi sostenibili quelle fonti di alimenti che si è ritenuto di distruggere in casa propria. In altri termini, tale comportamento è in patente contrasto con le leggi dell'economia, oltre che, evidentemente, con le regole del comune buonsenso. Come d'altra parte dovrebbe essere notorio, tali leggi e regole richiedono, per decidere se una qualunque attività umana comporti un aumento o una riduzione della ricchezza, un confronto il più possibile accurato, completo e razionale fra costi e benefici. Per quanto superfluo, un tale calcolo non può prescindere da quegli elementi di costo o ricavo che non hanno manifestazione commerciale e finanziaria.
Invece, per strano che possa sembrare, tra i politicanti, gli affaristi, i sindacati e tra gli economisti direttamente o indirettamente dipendenti per le loro fonti di reddito da queste stesse componenti sociali e, conseguentemente, su tutti i mezzi di comunicazione di massa, prevale largamente un concetto di ricchezza che non ha niente a che vedere con le elaborazioni ed acquisizioni delle discipline economiche in un lavoro di secoli, se non di millenni. A ben vedere, le concezioni acquisite dalle discipline economiche non si discostano sostanzialmente da quelle di cui i soggetti privati o pubblici - imprenditori, finanzieri, lavoratori, pensionati, oltre ad economisti, commercialisti e ragionieri – si servono ogni volta che fanno il calcolo del proprio patrimonio e del proprio reddito annuo. Le regole delle discipline economiche e contabili, che largamente corrispondono a quelle delle aziende, delle famiglie e anche – indiscutibilmente – del buonsenso, affermano che la ricchezza di un qualunque soggetto, altrimenti detta patrimonio proprio o capitale netto, è data dalla differenza fra ciò che possiede (attivo) ed i debiti (passivo). Ne deriva – per quanto banale – che la ricchezza dello stesso soggetto può incrementarsi sia per effetto dell'aumento dell'attivo sia per la riduzione dell'indebitamento sia, più frequentemente, per una combinazione di variazioni di entrambe le grandezze, ovviamente anche di segno opposto.
Ciò che determina le variazioni della ricchezza nella sua entità e nelle sue componenti è il reddito, ossia la differenza fra la ricchezza che si è acquisita o realizzata (ricavi) e quella che si è ceduta o consumata (costi) nell'unità di tempo, per esempio in un anno. È pressoché superfluo rammentare che una tale differenza può essere positiva o negativa e, in tale secondo caso, si parla di reddito netto negativo o di perdita. È il caso di rammentare che ciascun cittadino contribuente è chiamato a partecipare alla copertura delle spese annue della propria comunità nazionale proprio sulla base della ricchezza annualmente conseguita (reddito) e di quella posseduta (patrimonio), definite nei manuali di scienza delle finanze manifestazione diretta della capacità contributiva.
Si chiede scusa per il carattere sicuramente pedante ed elementare dei concetti esposti, che si spera non si vorrà attribuire a intenzione offensiva o caricaturale per la loro ovvietà, se non banalità. In realtà, una tale intenzione è del tutto assente. A parte il rispetto dovuto alle regole secolari, forse millenarie, della partite doppia ed alla genialità del loro inventore, la necessità di richiamarle nasce proprio dal fatto che esse sono bellamente ignorate e travisate da tutti i soloni che quotidianamente discettano di economia e finanza su quotidiani e riviste, in televisione, alla radio, su internet e altrove.
A puro titolo di esemplificazione, fra i miliardi di possibili citazioni, si riporta uno stralcio da un articolo a firma del prof. Enzo Scandurra, pubblicato su un quotidiano a diffusione nazionale. Non si intende, con ciò, esprimere alcun giudizio negativo sull'intervento, scelto, anzi, proprio perché ritenuto particolarmente significativo ed interessante e, in tutta evidenza, concepito in buonafede ed onestà di intenti, peraltro non sempre ravvisabili in altri scritti dedicati all'argomento: “Ecologia ed economia hanno la stessa radice eco, che poi significa oikos, casa, patria, terra. Ma le due discipline sono ormai in rotta di collisione tra loro. In economia vige la regola che il Pil deve sempre aumentare. Guai se questo non accade, come ci sentiamo dire con ossessione in questi giorni da tutti i mass-media. In ecologia vale la regola opposta: non esiste un organismo, pianta o animale, che cresca illimitatamente…, se ce ne fosse, anche uno soltanto, nel corso dei milioni di anni della vita del pianeta, avrebbe distrutto qualsiasi altra forma di vita.”(1)
Nonostante le ottime intenzioni dell'autore, docente a La Sapienza nel corso di laurea in Ambiente e Territorio, le affermazioni appena riportate appaiono inesatte nella parte attinente alla discipline economiche. Proprio per questo vale la pena di tentare di analizzarle. L'affermazione secondo cui economia ed ecologia sarebbero discipline in rotta di collisione è un luogo comune, incautamente ripreso dal professore, del quale però non appare possibile mettere in discussione la buona fede. Tale luogo comune è, infatti, un leit motiv largamente avallato, ripreso e rilanciato dai mezzi di comunicazione di massa, oltre che da economisti e politicanti che fanno un uso strumentale alquanto disinvolto delle materie economiche e dei loro fondamenti teorici. Il tutto si basa sul già richiamato errato concetto di ricchezza, divenuto però di uso comune ed indiscusso, nel senso che nessuno lo pone mai in dubbio. In altri termini, in maniera ambigua, equivoca, surrettizia, ma con assoluta costanza e fedeltà al luogo comune e, quindi, con grande efficacia di propagazione e consolidamento dell'errore, ad ogni piè sospinto si identifica la ricchezza della collettività con il Pil.
Nel caso degli economisti, evidentemente, più che di errore si deve parlare di falso e, quindi, di raggiro nei confronti del pubblico. Nessun economista, per quanto scalcinato, può infatti ignorare che il Pil non coincide con la ricchezza, né con quella esistente in un dato momento, né con quella prodotta in un periodo di tempo. Il Pil è propriamente la somma delle fatturazioni effettuate o da effettuare in relazione all'attività svolta dalle aziende e da enti privati, pubblici e misti ad esse assimilabili in una unità di tempo, in genere in un anno solare. Al fine di evitare duplicazioni, il calcolo del Pil in pratica si effettua sommando il cosiddetto valore aggiunto dei soggetti menzionati, vale a dire la differenza fra il totale delle fatture emesse e da emettere e quello delle fatture ricevute o da ricevere. Il Pil è una grandezza a suo tempo concepita per compiti statistici specifici e limitati a taluni particolari ambiti di studio. In nessun modo si presta all'uso indebitamente estensivo di cui viene fatto correntemente oggetto.
Nel calcolo del Pil entra tutto ciò che riveste un aspetto commerciale, ossia ogni atto di compravendita o scambio, che implichi trasferimento attuale o futuro di mezzi finanziari. Pertanto, esso comprende indifferentemente sia attività finalizzate alla produzione di beni e servizi sia attività distruttive (fabbricazione e impiego di armi, attività eversive di servizi segreti, organizzazione ed esecuzione di atti di guerra o di terrorismo, omicidi, colpi di stato, rivolte, insurrezioni, rivoluzioni, conflitti di ogni tipo e per le più varie finalità). Tali attività, peraltro, sono lato sensu assimilabili e assimilate a forniture di merci e prestazioni di servizi e richiedono spese e remunerazioni oltretutto mediamente alquanto più consistenti e gravose in rapporto a quelle comportate dall'ordinaria sfacchinata lavorativa della gente comune.
Esse comportano, altresì, la trasgressione alle regole più elementari del calcolo economico. A puro titolo esemplificativo, si sottolinea come nel calcolo del Pil siano entrati col segno “più” tutti i costi sostenuti per le guerre e i bombardamenti in Irak ed in Afghanistan, per far fronte all'emergenza dell'attentato alle torri gemelle, per i funerali dei militari alleati uccisi dopo la fine ufficiale della guerra in Irak e così via, mentre in nessun modo sono stati considerati col segno “meno” i lutti e le distruzioni che quegli stessi eventi hanno comportato.
Per altro verso, nel Pil non entra tutta quella produzione di beni e servizi utili, compresi i più indispensabili per la sopravvivenza e per la vita quotidiana, che non hanno una manifestazione commerciale e finanziaria. In tale contesto rientrano, ad esempio, larga parte delle attività svolte nell'ambito dei gruppi familiari, degli organismi di solidarietà, delle associazioni umanitarie, degli enti sanitari, assistenziali, religiosi, culturali, sportivi, ecc. Il fatto che tutta questa ricchezza, ossia produzione di beni e prestazioni di servizi, comporti dei problemi di calcolo o di valutazione non significa che non esista o debba essere ignorata. Se queste fonti di ricchezza vengono di solito ignorate, è perché, per lo più, un certo genere di economisti e politicanti fa un impiego strumentale delle discipline economiche, nel senso che le usa per sostenere determinati interessi, posizioni politiche, concezioni delle società e del mondo, non per cercare di capire e far capire, cosa che verosimilmente dovrebbe costituire il compito primario, o forse unico, di uno studioso onesto e benintenzionato.
Per tutto quanto esposto, il calo del Pil può non implicare alcuna riduzione e anzi costituire un elemento positivo nel calcolo della ricchezza, qualora derivasse da una diminuzione di eventi catastrofici e luttuosi o comunque a carattere distruttivo. Il calo, infatti, non riguarda la ricchezza, ma, propriamente, gli affari, ossia il volume delle entrate attuali e future degli uomini d'affari, il cui ruolo nell'ambito della società, come ebbe a sottolineare la buonanima di Veblen, è “far soldi”, non produrre beni, soddisfare bisogni e risolvere problemi. Gli interessi degli uomini d'affari, del profitto, delle imprese richiedono che i bisogni, le spese, i consumi vengano incrementati, se possibile inventati, indotti, creati dal nulla, tramite la pubblicità ed altre tecniche di vendita, tendenti a stabilire od accentuare l'emulazione ed il confronto antagonistico fra i consumatori, come il genio dello stesso Veblen aveva rilevato già prima della fine del secolo XIX.
Per tornare all'articolo del prof. Scandurra, non l'economia ma gli affari sono in conflitto con l'ecologia, così come non l'economia ma gli affari richiedono la continua crescita del prodotto interno lordo. Con queste correzioni, per il resto le affermazioni del professore sono ineccepibili. In effetti, nessuna salvezza può essere garantita all'umanità, se una sua componente, nello specifico gli affari, i profitti e i valori finanziari, ha la pretesa di crescere illimitatamente.
Nella situazione locale richiamata in esordio, risorse preziose ed irriproducibili sono state distrutte per mettere su quattro soldi di giro d'affari. Su scala globale, una volta esauritesi o ridimensionatesi drasticamente le possibilità di espansione territoriale a spese dell'ambiente naturale e dei popoli estranei alla cultura occidentale, il volume d'affari del grande capitale è stato allargato tramite l'indebitamento delle famiglie, degli stati e degli altri enti pubblici e tramite la finanziarizzazione dell'economia. In ultimo, come già a più riprese è accaduto nel corso del Novecento, gli uomini d'affari stanno divorando il corpo stesso delle società occidentali e, quindi, le loro stesse basi di esistenza. Attualmente, infatti, in tutto l'Occidente e in primo luogo negli Stati Uniti, è in atto una aggressione all'economia, alla ricchezza, al benessere ed alle stesse possibilità di sopravvivenza della popolazione mondiale. In pratica, gli uomini d'affari e le multinazionali, da un lato, stanno raschiando il fondo del barile e divorando le risorse accantonate a fini previdenziali dai lavoratori e dai pensionati; d'altro lato, hanno rilanciato la distruzione sistematica di ricchezza tramite l'escalation su grande scala della fabbricazione di armamenti e delle guerre, finanziate tramite una colossale espansione del debito pubblico, particolarmente vistosa negli Stati Uniti.
A tale ultimo riguardo, si chiede doverosamente scusa per lo strafalcione sfuggito nell'articolo editoriale del numero precedente, a causa del quale il debito pubblico degli Stati Uniti è stato del tutto arbitrariamente moltiplicato per 1.000. Correttamente, l'effettivo ammontare del debito al 4 aprile 2002 deve essere fatto ascendere a 6,021 trilioni di dollari e non 6.021, come erroneamente indicato dalla fonte citata. Il fatto che quello richiamato sia l'errore di qualcun altro non riduce la responsabilità del redattore, che avrebbe dovuto verificare il dato o, quantomeno, accorgersi della sua inverosimiglianza. In effetti, a fine 2001 il debito pubblico degli Stati Uniti era pari al 59,5% del prodotto interno lordo, che nello stesso anno è ammontato a 9,944 trilioni di dollari.
Peraltro, una volta ricondotto il debito pubblico USA alle sue reali proporzioni, è possibile rendersi conto della effettiva pesante incidenza della sua crescita sul popolo statunitense e sulla sua economia. L'attuale ritmo di incremento del debito pubblico statunitense, pari a due miliardi di dollari al giorno e ad un aumento annuo di circa 700 miliardi, sarebbe stata una goccia nel mare se effettivamente riferita ad un ammontare di 6.021 trilioni, mentre, così come stanno realmente le cose, esso corrisponde ad una percentuale annua di aumento dell'11,60%, rispetto ad un incremento annuo del prodotto interno lordo che viaggia su tassi annui tutt'al più del 3-4%. Non occorre affatto essere un economista di livello eccelso, per capire che quello descritto è un vero e proprio disastro per il popolo americano e la sua economia. Come già sottolineato, però, molti economisti e mass media non hanno interesse a far capire e a divulgare ciò che sanno ed hanno capito benissimo.
Tutto ciò sembra dare piena ragione al pessimismo di quanti si sono convinti della cecità e del carattere intrinsecamente folle e suicida delle istituzioni del capitalismo occidentale.
Una maniera per tentare di contrastare efficacemente questa tendenza distruttiva e suicida potrebbe essere costituita dal sabotaggio su scala mondiale delle istituzioni e dei prodotti finanziari su cui il sistema affaristico-militare si regge. Il vero bottino o malloppo degli uomini d'affari è costituito infatti proprio dal debito pubblico, in grande misura sottoscritto dalla gente comune nella veste di risparmiatori ed investitori. Ovviamente, una azione del tipo delineato richiede un grande impegno a livello globale di sensibilizzazione, organizzazione ed assistenza nell'impiego alternativo delle risorse, che verrebbero in tal modo sottratte alla gestione del potere affaristico-politico-militare.
(1) Enzo Scandurra, Pioggia, sviluppo e governo ladro, il manifesto, venerdì 15 agosto 2003.